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Introduzione. Formare alle relazioni: in famiglia, a scuola e a lavoro

Il problema della violenza sulle donne sta diventando un tema centrale nell’attuale dibattito culturale, con profondi risvolti sociali e con le relative implicazioni sul piano politico. Non è solo questione di numeri, anche se a far notizia sono soprattutto i femminicidi! Nel primo quadrimestre 2024, rispetto allo stesso periodo del 2023, i femminicidi sono diminuiti del 30%; per lo più si tratta di delitti di coppia o in famiglia. In molti casi pesano età avanzata, malattie, solitudine, problematiche psichiatriche. Il movente prevalente è spesso lo stesso: gelosia, incapacità ad accettare la fine di una relazione, vendetta, rivalsa: quella persistente tendenza a considerare la donna come un oggetto che appartiene al compagno, all’amante, al marito. I gesti di violenza sono per lo più innestati nell’arco di una relazione tossica, di cui la donna inizialmente stenta a riconoscere i sintomi, ma, quando ne acquista consapevolezza non riesce a liberarsene con la necessaria tempestività e quando finalmente decide di farlo, paga un prezzo altissimo: la sua stessa vita.

Davanti alla violenza che la nostra società continua ad esercitare sulle donne in forma sempre più sottile e sofisticata, è lecito chiedersi perché le donne non abbiano ancora imparato a riconoscerla e a difendersene. Ed è questo uno degli itinerari che questo Quaderno cerca di percorrere con l’aiuto di autrici e di autori esperti. Lo fa riavvolgendo il nastro di tante storie che cominciano dalle piccole discriminazioni a cui le donne sono sottoposte nel quotidiano della loro esperienza di bambine prima, di adolescenti, e di donne più tardi. È la microviolenza ripetuta che crea un impatto difficile da rimuovere, perché impedisce all’autostima di raggiungere il livello necessario per sapersi difendere e cominciare a dire di no, senza sentirsi in colpa.

L’ideale femminile radicato nella cultura di ogni tempo, sia pure con modalità diverse, presuppone nella donna una forte disponibilità alla relazione di cura degli altri, che pospone sistematicamente la cura di sé, anche quando sarebbe giusto e doveroso rispettare scelte diverse. Alternative e non necessariamente oppositive.

Non è facile coltivare la propria femminilità, il proprio essere donna, fronteggiando ostacoli e difficoltà e nello stesso tempo coltivando talenti e aspirazioni. Eppure, è la grande pista della formazione. Quando emergono lacune e sofferenze, allora è il momento di attivare un processo di riabilitazione psicologica e sociale, per non subire quanto è oggettivamente ingiusto subire. Si tratta come sempre di un equilibrio dinamico, che richiede continui aggiustamenti per assorbire e assimilare una serie di urti con l’indispensabile resilienza, senza restarne feriti e sottomessi come se ci fosse un’inevitabile propensione all’essere vittima in un sistema sociale un po’ perverso. Davanti alla violenza femminile le donne sono contemporaneamente parte del problema e parte della soluzione del problema; si muovono come attraverso uno specchio immaginario, non molto dissimile da quello attraverso su cui si muove Alice, dopo l’esperienza fatta nel Paese delle meraviglie. È l’esperienza filtrata dalla fantasia, in cui l’impossibile sembra possibile solo finché non ci si scontra con il senso del limite, ossia con una realtà che ha le sue regole e i suoi condizionamenti.

C’è una violenza che investe profondamente sia la sfera familiare, caratterizzata da un’esperienza relazionale fortemente connotata sotto il profilo affettivo, sia la sfera professionale, in cui si proiettano le aspirazioni di chi, come donna cerca una più ampia affermazione personale anche nel contesto sociale. La prima forma di violenza, sottile ma inesorabile, scatta ancora oggi davanti ad uno storico dilemma: famiglia o lavoro; più famiglia o più lavoro; figli o carriera; benessere affettivo o successo economico. Non di rado la stessa difficoltà della scelta, posta in termini competitivi e conflittuali, si trasforma in una frustrazione difficile da accettare con serenità. Non si può sottovalutare il disagio vissuto da molte donne, nel momento in cui debbono scegliere tra il far famiglia e quindi assumere a tempo pieno la responsabilità nei confronti dei propri familiari e un’attività professionale, in cui si proiettano sogni e aspettative che parlano di successo, di riconoscimento sociale, di carriera e di potere correlato. Nel momento della scelta, se si riesce a superare l’approccio dicotomico che contrappone una scelta all’altra, emerge comunque la necessità di ridimensionare l’una e l’altra scelta. E questo viene vissuto da molte donne come una ingiustizia, una forma di sottile violenza. Una violenza di genere perché questa situazione non si presenta quasi mai agli uomini. Meno figli, a volte la rinuncia stessa ad avere figli, e meno opportunità professionali, sembrano provocare uno smottamento delle proprie ambizioni. Costituiscono una sorta di mutilazione progressiva e fanno da contraltare l’una all’altra. Delineano un vissuto di micro-violenza, da cui è difficile evadere. Riflettono il senso di rinunce che riemergono progressivamente nel tempo, dando vita ad alternative che non sono mai pienamente soddisfacenti.

Ma su questa forma di violenza, così come appare spesso nel vissuto femminile, si possono innestare altre forme di violenza dai contorni ben più drammatici, sia nell’ambito della vita di famiglia che nel fronte professionale. E prevenire l’una e l’altra non è affatto facile, né la donna può farcela da sola. Serve un’educazione a monte che faccia leva su un empowerment progressivo e permetta di gestire le proprie emozioni, anche quelle spiacevoli, con coraggio e tempestività, mantenendo ferma la barra della propria vita. Il tema della prevenzione della violenza nell’universo femminile abbraccia categorie insospettate fino a poco tempo fa, che permettono di riconoscere le molteplici discriminazioni a cui, a cominciare dalle bambine, le donne sono oggetto. E ogni forma di discriminazione è a modo suo una forma di violenza.

L’articolo 3 della nostra Carta costituzionale non si limita ad affermare che: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». Ma nel passaggio successivo dello stesso articolo aggiunge: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

Ed è proprio su questo punto che si deve concentrare la nostra riflessione per riconoscere che dopo oltre 75 anni c’è ancora molto lavoro da fare per rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitano di fatto il pieno sviluppo della donna e la sua effettiva partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Sono il ben noto gender pay gap, per cui le donne sono retribuite meno dei colleghi anche a parità di funzioni; la difficoltà di accedere a ruoli di vertice nel mondo professionale; la decisa carenza di servizi che si prendano cura dei bambini e degli anziani, delle persone con disabilità o con patologie croniche. Tutto sembra concorrere a tessere una rete in cui il lavoro di cura, che rappresenta una delle attività in cui più e meglio si esprimono solidarietà e competenza, diventi per la donna una sorta di gabbia sottile da cui è difficile emergere. D’altra parte voler distruggere questa stessa gabbia in un impeto di rabbia consegna la donna ad altre e spesso ben più gravi forme di violenza nell’ambito domestico e professionale. Sembra un nodo insolubile: per questo abbiamo pensato a questo Quaderno che affronta tre grandi questioni.

La prima è La libertà affettiva come antidoto alla violenza di genere.

Franca Zacco analizza alcuni degli strumenti normativi che consentono di tenere sotto controllo il rischio che può scaturire da determinate situazioni e rende necessario attivare alcune misure di tutela. Siamo nell’ambito della sfera privata, della libertà individuale e della fragilità che scaturisce da tante situazioni non risolte nella propria adolescenza o che risalgono addirittura alla propria infanzia. Si parte dai numeri per dare conto di un fenomeno strutturale, che Zacco definisce come conseguenza di uno squilibrio patologico nel rapporto uomo-donna. Insidioso nelle sue manifestazioni, tanto da non essere percepito nella sua effettiva gravità neppure dalla vittima. Questa violenza non è circoscritta ad ambienti di marginalità sociale ad opera di soggetti culturalmente deprivati, ma si sviluppa trasversalmente nella società, coinvolgendo anche ambienti socio-familiari apparentemente sani e culturalmente adeguati. È proprio il volto socialmente accettabile di chi esercita la violenza a renderne difficile, anche per la stessa vittima, lo smascheramento.

Il punto cruciale dell’analisi riguarda la domanda che sempre ci si pone davanti a questi eventi drammatici: cosa spinga molti uomini a instaurare dinamiche relazionali di questo tipo, sintomo di una tensione irrisolta nei rapporti di genere, di una uguaglianza non metabolizzata. La Zacco allarga la sua ipotesi interpretativa fino a prendere atto del progressivo esautoramento del dominio maschile in ambito pubblico, cui corrisponderebbe una crescita della violenza maschile nella sfera privata. Anche se poi l’elemento scatenante è il momento della separazione, spesso voluta dalla donna, che pone l’uomo nella necessità di dover subire la decisione. L’uomo vive allora il rifiuto come un abbandono, un insulto e un attentato alla sua stessa identità: una vera e propria ferita identitaria e narcisistica al tempo stesso.

Il contributo di Annamaria Nicolò segna un passo avanti nell’analisi della violenza femminile e la proietta nell’ambito sociale, fino a tracciare il profilo di una vera e propria sindrome psicosociale in cui confluiscono origini diverse: biologiche, transgenerazionali, intrapsichiche e interpersonali, oltre che sociologiche e antropologiche. La prima origine della violenza di genere per la Nicolò è da collocarsi nel funzionamento della coppia dei genitori della vittima e nell’identificazione che i figli operano con i modelli maschili e femminili nella mente dei genitori. La prima prevenzione quindi va cercata proprio in famiglia dove prende forma l’identità dell’uomo e della donna, del persecutore e della vittima e interessa successivamente la scuola, di ogni ordine e grado, i gruppi di appartenenza di socializzazione, le università e i luoghi di lavoro dei genitori. La prima forma di violenza è sempre psicologica. Si tratta di quel tipo di rapporto particolare basato sull’indurre, consciamente o inconsciamente, la sofferenza nell’altro al fine di controllarlo, parassitarlo, possederlo completamente, impedirne la soggettività. In queste situazioni si genera un legame dove, per evitare il vuoto angoscioso dell’abbandono, si deve perpetrare l’esproprio della coscienza. E la vittima viene progressivamente isolata dal suo contesto: deve rinunziare alle sue amicizie, alla frequentazione della sua famiglia; deve cambiare le sue abitudini per fare proprie quelle del suo persecutore, che non sa rinunciare alle proprie. Si mette in atto una vera e propria operazione di plagio, che non fa distaccare l’uomo dal suo piccolo mondo di abitudini, di gusti, e pretende che sia la donna ad adattarsi, a soddisfare ogni sua più piccola esigenza, mettendo in atto una vera e propria violenza relazionale. Il dramma è che la donna dopo un primo disorientamento invece di ribellarsi cerca di modificarsi, di comprendere questo comportamento che all’inizio appare incomprensibile, finendo con l’accettare una spirale che progressivamente la soffoca, per cui diventa al tempo stesso vittima e persecutrice di se stessa.

La seconda parte del Quaderno ha per titolo Educare alle relazioni in famiglia e a scuola.

Elaborare il disagio di un quadro di violenza subita e di violenza agita non è facile e il linguaggio simbolico del gioco può rappresentare un vero e proprio strumento di prevenzione per riuscire a relazionarsi in modo più funzionale sia in famiglia che a scuola. Proprio di questo parla Marco Schicchitano che ha fatto del gioco il grande paradosso che permette di scoprire le istanze più profonde della vita reale, attingendo alla esperienza ludica. Grazie al gioco il bambino può riprodurre e anticipare una serie di esperienze e quindi può valutarne i possibili esiti e decidere quali interventi mettere in pratica. In buona sostanza può apprendere le strategie più efficaci per raggiungere un determinato obiettivo o sperimentare un nuovo modo di essere. Il gioco è il momento in cui si mette in atto la simulazione, e in questo «fare finta di» non solo si sperimenta la situazione ideale, ma il correlato emotivo che ne deriva. Il gioco permette di creare un alter ego, a cui attribuire le azioni di un personaggio diverso da sé. Ci si sente autorizzati e motivati a mettere in atto comportamenti, ragionamenti o sentimenti che nella vita di tutti i giorni si farebbe fatica a mostrare, soprattutto se riguardano la violenza e l’aggressività. Ma l’aggressività è parte integrante del nostro mondo, dei nostri istinti, e per poterla contenere occorre imparare a riconoscerla nella molteplicità delle sue manifestazioni. Fare esperienza della propria aggressività è una tappa necessaria per l’acquisizione di quelle competenze relazionali che ci permettono di affrontare e risolvere gli inevitabili conflitti che nascono nelle esperienze a cui la vita ci espone ogni giorno. Per Schicchitano è possibile affermare che il gioco ha un ruolo fondamentale per imparare a modulare e quindi anche a prevenire la violenza di genere, educando sin da piccoli i bambini non solo all’espressione della rabbia, ma anche alla trasmissione di valori come il rispetto reciproco, la consapevolezza dei propri confini e l’uguaglianza. Anche molti videogiochi e giochi da tavolo sono stati sviluppati proprio per affrontare queste tematiche e possono avere un impatto positivo anche in età adolescenziale, quando alcuni valori, comportamenti e regole non sono stati ancora assimilati adeguatamente.

Raffaella Briani concentra la sua attenzione sulla scuola e sulle relazioni che nascono e si sviluppano al suo interno, considerandole come una delle esperienze che più incidono nella vita di una persona, anche quando assumono il carattere sgradevole della violenza subita senza averne consapevolezza, come accade con il bullismo. La violenza a scuola assume spesso l’immagine di un’ingiustizia, di una discriminazione che ha favorito alcuni e sfavorito altri, per ragioni che non si comprendono e che proprio per questo lasciano un’onda lunga di rancore e di sfiducia nei confronti delle istituzioni. Il docente è, nel vissuto dello studente, non solo colui che trasmette saperi specifici, ma anche colui che lo introduce nel contesto sociale della vita di gruppo, colui che lo guida nei naturali confronti tra pari, stimolando allo stesso tempo collaborazione e competizione, aiutandolo a sviluppare quelle soft skills che fanno da collante attivo a tutte le esperienze di tipo relazionale e che consentono di sciogliere i nodi di un’aggressività, sempre latente che potrebbe scatenare reazioni difficili da controllare. Si investono in questo modo fattori importanti del profilo di personalità: la capacità relazionale e l’empatia, la gestione delle emozioni e dello stress. La scuola, nella sua attività di programmazione in un ambito così profondamente performativo, sta portando avanti il progetto dei PCTO: percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento (legge 145/2018), che secondo la Briani propongono un approccio interessante che mette l’accento sul saper essere dello studente e non solo sul suo sapere o sul suo saper fare. Tuttavia questo obiettivo è ancora ampiamente disatteso, mentre rispetto alla prevenzione della violenza e all’educazione alla legalità appare più concreto, anche se più circoscritto. L’intervento previsto dal D.M. 35/2020: «Linee guida per l’insegnamento dell’educazione civica», in cui viene proposto l’insegnamento trasversale dell’educazione civica, mostra come lo studente dovrebbe sviluppare vere e proprie competenze di cittadinanza. La Briani sottolinea come la scuola debba farsi carico di formare alla vita, cosa del resto, implicita nella definizione della funzione docente e nel tessuto costituzionale che impone di puntare al pieno sviluppo della persona umana. Una (ri)scoperta che non può limitarsi ad alcune vicende di cronaca, ma deve diventare un obiettivo da perseguire in modo strutturale e sistemico. E a proposito di violenza di genere l’Autrice mostra come tocchi alla scuola la responsabilità concreta di un vero e proprio processo di empowerment delle studentesse e degli studenti, in una logica di coesione sociale e di rispetto formale. Si tratta di valorizzare il femminile senza svalutare il maschile.

La terza parte del Quaderno ha per titolo Dinamiche relazionali nel lavoro.

Il primo contributo di questa sezione è a firma di Lorenzo Fariselli, che parla della necessità di allenare l’Intelligenza Emotiva, quell’insieme di skill che ci permettono di unire logica ed emozione per diventare persone sempre più consapevolmente orientate a creare valore per il sistema in cui siamo inseriti, sia esso una famiglia, un’organizzazione o il mondo intero. Saper gestire le proprie emozioni, diventando sempre più consapevoli, equilibrati, e strategici, significa saper cogliere attraverso le dinamiche relazionali che si sviluppano intorno a noi quali siano i valori più significativi, quali le aspettative maggiormente condivise, quali le ansie e le speranze di tutti. Ma nonostante l’Intelligenza Emotiva abbia un impatto decisivo nei ruoli di leadership e permetta di distinguere i leader efficaci da quelli tossici, dal 2019 ad oggi sembra essersi ridotta drasticamente a livello mondiale. E la tendenza persiste anche nell’era post-pandemica. È invece decisamente aumentata l’aggressività nei rapporti personali e in quelli istituzionali, a livello familiare e a livello geopolitico. In un mondo sempre più frenetico che spinge verso una socialità tecnologicamente più avanzata, ignorando i livelli crescenti di isolamento, sofferenza e stress, occorre fermarsi e ripartire proprio dalle competenze socio-emotive. Appiattire la propria complessità emozionale, rischia di farci rinunciare a quanto abbiamo di più prezioso: ci allontana dai nostri obiettivi più profondamente identitari, rende la nostra personalità meno autentica. Davanti ad una diagnosi a così alto rischio, Fariselli sostiene che c’è bisogno di mettere in campo competenze nuove e seguire role model capaci di esercitare una leadership emotivamente intelligente. Le donne sono le persone più adeguate ad interpretare questi ruoli. Ne è un esempio il fatto che in un periodo caratterizzato da sfide senza precedenti le competenze di Intelligenza Emotiva delle donne, al contrario di quelle degli uomini, hanno registrato un’inversione di tendenza sorprendente ponendosi come guida efficace per la ripresa emotiva e professionale post-pandemia. Un bell’antidoto all’aggressività maschile che sottolinea la resilienza delle donne e la loro capacità generativa e costruttiva.

Il secondo contributo di questa sezione è a firma di Valeria Bonilauri, che partendo da una esperienza concreta nata in sede Elis, affronta il complesso tema dell’equità in azienda. L’Elis è un ente non profit che opera in sinergia con scuole e aziende in attività di orientamento e formazione. Il suo progetto porta avanti una serie di attività allineate su tre valori fondamentali: generare relazioni di valore, promuovendo l’incontro tra persone e organizzazioni, teso a favorire crescita professionale e inclusione sociale; proporre la concezione del lavoro come servizio e motore della società; promuovere l’innovazione sociale.

In tutte le attività, si cerca una vera e propria innovazione che comincia dai metodi formativi, e si estende a tutto il mondo professionale, con l’obiettivo di valorizzare al meglio le risorse presenti, generando valore condiviso.

Per Bonilauri occorre passare dal vecchio modello lineare ove si studia da giovani, si lavora da adulti e si coltivano gli hobby da pensionati, a un modello circolare-generativo ove conoscenza e azione si alimentano costantemente. In questo modo le organizzazioni possono contrastare l’obsolescenza delle competenze per assicurarne l’employability nel tempo. Diventa più facile in questa cultura aziendale valorizzare la competenza femminile e ridurre i livelli di competitività e di aggressività, agendo sulla leva della organizzazione strategica centrata sulla dimensione relazionale della persona. Il successo dell’intero progetto passa attraverso un cambio di “paradigma” ovvero la capacità di vedere il valore nascosto dei portatori di bisogni e di comprendere che ogni persona va valorizzata, anche se può dare poco, senza mai considerarlo incapace di tutto.

Il terzo contributo, che conclude la sezione e il Quaderno, è a firma di Valerie Schena Ehrenberger e getta uno sguardo sull’ambito della “consulenza al femminile” in un settore generalmente “pensato” per il maschile e che non permette un’elevata attenzione sul bilanciamento vita-lavoro. A questo gap corrisponde però un’attenzione in aumento, nelle aziende, sui temi che riguardano le politiche di Diversity, Equity & Inclusion (DEI), ormai centrali nei dialoghi aziendali e sociali. Proprio focalizzandosi su questo “paradosso” è nato lo studio dal titolo DEI nella Consulenza. Cultura, visione e prospettive, frutto dell’impegno del Gruppo di Lavoro Consulenza al femminile di Assoconsult, costituito nel 2022 e composto da donne e uomini delle realtà associate.

Si tratta di una ricerca che coinvolto circa 800 consulenti, che «ha permesso di raccogliere evidenze e indicazioni operative per promuovere un cambiamento culturale positivo nella consulenza, favorendo azioni in ambito Diversity, Equity & Inclusion, favorendo engagement e motivazione fra la forza lavoro e agevolando così la creazione di un ambiente più propositivo, dinamico e innovativo». Lo studio ha evidenziato soprattutto la differenza uomo-donna nei contesti professionali, una differenza che fa capo ad esigenze che spesso non vengono considerate e in cui c’è ancora un forte bisogno di lavorare su una cultura che dia valore al capitale umano che è la vera risorsa “economica” in azienda.

Questo Quaderno, che inizia con un impatto duro sull’esperienza della violenza, gradatamente innesca una vera e propria rivoluzione culturale, in cui la donna è chiamata ad essere protagonista in virtù di quella Intelligenza Emotiva, che la rende capace di percepire esigenze e necessità per elaborare risposte creative, su misura per ogni persona.

La formazione del maschile e del femminile a vivere relazioni sane nasce però a partire dalla famiglia e dalla scuola e deve essere mantenuta al centro delle dinamiche professionali.

Autore

  • Professore ordinario di Storia della medicina e Scienze umane presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma, dove ha diretto per oltre 15 anni il Dipartimento per la ricerca educativa e didattica. Psicoterapeuta, specialista in psicologia clinica e in neuropsichiatria infantile. Membro di diverse istituzioni, tra le quali il Comitato nazionale per la bioetica, ha pubblicato oltre 300 articoli su riviste, nazionali e internazionali, nonché diversi volumi nel campo della Bioetica e delle MedicalEducation. Dal 2006 al 2022 è stata parlamentare in quattro legislature (due alla Camera e due al Senato).