Intervista a Ivana Galli a cura di Alessia Gabriele.
Come è cambiato il ruolo del sindacato nell’ambito delle dinamiche contrattuali e dei processi di negoziazione a seguito di tali previsioni? A quale livello contrattuale possono riferirsi in modo prevalente le iniziative di welfare aziendale promosse? Oppure se non c’è stato un livello prevalente, qual è stato (e di che tipo) il coordinamento e il raccordo tra i vari livelli contrattuali?
Sicuramente le disposizioni normative hanno incentivato il raggiungimento di intese soprattutto a livello aziendale e territoriale. Il ruolo sindacale ha tentato di svolgere un compito anche di natura culturale, promuovendo un welfare “consapevole” e finalizzato alla risposta di bisogni sociali urgenti. Il lavoro è stato complesso perché non tutte le imprese hanno approcciato il tema del “benessere” come una priorità anche strategico-organizzativa. Dove il welfare è stato oggetto di negoziazione, i risultati sono stati importanti perché si è intervenuti sulla sfera dei diritti sociali, previdenziali, della formazione, con interventi integrativi all’offerta pubblica. La contrattazione aziendale copre però solo circa il 20% delle imprese; la prassi delle concessioni unilaterali dei datori di lavoro quindi, come premio alla fidelizzazione del dipendente, è continuata, a volte anche in sostituzione del riconoscimento salariale.
Con riferimento alle misure di welfare aziendale, in che modo la possibilità di introdurre beni e servizi di welfare per via contrattuale (ai vari livelli) può costituire un’occasione di rinnovamento per i rapporti tra management e sindacati in azienda? Secondo Lei queste esperienze potranno rappresentare il viatico per cambiare la natura conflittuale delle relazioni industriali in azienda e avviare una nuova stagione di partecipazione dei lavoratori (mediante le loro rappresentanze sindacali) nelle fasi di definizione delle condizioni lavorative?
La negoziazione del welfare è stata una opportunità per ampliare il ventaglio delle potenzialità della contrattazione anche in ottica innovativa. Per noi il welfare non può però essere ritenuto mai il fine ultimo della contrattazione, ma uno strumento fra gli altri per ampliare le risposte ai bisogni dei lavoratori ed estendere la copertura della contrattazione integrativa, sia essa aziendale che territoriale.
Ci pare azzardato arrivare a sostenere che tramite la negoziazione del welfare si possa cambiare il modello delle relazioni sindacali in un’ottica meno conflittuale e maggiormente partecipativa.
La partecipazione, come la intendiamo noi, è un cambio di passo, di forma mentis, che deve interessare in primo luogo le imprese italiane, da sempre poco inclini a condividere politiche strategiche e organizzative con le rappresentanze dei lavoratori. Ovviamente esistono lodevoli eccezioni che però ancora non sono in grado di invertire una tendenza che è abbastanza conservatrice.
In un’ottica di Corporate Citizenship e di Corporate Shared Value, il welfare di natura occupazionale si pone come una possibile soluzione ai nuovi rischi e ai bisogni sociali dei lavoratori e dei loro familiari, soprattutto in ottica di work-life balance. A livello generale, quali dinamiche virtuose di sostegno alla conciliazione vita-lavoro potrà innescare il sindacato attraverso la contrattazione collettiva diffusa in un numero sempre maggiore di imprese?
È un obiettivo sfidante che, lasciato in capo alla contrattazione, non è in grado di essere centrato. La contrattazione integrativa infatti è tale quando migliora le condizioni normative e gli strumenti di legge che favoriscono temi quali appunto la conciliazione.
Il problema della conciliazione vita-lavoro dipende da una serie di fattori, di cui le condizioni lavorative sono una parte. Perché si ottenga un reale equilibrio fra lavoro e vita extra lavorativa è necessario poter contare su un welfare pubblico accogliente e inclusivo, su norme che permettano la condivisione della cura fra uomini e donne, su una vera e convinta azione di tutti per rimuovere gli ostacoli che ancora permangono alla piena occupazione femminile e alla piena realizzazione professionale delle donne.
Non è tutto oro quello che luccica. In realtà si segnala che a livello aziendale l’applicazione delle misure di welfare e di work-life balance si riduca poi alla concessione di semplici buoni o voucher spesa che, nei fatti, poco hanno a che fare con il welfare. Quali strategie si possono mettere in atto per evitare queste distorsioni e monitorare l’effettività delle azioni previste a livello nazionale?
Bisogna assumere un approccio olistico alla contrattazione del welfare. Giusto negoziare le iniziative e le prestazioni, ma bisogna anche contrattare le condizioni, gli strumenti la coerenza dell’erogato con le esigenze dei dipendenti: vanno monitorati sia la domanda (chi offre i servizi), sia l’effettivo utilizzo e soddisfazione (da parte dei lavoratori).
Prendiamo il caso delle piattaforme. Bisogna negoziare anche questo aspetto, e non limitarsi a che il rapporto impresa-fornitore dei servizi sia bilaterale. Il welfare, che deriva da un accordo, deve mantenere una sua coerenza con la sua origine anche valoriale. Dobbiamo poi cercare di innescare incastri virtuosi fra welfare occupazionale e welfare tradizionale in una prospettiva integrativa e mai sostitutiva.
Tra le distorsioni del sistema di welfare non si può tacere anche la disomogeneità a livello contrattuale collettivo delle misure messe in campo, sia per aree geografiche, sia per dimensioni aziendali, sia per settore, sia ancora per tipologie contrattuali. Anche in questo caso il sindacato ha una strategia “difensiva” che miri a creare un unico livello base a partire dal quale costruire in melius ove il contesto economico e produttivo consenta interventi al rialzo?
Ricordiamo che la negoziazione del welfare si innesta su un piano già profondamente dualistico. Le imprese che hanno accordi di secondo livello non arrivano al 20% del totale del tessuto produttivo italiano. La contrattazione nazionale non presenta ancora casi importanti. A ciò si aggiunge la disparità di natura geografica. L’unica “cura” è promuovere un welfare nazionale meno frastagliato su cui innestare l’offerta del welfare occupazionale.
Secondo la vostra esperienza, esiste in Italia una consapevolezza diffusa nel management aziendale che le misure a sostegno della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro assolvono allo scopo di alleggerire i carichi di cura dei lavoratori e che dovrebbe diventare strutturale una strategia di gestione delle risorse umane che punti alla valorizzazione del tempo come una leva di retention per l’intera popolazione aziendale? Condividete l’idea per cui il fattore “tempo”, ‒ nell’ambito di un’evoluzione tecnologica che supporta modalità di lavoro a distanza e la diffusione dello smart working ‒ costituisce un elemento sempre più presente nel rinnovamento dei processi organizzativi e può quindi diventare uno dei temi principali oggetto di negoziazione collettiva proprio per favorire lo sviluppo di prassi aziendali virtuose di work-life balance?
Come si è già avuto modo di rimarcare, manca una cultura imprenditoriale diffusa che non veda nel welfare un business o uno strumento di abbattimento del costo del lavoro. Anche sul benessere organizzativo risultiamo ancora attardati, se si escludono esperienze lodevoli e positive spesso in capo a grandi gruppi (Eataly, Luxottica, Ducati, Ferrero, Barilla, Eni, Enel). La vera conciliazione prelude alla volontà di mettere mano all’organizzazione del lavoro e non solo a elargire individualmente concessioni.
Il fattore tempo sarà sempre più centrale. Si pensi al problema dei lavoratori del commercio obbligati a lavorare nei festivi, rispetto ad una società ancora largamente impostata su orari che concepiscono la settimana da lunedì a venerdì. Liberare tempo per i lavoratori deve coincidere con il ragionare di un concetto di produttività differente, anche questo assai lontano purtroppo dal main stream imprenditoriale italiano.
Negli ultimi anni si è registrata un’evoluzione significativa per quanto riguarda congedi parentali, maternità/paternità e part-time reversibile. Che giudizio date su queste misure per incentivare la partecipazione femminile al mondo del lavoro in modo paritario rispetto ai lavoratori di genere maschile? Avete avuto modo di sperimentare anche altre forme di sostegno alla conciliazione dei tempi di famiglia e di lavoro, in particolare con azioni di supporto alla genitorialità e ai lavori di cura familiare?
Le misure citate non sono assolutamente sufficienti. Il part-time, ad esempio, da strumento di conciliazione si è trasformato in modalità capestro di accesso delle donne al mondo del lavoro (“part time involontario”). Le misure sono spesso state spot, come i giorni di congedo di paternità appesi ogni anno alle coperture delle leggi di stabilità e sempre purtroppo volontari. Manca la volontà politica di uscire dalle misure tampone, occasionali, estemporanee in luogo di proporre un disegno complessivo di interventi che abbia l’obiettivo di tenere assieme le implementazioni degli aspetti quantitativi e qualitativi dell’occupazione femminile e che guardi come fattibile a un recupero, nel tempo, di punti di PIL considerevole a fronte di un investimento reale e concreto nella crescita occupazionale delle donne.
Attraverso quali strategie di carattere complessivo (politico, sociale, aziendale) si potrebbe eliminare il glass ceiling legato ai compiti di cura che la donna svolge in ambito familiare e che le impediscono l’accesso al mondo del lavoro? Potrebbero essere una risposta gli strumenti previsti nei piani di welfare aziendale?
Ribadiamo la necessità di una svolta culturale. Ridurre il gap occupazionale delle donne significa investire nel futuro del Paese e non solo curare una ferita aperta del nostro tessuto sociale. Più lavoro per le donne significa più domanda di servizi e quindi un effetto moltiplicatore dei posti di lavoro e della ricchezza. Il lavoro di cura non è più solo rivolto ai figli, ma anche agli anziani. Questo denota come il nostro welfare sociale si stia sempre più smagliando. Bisogna finanziare il welfare pubblico per rilanciare anche un modello virtuoso di welfare occupazionale. I piani aziendali di welfare possono essere di aiuto, ma non sono risolutivi; spesso sono innovativi, ma la loro capacità di visione si scontra spesso con un quadro normativo antiquato ed incapace di accoglierne le suggestioni.
La possibilità di “welfarizzare” i premi di risultato introdotta dalla legge di stabilità 2016 con l’applicazione dei relativi benefici fiscali potrebbe generare l’effetto paradossale di incrementare il divario di genere?
Può rappresentare un rischio, ma non appare come il rischio maggiore. Il premio di risultato essendo negoziato dalle parti è uguale per tutti i lavoratori negli importi; può essere foriero di una discriminazione indiretta dal momento in cui viene riproporzionato per i lavoratori part-time, che spesso coincidono con le donne, ma di partenza, come si diceva, è lo stesso per uomini e donne. La sua welfarizzazione che è sempre volontaria, può al contrario, mettere in campo strumenti correttivi seppur sempre indiretti.
Se il welfare offerto ha un profilo sociale importante e fornisce risposte ad esigenze di conciliazione, non generiche, ma attagliate ai bisogni oggettivi manifestati dalle lavoratrici in forza e adeguatamente indagate, può fornire una risposta, seppur limitata e parziale, a un gap legato al genere.