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La violenza nella coppia come sindrome psicosociale

1. Riflessioni sull’identità di genere

Il funzionamento della mente della donna è stato a lungo considerato un continente oscuro. Molte delle idee di Freud, sono state rimesse in discussione.

Oggi, alla luce delle moderne scoperte neuroscientifiche e della psicoanalisi post freudiana, alcune caratteristiche della mente della donna che potrebbero essere considerate delle risorse si traducono invece in carenze come la sua predisposizione biologica e culturale a svolgere un ruolo di cura a partire dalla funzione materna, come l’empatia, la reciprocità, la capacità di connettere emozioni e razionalità, come avviene grazie alla comunicazione emisferica presente nel corpo calloso, più sviluppata nelle donne, la tendenza a non moltiplicare i partners sessuali per formare una famiglia, ma proprio queste qualità diventano punti di debolezza poiché non sono considerati valori sociali in una cultura basata sul possesso, il potere e sulla sessualità.

Per tutti questi motivi, dobbiamo considerare la violenza di genere una vera sindrome psicosociale in cui confluiscono origini diverse: biologiche, transgenerazionali, intrapsichiche e interpersonale, oltre che sociologiche e antropologiche.

La prima origine della violenza di genere è da collocarsi nel funzionamento della coppia dei genitori della vittima e del perpetratore e nell’identificazione che i figli fanno con i modelli maschili e femminili nella mente dei genitori.

La prima prevenzione perciò si deve attuare nelle istituzioni che sostengono l’identità. Esse sono familiari e sociali e riguardano perciò la famiglia e le sue strutture di sostegno, la scuola di ogni ordine e grado, i gruppi di appartenenza di socializzazione, le università e i luoghi di lavoro dei genitori.

Se la coppia non riesce a modificare la qualità del legame che essi co-costruiscono, in certe situazioni si può arrivare alla violenza.

2. La violenza nella coppia

Per quanto si possa amare, laddove l’altro è necessario e indispensabile alla vita e all’identità del soggetto, allora non possiamo parlare dell’atto di libertà consustanziale all’amore.

La violenza di coppia è una patologia transpersonale che non ha nulla a che fare con l’amare l’altro, il proprio sé nell’altro, nella sua identità e nella sua alterità o alienità. A questa patologia concorrono ambedue i membri della coppia.

Con essa si intendono due tipi di manifestazioni: i comportamenti agiti e concreti e la violenza psicologica, esercitata in vari modi ma tale da rendere difficile la vita della vittima.

3. La violenza psicologica

La violenza psicologica è molto più frequente e nascosta di quanto si possa osservare.

Si tratta di quel tipo di rapporto particolare basato sull’indurre consciamente o inconsciamente la sofferenza nell’altro al fine di controllarlo, parassitarlo, possederlo completamente, impedirne la soggettività. In queste situazioni si genera un legame dove, per evitare il vuoto angoscioso dell’abbandono, si deve perpetrare l’esproprio della coscienza. Infatti “abbandono” in queste dinamiche di coppia è anche solamente prendere un’iniziativa autonoma: cucinare un cibo diverso dal solito, andare a trovare un’amica d’infanzia, sottrarsi in qualche modo, sia pure innocente o involontario, al controllo, ad essere in balia dell’altro che ha bisogno per sua parte di quella persona per esistere.

4. La violenza relazionale

Tuttavia, per comprendere bene quanto succede dobbiamo collocare la nostra osservazione nei circoli relazionali che si autorinforzano all’interno della coppia. Infatti generalmente, per sopravvivere, queste persone, in genere donne, dopo un primo disorientamento invece di ribellarsi cercano di modificarsi, di comprendere questo comportamento che appare loro all’inizio incomprensibile. «Come potrebbe essere un crimine terribile il mettersi un vestito invece che un altro, andare a trovare la madre, parlare con un amico?» ‒ si domandano. E si dicono «Ci deve essere una spiegazione diversa» e invece di mettere in discussione il rapporto, cercano di modificarsi, di comprendere, di adattarsi. E questo diventa terribile dato che, non potendo modificare l’altro, modificano se stessi. Questo attacco all’identità è anche amplificato dall’attacco al corpo che hanno subito e dall’umiliazione davanti agli altri.

Nel corso del tempo, a partire da eventi critici nel corso del ciclo di vita o anche casuali (la nascita di un figlio, la morte di un genitore, la perdita del lavoro o altri simili), si costruiscono reazioni circolari, scenari inconsci che si ripetono e che sono la spia di comportamenti o vissuti che fino a quel momento erano rimasti silenti e dissociati (Kernberg 1995). Le crisi violente sono l’epifenomeno di tali funzionamenti che progressivamente hanno irrigidito la vita della coppia e ne hanno distrutto le capacità trasformative e libidiche. Come vediamo spesso, la violenza fisica è stata preceduta da una violenza relazionale che ha violato il Sé della vittima a lungo, prima che avvenga qualunque altro trauma (Nicolò, 2010). Spesso si tratta rivendicazioni che riguardano il territorio, la libertà di decisione o le realizzazioni personali e alimentano le battaglie della guerra tra i generi. La violenza non è solo un comportamento esercitato da un partner sull’altro, molto spesso l’uomo, ma coinvolge anche il funzionamento della vittima. Non dobbiamo solo chiederci perché ci siano uomini violenti nella coppia e nella famiglia, ma anche perché le donne li accettino o li scelgano ripetutamente o li subiscano. La natura del rapporto madre-figlia e situazioni di maltrattamento nella famiglia di origine che sono state dissociate nelle memorie traumatiche, sono alcune delle cause di questa sottomissione. Alcuni interessanti studi (Person, 1994) hanno messo in luce come la memoria dei maltrattamenti e degli abusi viene organizzata a livello sensorimotorio o iconico, piuttosto che verbale. Tutto ciò produce una serie di eventi a catena ed influenza la qualità ed il modo in cui sono vissute le tappe dello sviluppo emotivo e del ciclo di vita di questi pazienti. Talora è la stessa vita di questi pazienti ad essere il sintomo che essi presentano. Ho incontrato coppie o donne nelle quali la violenza relazionale o perfino fisica era sottovalutata o nascosta e secretata, perfino agli occhi miei, della persona a cui si erano rivolti per la cura. In queste situazioni, il perpetratore che agisce la violenza non è in grado di riconoscere l’altro nel suo essere una persona diversa come bisogni, necessità, affermazioni di sé. Ma la cosa che sorprende è quella che anche la vittima in un primo tempo non riconosce questo stato di fatto e non si rende conto che ha il diritto di essere riconosciuta.

Certo però quello che è cruciale in questo discorso è come ambedue i membri colludano nel costruire una relazione di maltrattamento. Qui ci troviamo in presenza del legame come paziente, espressione dell’incastro tra due persone che lo contraggono, perdurare nel tempo, da una parte compensando i due partner, dall’altra, in questo caso, immobilizzandoli in ruoli e funzioni complementari. Anche se ci riesce difficile accettarlo, la violenza nella coppia è espressione di una complicità inconscia che lega il persecutore alla vittima che sottovaluta spesso gli indizi che dovrebbe invece temere. Questa sottovalutazione della pericolosità dell’altro nasce dal fatto che coinvolte in un legame violento, una dimensione di ambiguità e confusione che ha legato i membri della coppia impedendo loro di comprendere cosa sta avvenendo. Questa, a mio avviso, è un’indicazione precisa di cui dovrebbero tenere conto le forze dell’ordine, gli assistenti sociali e coloro che sono preposti alla valutazione di questi casi. La vittima e il persecutore sono immersi in uno stato di ambiguità, confusione, collusione che va chiarificato da chi ne ha il compito.

Come hanno più volte affermato numerosi studiosi del tema, il problema non sta nel fatto che le donne diventano vittime, «perché tutte le donne rischiano di diventarlo nella nostra società» (Kaplan, cit. da De Zulueta, 1993, p. 291 ed.it.), ma nel loro comportamento dopo l’abuso e il maltrattamento. Se hanno posto la loro identità nel prendersi cura e nella riparazione dell’altro, saranno più minacciate dalla perdita di queste caratteristiche che definiscono la loro identità piuttosto che dall’abuso e dal maltrattamento. Per questi motivi e per l’uso della dissociazione con cui si difendono da sempre, queste donne perdonano ai loro persecutori, dimenticano quanto è accaduto, ritornano nella precedente relazione pericolosa mantenendo il segreto su quanto accade loro, arrivando talora ad ostacolare le indagini e le cure psicologiche. Al contrario di questo, i loro partner si rivelano pronti a reagire contro ogni movimento relazionale che rimetta in discussione le regole di potere e controllo reciproco su cui essi basano la loro identità maschile, o dall’emergere di sentimenti di insicurezza, di perdita della dimensione fusionale che determina nel perpetratore sentimenti o vissuti di pericolo e di perdita.

Questo tipo di legami porta alla fine ad una sorta di spersonalizzazione dell’altro, nel caso specifico della donna che non viene riconosciuta nelle sue caratteristiche come persona dotata di emozioni, sentimenti, diritti.

5. La violenza agita e concreta

Vorrei adesso affrontare brevemente le situazioni in cui la violenza viene agita sul corpo.

Che tipo di funzionamento scatena questi passaggi all’atto attraverso un agito con cui il perpetratore si sbarazza della sofferenza e dell’angoscia o della vergogna invece di pensarla?

Gli agiti, a volte violenti che rispondono alla difesa del cortocircuitare il pensiero evitandolo, sembrano essere anche il prodotto indilazionabile dell’impulso a soddisfare i bisogni, e a raggiungere la scarica, senza sopportare le modificazioni poste dal pensiero. Sto parlando cioè della difficoltà di queste persone a simbolizzare, a contenere gli impulsi ed elaborare le frustrazioni.

A causa della loro storia e delle identificazioni con figure che hanno vissuto come potenti ed aggressive, essi non riescono a contenere le emozioni di paura della passività, della vergogna del rifiuto e dell’abbandono che sminuisce e attacca il loro senso del sé e le scaricano perciò nell’agire.

La persona che agisce la violenza presenta inoltre un deficit della capacità di mentalizzare e cioè di comprendere il funzionamento della mente dell’altro e questo gli impedisce di sintonizzarsi con lo stato mentale della vittima.

Cosa succede però alla vittima di una violenza agita?

Quando l’intromissione è concreta e agita, il soggetto perde un riferimento naturale primario collocato nel corpo, perde il confine e la proprietà di esso e questo attacco profondo e primitivo apre la porta a conseguenze rilevanti, prima delle quali accettare quello che in altri contesti quella stessa persona non avrebbe mai accettato di subire. Il corpo cessa di essere inviolabile, può essere toccato, ferito, aggredito, tumefatto, violentato. La persona si sente successivamente alienata, non si riconosce più in sé stessa. La vittima, proprio perché attaccata o umiliata o ferita nel suo corpo, ha perso il suo statuto di soggetto, può essere attaccata perché è una cosa e diventa una cosa perché è attaccata. Non è più una persona autonoma che può pensare in modo diverso e imprevedibile. Pertanto deve essere ridotta allo statuto di cosa di proprietà, non di soggetto autonomo. Questa funzione disoggettualizzante è l’elemento più pericoloso di tale dinamica. Le persone che sono state così umiliate cercano in qualche modo di preservare un’identità sociale, ufficiale, che non corrisponde più a quello che loro sono. Si genera così una progressiva divaricazione, dissociazione del sé: più diventano passive e remissive, più nascondono agli altri o tentano di comprendere invece di darsi il coraggio di rompere, separarsi. Questo nascondere produce naturalmente una chiusura al sociale. Spesso le vittime di tali violenze si vergognano di denunciare la situazione che vivono, dato che la violenza subita sembra averle minate nella loro identità, la vittima si vergogna di esserlo.

Ma nei casi migliori si vergogna anche il persecutore ed è portato a considerare l’accaduto come colpa della vittima, come un momento in cui ha perso il controllo, ma non accadrà più. Tutto ciò genera una dinamica di isolamento e nascondimento rispetto agli altri.

Grazie alla clandestinità si elimina nell’altro la parte di sé che giudica, si elimina il giudizio, la norma, l’interdizione. Come sul piano dell’organizzazione della personalità individuale si usano meccanismi come la negazione e la dissociazione, sul piano familiare o di coppia, si usa il segreto e la clandestinità, meccanismi questi che mantengono una scissione nella comunicazione della stessa famiglia. Esiste perciò un’identità apparente e un’identità reale della famiglia o della coppia e delle persone coinvolte, che sono in contraddizione.

6. Conclusioni

La legge e lo stato hanno una funzione importante non solo nella decisione di inasprire le pene, ma soprattutto nella necessità di offrire e supportare le strutture educative, le occasioni gruppali e di socializzazione dei giovani, di intervenire sugli stimoli mediatici tanto importanti per tutti, ma soprattutto per i ragazzi.

Queste strutture possono e devono essere usate per cambiare il funzionamento della mente, offrendo stimoli al pensare, rielaborare, ottenere speranza e sicurezza nel futuro, al posto dell’arraffare il successo a tutti i costi.

Bibliografia

Arcidiacono C.
1994 Identità femminile e psicoanalisi, Franco Angeli, Milano.

De Zulueta F.
1993 Dal dolore alla violenza, Cortina, Milano.

Eiguer A.
2003 Le perverse narcissique et son complice, Dunod, Paris.

Kernberg O.
1995 Relazioni d’amore, Raffaello Cortina Editore, Milano.

Nicolò, A.M.
2009 Adolescenza e violenza, Il pensiero scientifico, Roma.

2010 La violenza nella coppia, in Editoriale, «Interazioni», 2-2010/32.

2012 La violence dans la famille et le couple, Ed in press, Paris.

Person S.E., Klar H.
1994 “Il trauma tra memorie e fantasie”, in Ammaniti M., Stern D. (a cura di), Fantasia e realtà nelle relazioni interpersonali, Laterza, Bari, pp.113-139.

 

* Questo articolo è una ristrutturazione del capitolo “La violenza nella coppia” del libro Gli inconsci che ci abitano (in corso di pubblicazione).

Autore

  • Neuropsichiatra infantile e psicoanalista con funzioni di training della Società Psicoanalitica Italiana (SPI), di cui è stata presidente. Presidente e socio fondatore dell’International Association for Couples and Family Psychoanalysis (IACFP/AIPCF). Fondatrice e prima direttrice della «International Review of Couple and Family Psychoanalysis». Past presidente e socio fondatore della Società Italiana di Psicoanalisi della Coppia e della Famiglia (PCF), di cui è attualmente segretario della Commissione Scientifica. Direttore della rivista «Interazioni». Ha lavorato a lungo in comunità terapeutiche per psicotici favorendo un lavoro di multicoppie genitoriali. Autrice di numerosi libri e articoli pubblicati in varie lingue, trai i quali molti dedicati alla famiglia, alla coppia e all’adolescenza.