1. Premessa
Chi è coniuge, genitore o figlio, è ben consapevole che la famiglia di cui fa parte, producendo – nel suo insieme – servizi a favore di sé stessa e dei suoi membri, non si limita a consumare, ma impiega le sue risorse, anche attraverso investimenti, per svolgere la sua attività tipica. Inoltre, nei settori in cui opera, la famiglia interviene, come ogni impresa, in forza della sua organizzazione e della sua efficienza. La famiglia svolge, in sintesi, un ruolo decisivo come soggetto di scelte economiche e come soggetto generatore di capitale sociale.
Ciò nonostante, l’ordinamento giuridico, in generale, e quello tributario, in particolare, faticano a riconoscere, con riguardo alla famiglia, questa sua realtà economico-produttiva. Infatti, la legge positiva si limita, in linea di principio, a riconoscere alla famiglia il suo ruolo sociale, mentre non attribuisce rilevanza pubblica alla funzione (munus) di tipo economico e finanziario che invece essa svolge naturalmente.
Come conseguenza di questa visione “riduzionista” della famiglia, le istituzioni pubbliche (così come gli istituti di credito e le imprese) non hanno mai realizzato vere e proprie politiche della famiglia in sostituzione delle ormai obsolete politiche per la famiglia. Così facendo, pur non negando l’importanza di politiche familiari, in periodi di difficoltà, le istituzioni preferiscono dirottare la propria attenzione su altre emergenze sociali. Continuando di questo passo, dato che le emergenze sociali si susseguono senza sosta, la famiglia non avrà mai l’attenzione che merita.
In effetti, qui sta il punto: le politiche familiari, quando attuate, sono considerate come politiche di emergenza famigliare in concorrenza con altre emergenze.
Tutto ciò deriva, forse, anche a causa dei cambiamenti di società in corso e dall’emotività affettiva sempre più diffusa oggigiorno: la famiglia è spesso considerata come un “malato terminale”. Eppure, in maniera empirica, si può affermare, che la funzione della famiglia vada ben al di là di quella di essere il “luogo degli affetti”[1].
Lo scopo di questo lavoro è dunque quello di chiarire perché e come l’obiettiva funzione economica e produttiva della famiglia può e deve avere un impatto sulle regole di tassazione dei suoi membri.
2. Famiglia, sussidiarietà e capacità contributiva
In Italia, a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione, il principio di sussidiarietà è stato elevato a principio costituzionale.
In concreto, il principio di sussidiarietà fornisce un nuovo criterio nella distribuzione delle funzioni di rilievo pubblico, secondo una logica di pluralismo e collaborazione istituzionale, pubblico/privata, al fine di individuare e soddisfare i bisogni particolari dei cittadini.
Dovendo stabilire le caratteristiche di un sistema fiscale equo con riguardo alla tassazione della famiglia, occorre ora limitarsi ad analizzare il principio di sussidiarietà orizzontale.
Tra le formazioni sociali, la famiglia riceve dalla Costituzione italiana un riconoscimento particolare, essendo il luogo principe del patto tra generazioni.
Tuttavia, a fronte del riconoscimento di diritti, sono attribuiti ai coniugi anche doveri. Pertanto, a diffe-renza dalle altre formazioni sociali, la famiglia come stabile comunione di vita tra uomo e donna «fondata sul matrimonio» ha ottenuto un riconoscimento particolare dalla Costituzione, solo in forza della sua funzione (non solo sociale, ma anche economica), originaria e necessaria al raggiungimento del bene comune, attraverso l’esercizio di servizi alla persona, in settori di rilevanza costituzionale (educazione, assistenza e istruzione). Conseguentemente, poiché per svolgere questa funzione riconosciuta costituzionalmente, la famiglia impiega necessariamente risorse proprie dei suoi membri in luogo di risorse pubbliche, i membri della famiglia, devono essere considerati contribuenti, naturali e volontari. Ciò ha un impatto anche sulla determinazione dei doveri tributari.
Con particolare riguardo al tema in esame, pare dunque essenziale approfondire il principio di sussidiarietà c.d. fiscale ovvero il principio in base al quale la famiglia adempie al suo dovere di contribuzione alle spese pubbliche, impiegando le proprie risorse economiche, finanziarie, organizzative e di forza lavoro. La sussidiarietà fiscale, infatti, si presenta non come l’eliminazione, ma solo come il correttivo del modello tradizionale “burocratico impositivo” costruito sotto l’ombrello dello Stato nazione[2].
In pratica, il principio di solidarietà non solo integra il principio di uguaglianza, ma altresì lo arricchisce rendendo legittime differenti modalità di imposizione giustificate anche da ragioni di solidarietà economica e sociale[3]. Ma non solo, il contribuente non può essere tassato oltre la sua capacità di contribuzione; perciò, il principio di capacità contributiva, costituendo il limite massimo al potere impositivo, svolge altresì una funzione garantista[4]. Pertanto, costituiscono oggetto di tassazione solo quei fatti, indici di capacità economico e patrimoniale valutabili da un punto di vista monetario, e ciò rappresenta un limite al potere impositivo dell’autorità pubblica in linea con la funzione di garanzia svolta dalla Costituzione italiana (art. 53).
Da qui la ragionevole affermazione secondo cui, al fine di determinare il limite massimo al potere impositivo dell’autorità pubblica, occorre far riferimento alle attitudini soggettive del contribuente e, conseguentemente, alla tipologia d’impiego delle sue risorse economico-patrimoniali[5]. In sintesi, quindi, il concorso alle spese pubbliche non è determinato in modo esclusivo dalla legge positiva, né può dipendere dalla fruizione dei servizi pubblici o dalla misura di tale fruizione da parte del contribuente. Quest’ultimo invece vi concorre – come già precisato – perché, essendo inserito in una comunità organizzata, ha non solo il dovere costituzionale, ma anche l’interesse a impedire il suo disfacimento e quindi al conseguimento del bene comune. Infatti, la contribuzione alle spese pubbliche in forza della sua capacità contributiva, oltre al sostentamento e al progresso della comunità, ha come obiettivo (i) di evitare l’esclusione delle persone dalla comunità stessa e (ii) di perseguire la cooperazione tra i suoi membri.
A questo punto, è opportuno riflettere sulle modalità di contribuzione alle spese pubbliche. Infatti, sebbene l’imposizione fiscale sia la modalità più comune di contribuzione, essa non è necessariamente la sola[6].
Si tratta di una conclusione coerente con il fatto che, da una parte, il fine ultimo della Repubblica non è quello di imporre i tributi, ma – come visto – di garantire il bene comune da perseguire attraverso la contribuzione alle spese pubbliche, e, dall’altra, i cittadini (e le famiglie) sono protagonisti di attività di interesse generale, in autonomia. Tale partecipazione, in base al principio di sussidiarietà, implica una partecipazione volontaria alle “spese pubbliche”, che dev’essere considerata nella valutazione del limite massimo al potere impositivo.
3. Equità fiscale per la famiglia
Una tassazione più equa a favore della famiglia non rappresenta dunque un vantaggio per la famiglia, ma costituisce un’opportunità per la finanza pubblica.
Tuttavia, il sistema fiscale non sarà mai equo se non riconoscerà alla famiglia questa sua naturale capacità alla volontaria contribuzione alle spese pubbliche, attraverso la compartecipazione a costi, diversamente a carico della fiscalità in generale.
Ciò significa, innanzitutto, che un tale sistema fiscale dovrà prevedere “esclusioni” da tassazione e non “agevolazioni tributarie” per la famiglia.
Infatti, le agevolazioni in generale costituiscono misure eccezionali che derogano al principio di capacità contributiva e quindi alla coerenza del sistema fiscale, in virtù di superiori necessità di politica economica e di tutela di interessi extrafiscali. Tuttavia, si tratta di necessità da valutare facendo attenzione alla tenuta complessiva del sistema paese.
Al contrario, ciò che non è legittimo, neppure per esigenze di bilancio pubblico, è un sistema fiscale che impone una tassazione eccedente la capacità contributiva del cittadino contribuente, a causa della mancanza, in tutto o in parte, di legittime disposizioni di esclusione da tassazione.
Invece, è ragionevole ritenere che i proventi di una gestione patrimoniale da impiegare obbligatoria-mente nello svolgimento di servizi rilevanti socialmente si devono «escludere dalla nozione tributaria di reddito mobiliare imponibile». Infatti, l’eventuale avanzo di bilancio «assume aspetto peculiare ed esclusivo di mezzo di finanziamento ed eventualmente di sviluppo del servizio di pubblico interesse»[7].
Da qui si deduce che è pienamente e liberamente disponibile solo la ricchezza che il contribuente è libero di destinare anche non a beneficio del bene comune[8].
Sulla base di quanto prospettato, è compatibile con il principio di capacità contributiva solo un sistema di tassazione dei redditi determinati al netto degli investimenti in beni durevoli (abitazione, mezzi di trasporto) e dei costi necessari al suo funzionamento (spese mediche, le spese per l’istruzione etc.), e cioè al netto dei costi relativi ai settori nei quali la famiglia svolge le sue funzioni: educazione, istruzione e assistenza. Infatti, si tratta di spese destinate a soddisfare bisogni primari, che perciò non possono essere disattesi. Sulle somme da destinare alle suddette spese, infatti, il contribuente non ha alcuna libertà di scelta: è obbligato a sostenerle e per l’effetto non ha la disponibilità del reddito utilizzato a questo scopo. Si tratta di servizi il cui esercizio costituisce, anche in forza del matrimonio, un impegno, una funzione (munus) giuridico inderogabile per i membri della famiglia[9]. Applicando l’analisi appena svolta alla fiscalità familiare, si può affermare la sua natura prettamente premiale. Non si può trattare infatti di incentivi, poiché i genitori, decidendo volontariamente di generare nuova vita, sono mossi da un desiderio e interesse proprio. Non è certo per beneficiare di sgravi fiscali che una coppia decide di accogliere nuova vita!
In altre parole, gli sgravi fiscali a favore della natalità oppure della genitorialità rappresentano dunque, più propriamente, atti di giustizia e di esclusione da tassazione[10], perché attraverso di essi l’ordinamento giuridico riconosce un premio per l’assunzione volontaria, senza oneri per la fiscalità generale, di responsabilità nei confronti della comunità, nello svolgimento di attività di rilevanza pubblica, come nel caso è la funzione genitoriale. Ciò detto, è chiaro che un sistema, equo, di tassazione della famiglia potrebbe richiedere uno sforzo di tipo “generativo”, allo scopo di individuare strumenti tecnici idonei a superare tutte le attuali contraddizioni dell’ordinamento tributario.
In questo senso vale la pena approfondire i risultati e le conclusioni di studi specifici, che hanno individuato strumenti di misurazione del reddito effettivamente disponibile della famiglia, al netto delle risorse che sempre la famiglia deve impiegare per svolgere alla sua funzione anche economico-produttiva.
Uno di questi strumenti di equità fiscale (e non di agevolazione fiscale) è, senz’altro, il quoziente familiare nelle sue diverse declinazioni[11].
In estrema sintesi, va detto che con il “fattore famiglia” a essere tassato non è l’individuo come singolo (secondo il metodo attualmente vigente), ma l’individuo in forza della sua partecipazione al nucleo familiare. Inoltre, l’idea di base del fattore famiglia è quella per cui non sono tassabili le spese indispensabili per il mantenimento e accrescimento della famiglia. Il fattore famiglia introduce un livello di reddito non tassabile crescente all’aumentare del numero dei componenti della famiglia secondo una scala di equivalenza.
Verrà quindi tassata solo la quota di reddito familiare che eccede il minimo vitale, con ciò rendendo più equa la tassazione per le famiglie con più figli (in particolare da 3 figli in su), e per quelle mono-genitoriali, con reddito basso.
4. Conclusioni
Il reddito prodotto dai contribuenti e direttamente impiegato per i costi di funzionamento o per gli investimenti sostenuti dalla propria famiglia non è posseduto dagli stessi contribuenti e perciò non può essere assoggettato al potere impositivo.
Pertanto, nei limiti di quella quota parte di reddito prodotto, non si realizza il fatto indice di capacità contributiva, e, per l’effetto, ai contribuenti, membri di una famiglia, non spettano agevolazioni fiscali bensì deve essere riconosciuto il diritto all’esclusione da imposizione di quelle somme riferibili ai costi relativi agli investimenti della famiglia, e, in generale, al suo funzionamento.
In caso contrario, sarebbe violato il principio di capacità contributiva, in quanto i contribuenti, membri di una famiglia, concorrerebbero due volte alle spese pubbliche: una volta versando i tributi, e l’altra, impiegando le proprie risorse nella famiglia, la quale così svolgerà le sue funzioni proprie, imposte dalla costituzione e dalla legge.
Proprio per evitare questi inconvenienti, conseguenti alla fiscalità su base individuale, occorre introdurre una sistema di diversificazione dell’imposizione su base famigliare, come strumento di giustizia fiscale.
In particolare, va riconosciuta la premialità fiscale di quei redditi, che i contribuenti, membri di famiglie (così come, per le stesse ragioni, gli enti del terzo settore, casse previdenziali privatizzate ecc.) utilizzano per finanziare funzioni di rilevanza pubblica e costituzionale (come l’educazione, l’assistenza, la previdenza, la generatività, ecc.).
In questo senso, uno strumento di equità fiscale è senz’altro il “fattore famiglia”, ovvero un particolare metodo di misurazione della quota di reddito non tassabile perché destinata al mantenimento e all’assistenza dei singoli membri del nucleo familiare. Si tratta, evidentemente, di una quota che aumenta quante più persone – e quindi figli – ci sono in famiglia.
Nel contesto dell’attuale inverno demografico che l’Europa tutta sta sperimentando, è urgente ridare alle famiglie le condizioni ideali per generare, e non semplicemente delle politiche assistenziali. Si tratta di scegliere, in fondo, tra il rassegnarsi alla situazione attuale e il mettere i giovani, soprattutto, nelle condizioni ideali di fare famiglia. Senza che vengano discriminati da una sorta di “condanna fiscale” per il semplice fatto d’aver deciso di “fare famiglia”. Si tratta invece di premiare questa presa di responsabilità per il bene comune e per il futuro del nostro continente.
Note
[1] G. Dalla Torre, Pensieri introduttivi, in F. Ciapparoni (a cura di), Famiglia: prima impresa, Aracne, Roma 2013, p. 25 e ss.
[2] L. Antonini, Sussidiarietà fiscale. La frontiera della democrazia, Guerini e Associati, Torino 2005, p. 120.
[3] G. Falsitta, Manuale di diritto tributario, parte generale, Cedam, Padova 2005, pp. 148–149.
[4] Ivi, pp. 151-153.
[5] G. Falsitta, Il principio di capacità contributiva nel suo svolgimento storico fino all’Assemblea Costituente, in «Riv. Dir. Trib.» 9/2013, p, 767.
[6] M. Miscali, Contributo allo studio dei profili costituzionali del principio di sussidiarietà fiscale, in «Riv. dir. trib.», 1/2011, p. 959.
[7] Cass. SS.UU. 4 marzo 1974, n. 594.
[8] L. Antonini, Sussidiarietà fiscale, op. cit., pp. 137 e ss che riprende M. Lehner, Einkommensteuerrecht und Sozialhilfe-recht, Mohr, Tübingen 1993.
[9] Cfr. L. Einaudi, Principi di scienza delle finanze, Einaudi, Torino 1932, p. 125.
[10] F. Farri, Un fisco sostenibile per la famiglia, Cedam, Padova 2018, pp. 53 e ss.
[11] Cfr. www.forumfamiglie.org/tema/Fisco/tema/Fattorefamiglia/116.
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