Io posso avere torto e tu puoi avere ragione, ma per mezzo di uno sforzo comune possiamo avvicinarci alla verità. Karl Popper
1. Premessa filologica
Sigmund Freud nel saggio Significato antitetico delle parole primitive, riguardo ai suoi studi circa l’interpretazione dei sogni, estende l’analisi del contenuto onirico alla circostanza secondo cui «una cosa in un sogno può significare il suo opposto» (Freud 1910, trad. it. 1997, 53). Stimolato dal libro del filologo Carl Abel, con riferimento all’antica lingua egizia, Freud rileva come si rinvengano «un buon numero di parole con due significati, di cui uno è l’esatto contrario dell’altro» (Ibidem); volendo attualizzare tale particolarità semantica alle lingue vive, sarebbe come se, ad esempio, le parole antitetiche “debole” e “forte” o “luce” e “buio” fossero racchiuse in un unico vocabolo. Tale doppio significato – sostiene Freud – costituisce una necessità logica, poiché è dall’esistenza del suo contrario che una parola, espressione di un oggetto o di un concetto, trae in realtà il suo più autentico e pregnante significato, senza il quale sarebbe svuotata di senso, priva di vita. «Se fosse sempre luce – prosegue Freud citando direttamente Abel – noi non potremmo distinguere la luce dal buio, e di conseguenza non potremmo avere né il concetto di luce né la parola che la indica» (Ibidem). Ciò, in effetti, comporta l’accettazione di un elevato grado di ambiguità semantica e, per molti versi, anche concettuale, risolta peraltro dal contesto lessicale nel quale si colloca la proposizione. Ambiguità, tuttavia, non è un sinonimo di falsità o di confusione interpretativa, semmai, in chiave moderna, di complessità. Progressivamente, lo sviluppo del linguaggio, parallelo al progresso della civiltà occidentale, ha prodotto forme lessicali ed espressive maggiormente differenziate: mentre le antiche civiltà includevano nelle loro culture un livello di maggiore aderenza delle costruzioni semiologiche e linguistiche con le manifestazioni della natura, le società moderne, mosse dall’intento di sfuggire all’incertezza e alla contraddittorietà, hanno decisamente imboccato la strada della separazione dialettica, della uniformità ermeneutica, edificando gran parte della rappresentazione del mondo proprio sui contrari, ritenendo essere tale scelta la più corretta per intendersi con chiarezza, avviando così, però, una deriva riduzionista che, con tutti i suoi enormi limiti, contrassegna severamente la nostra contemporaneità.
In base a tali premesse, appare interessante interrogarsi su quale potrebbe essere, riguardo alla parola e al concetto di conflitto, in una sorta di gioco lessicale, a guisa dell’antica lingua egizia, il vocabolo che da un lato completa e dall’altro si oppone a ciò che questa tradizionale espressione intende costituire come suo significato. Proponiamo due opzioni: negoziazione oppure conciliazione. Solo superficialmente, infatti, i due vocaboli possono ritenersi, se non identici, almeno affini o addirittura sostituibili. Nei paragrafi seguenti offriremo alcune riflessioni riguardo a questa importante scelta che può apparentemente risultare questione sofisticata e tendenzialmente irrilevante, mentre riveste, invece, un’importanza determinante per il sistema di valori su cui si basano le interazioni di natura conflittuale tra gli esseri umani, sia in ambito di rapporti sentimentali sia in relazione alla gestione degli interessi materiali.
2. Il conflitto e la sua funzione propulsiva
Il dizionario della lingua italiana Treccani definisce la parola conflitto come “combattimento, guerra” e, in senso figurato, “contrasto, urto, opposizione”. Il termine deriva dal latino conflictus che, a sua volta, è il risultato della combinazione di cum (con, insieme) e fligẽre (percuotere, collidere). Il verbo cum – fligẽre assume, quindi, il significato di “urtare una cosa contro l’altra”, ma anche di “essere in competizione”, “porsi in antagonismo”.
La semantica di questo vocabolo evoca significati correlati alla realtà storica ed esistenziale del conflitto, in base ai quali è possibile trarre alcune considerazioni legate al conflitto come elemento strutturale della natura e della vicenda umana.
Il conflitto costituisce, in effetti, parte integrante del vivere sociale dell’umanità e svolge intrinsecamente un’importante funzione propulsiva. Al riguardo, Ralph Dahrendorf in Uscire dall’utopia, sostiene che «la competizione individuale e l’azione collettiva sono in linea di principio mutuamente convertibili, e sono espressioni, essenzialmente equivalenti, della stessa grande forza sociale, la competizione (contest)» (Dahrendorf 1971, 504). Secondo questo studioso – come sostiene Cocozza nel suo saggio L’agire inatteso – «le società mutano e si evolvono in funzione della competizione e del conflitto che in esse si generano. Pertanto l’azione sociale può essere concepita come un’azione conflittuale tra le diverse classi sociali tesa a ‘mantenere e stimolare il mutamento di intere società o delle loro parti (…) Come fattore del processo onnipresente del mutamento sociale, i conflitti sono profondamente necessari» (Cocozza 2020, 55).
Nel solco di una simile concezione, si pone la teoria del materialismo storico di Marx ed Engels che vede al centro del sistema socioeconomico una permanente dialettica conflittuale tra il proletariato, la classe operaia, che vuole affrancarsi dal giogo della sottomissione e dello sfruttamento e i detentori dei mezzi di produzione, i capitalisti, che intendono mantenere lo status quo ed estendere il loro potere d’influenza: «La storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi» (Marx, Engels 1971, 54).
In altri termini, l’uomo è portatore di diverse categorie di bisogni, al soddisfacimento dei quali si frappongono ostacoli che richiedono di essere in qualche modo superati, anche in extremis tramite l’uso della forza, per raggiungerne il soddisfacimento. «Ciò che Marx tenta di dimostrare – sostiene Karl Popper in La società aperta e i suoi nemici – è che ci sono soltanto due possibilità: che un mondo terribile debba continuare per sempre o che un mondo migliore debba alla fine emergere; e non vale certo la pena di considerare seriamente la prima alternativa» (Popper 1996, 169).
Il conflitto è, dunque, fondamentale poiché costituisce un potente veicolo di progresso, purché sia opportunamente tenuta sotto controllo e conseguentemente gestita la sua potenziale forza d’urto; quanto più l’obiettivo è ambizioso, tanto più cresce la probabilità di incontrare ostacoli e opposizioni, e quindi di esperire conflitti.
Le fonti rituali del conflitto, inoltre, non sono esclusivamente costituite da interessi materiali, bensì anche da divergenze di valori, di credenze, di culture. Ogni conflitto è, in realtà, un composto di molteplici tensioni che rischiano di degenerare. Per questo c’è sempre bisogno di una congrua attività di mediazione, direttamente svolta dalle parti individuali o collettive in causa o da un arbitro super partes.
3. Negoziazione e conciliazione: analogie e differenze
La negoziazione è la modalità di gestione dei conflitti che permette di ridurre i contrasti tra le parti con soluzioni reciprocamente soddisfacenti, nell’ambito di dispute su interessi materiali.
La parola negoziazione deriva da due vocaboli latini: nec (né) e otium (ozio), la combinazione dei quali può essere resa in italiano con “assenza di pigrizia” o “assenza di inazione”. Il senso è quindi un chiaro invito all’azione e all’impegno allo scopo di addivenire ad una transazione vantaggiosa ed evitare, così, costi, inimicizie e scontri. Il concetto di negoziazione è tradizionalmente e sempre più associato al mondo degli affari, del business, quale processo di mediazione volto a ottenere un risultato in base a una rinuncia reciproca da parte dei soggetti interessati, rispetto alle loro originarie attese e pretese; non a caso il termine negozio suggerisce un evidente collegamento con attività di natura commerciale. Scopo prioritario della negoziazione è, in definitiva, il raggiungimento di un accordo in cui due o più parti siano disposte a una rinuncia parziale, ma non a perdere ciò che riterrebbero inaccettabile concedere: quanto più è possibile ottenere, tanto più è elevato il grado di ostracismo. Le parti non coltivano, dunque, un interesse comune, sono bensì mosse da mire personali: vedono l’altro essenzialmente come un ostacolo, un potenziale nemico. Qualora l’opera di mediazione non porti al risultato minimo auspicato, la svolta verso lo scontro aperto è inevitabile e i poteri in campo adotteranno ogni strategia e azione, anche relativamente scorretta o violenta, per conseguire ciò che si ritiene legittimo.
L’etimologia della parola conciliazione proviene anch’essa dal latino conciliatio, composta dalla particella cum e dal sostantivo cilium, e offre un significato assai differente da negotium; evoca, infatti, un senso di unione, un vincolo, un legame, un orientamento alla pacificazione, a rendere reciprocamente benevoli gli interlocutori, concependo il conflitto in una prospettiva più ampia, inclusiva di valori immateriali, e agendo per l’interesse comune, e non per il proprio esclusivo tornaconto.
La conciliazione, differentemente dalla negoziazione, si propone di essere una sintesi generativa di diversità, una possibilità concreta di operare in termini di costruzione di una dimensione non ancora esplorata, integrando il mero campo negoziale con nuove vedute e più elevati propositi.
4. La conciliazione come ricostruzione
La conciliazione è, pertanto, un ampliamento dell’orizzonte di senso del conflitto, offrendo un complesso di stimoli e di possibilità che acquistano una valenza sociale e non meramente economica. Il profitto, nell’ambito di una dimensione conciliativa, infatti, non è l’unico riferimento concettuale e operativo da considerare.
«Una società umana estremamente sviluppata e organizzata è una società in cui i singoli membri sono in relazione reciproca in una molteplicità di modi diversi, intricati e complessi, tramite cui essi condividono tutti una quantità di comuni interessi sociali – interessi per il miglioramento della società – e tuttavia, d’altra parte, sono più o meno in conflitto in relazione ai numerosi altri interessi che essi posseggono solo come individui o che altrimenti condividono l’uno con l’altro solo in gruppi esigui e limitati» (Mead 2010, 384).
In una simile prospettiva, la mera attività negoziale deputata ad affrontare e risolvere dilemmi, divergenze e controversie tipiche del business, si rivela del tutto inadeguata e insoddisfacente, poiché l’intento ultimo non è l’utile, seppur attraverso la rinuncia di parte dell’utile teorico, bensì il beneficio collettivo, al cui interno rientra ovviamente l’individuo maggiormente interessato e coinvolto nella situazione conflittuale.
Gli attuali concetti di sostenibilità, economia circolare e inclusione possono essere ricompresi nel novero dei valori che a loro volta ispirano logiche e pratiche proprie di una conciliazione, nella sua accezione più ampia e pregnante: riconoscere e armonizzare istanze tra loro differenti e posizioni che collidono.
Si tratta di un’operazione complessa, ispirata da criteri di razionalità e di lungimiranza, che Mead definisce “ricostruzione sociale”.
«E la mente o pensiero è anche – in quanto posseduta dai singoli membri della società umana – il mezzo, o meccanismo, o dispositivo tramite cui la ricostruzione sociale viene effettuata o realizzata. Giacché è il possesso di menti o facoltà di pensiero che mette in grado gli individui umani di tornare criticamente, per così dire, sulla struttura sociale organizzata della società alla quale essi appartengono e di riorganizzare o ricostruire o modificare ad un maggiore o minor grado quella struttura sociale, come le esigenze di evoluzione sociale di tanto in tanto richiedono» (Ibidem, 385).
5. Il bene comune
La conciliazione appare, in considerazione di quanto espresso, una preziosa leva di progresso: concetto da intendere non in senso meramente legato al livello d’innovazione e di conquista di nuove possibilità di miglioramento del tenore generale di vita, peraltro pienamente auspicabili, bensì, piuttosto, all’acquisizione di una coscienza e di una cultura del bene comune.
«Cultura vuol dire orientamento, e quest’orientamento è sempre teso a un ideale, il quale è più che l’ideale d’un individuo: è l’ideale d’una comunità» (Huizinga 2012, 22).
D’altra parte, il bene comune è lo scopo naturale e irrinunciabile di una comunità fondata su un sistema di valori etici condivisi, basata su strutture sociali di natura affettiva, protettiva ed evolutiva: la famiglia; e su sistemi di produzione e sviluppo: il lavoro organizzato.
Famiglia e lavoro costituiscono, in definitiva, tradizionalmente, gli elementi cardine di una civiltà: l’una alimenta l’altro e viceversa. La sinergia tra queste due dimensioni, non agevolmente conciliabili, determina le migliori premesse per una società il più possibile equilibrata, al cui interno ciascun individuo possa coltivare, liberamente e ragionevolmente, le proprie chances di vita.
6. Conclusioni
La conciliazione intesa come attività altamente razionale depriva quindi le situazioni conflittuali di quelle derive emotive e pulsionali che spingono gli individui a ricercare il massimo del soddisfacimento dei loro bisogni, interessi e desideri, da altri contesi o contrastati, attraverso strategie manipolatorie, rinunce rancorose o comportamenti aggressivi.
La conciliazione è ricostruzione prospettica tramite un agire assiologico che si propone non solo il componimento di disparità tendenti a dividere, ma anche e soprattutto la generazione di un nuovo interesse, comune per le parti. In questo senso la conciliazione diventa l’occasione di una nuova realtà che non sottende la rinuncia a qualcosa ma la conquista di un qualcosa di nuovo, motivante, ingaggiante e desiderabile per le parti coinvolte.
«La ricostruzione sociale e la ricostruzione del sé o della personalità sono i due aspetti di un solo processo: il processo dell’evoluzione sociale umana» (Ibidem, 387).
Bibliografia
Cocozza A.
2020 L’agire inatteso, Franco Angeli, Milano.
Dahrendorf R.
1971 Uscire dall’utopia, Il Mulino, Bologna.
Freud S.
1997 Psicoanalisi della società moderna, Newton, Roma.
Huizinga J.
2012 La crisi della civiltà, PGRECO Edizioni, Milano.
Marx K., Engels F.
1971 Manifesto del Partito comunista, Laterza, Bari.
Mead G.H.
2010 Mente, sé e società, Giunti, Firenze-Milano.
Popper K.
1996 La società aperta e i suoi nemici. Hegel e Marx falsi profeti, vol. II, Armando, Roma.