La violenza connessa al genere trova la fenomenologia statisticamente più rappresentativa nella violenza maschile contro le donne, che ha assunto negli ultimi anni una dimensione allarmante per il numero delle vittime, attestato dalle evidenze statistiche, evolvendo da fenomeno emergenziale a vera e propria piaga sociale. Solo limitando l’esame ai dati relativi all’esito più grave di tale violenza, rilevo che nel 2023 su 330 omicidi, 120 vedono come vittima una donna (il 36% del totale) e di essi 64 risultano commessi dal marito/fidanzato/compagno o ex partner. Nel periodo dal 1° gennaio al 31 marzo 2024 su 72 omicidi, 24 vedono una donna come vittima e di essi 22 risultano commessi in ambito familiare/affettivo[1].
Si tratta di numeri che danno conto di un fenomeno strutturale, conseguenza di uno squilibrio patologico nel rapporto uomo/donna, insidioso nelle sue manifestazioni tanto da non essere spesso percepito nella sua effettiva gravità dalla vittima. E, circostanza ancor più grave, dall’esame dei dati di fatto relativi agli autori ed ai contesti in cui le violenze si sviluppano emerge che la violenza non si manifesta prevalentemente in ambienti di marginalità sociale ad opera di soggetti culturalmente deprivati, ma si sviluppa trasversalmente nella società, coinvolgendo anche ambienti socio-familiari apparentemente sani e culturalmente adeguati.
Per indicare la violenza nella sua manifestazione più grave, esercitata dall’uomo sulla donna con un movente di genere, troviamo abitualmente utilizzato il termine atecnico di femminicidio. Si è a lungo dibattuto sull’esigenza di coniare e utilizzare un termine in relazione ai delitti specificamente indotti dal genere sessuale di vittima e carnefice o se bisognerebbe chiamarli semplicemente omicidi, come previsto dal Codice penale. La polemica terminologica parrebbe aver trovato il proprio superamento nel vocabolario Treccani, che ha scelto come parola dell’anno 2023 ‒ in maniera unanime per stimolare la riflessione su di un crimine odioso e sollecitare la presa di coscienza su reati che si verificano con preoccupante frequenza ‒ proprio il termine femminicidio, definito come «uccisione diretta o provocata, eliminazione fisica di una donna in quanto tale, espressione di una cultura plurisecolare maschilista e patriarcale».
Il tratto che maggiormente caratterizza la violenza di genere è il suo carattere prossimale, poiché trova nelle relazioni intime la sua sede di elezione e nella violenza psicologica una modalità di attuazione diffusa al pari di quella fisica[2].
Ed è in questa vicinanza che l’instaurarsi di un rapporto di violenza può assumere le forme di una vera e propria ossessione, frutto di quella che è stata definita una perversione relazionale[3].
Ci si è chiesti cosa spinga molti uomini a instaurare dinamiche relazionali di questo tipo, che appaiono sintomo di una tensione irrisolta nei rapporti di genere, di una uguaglianza non metabolizzata. Una tra le tante risposte si rinviene nel progressivo esautoramento del dominio maschile in ambito pubblico, cui corrisponde una crescita della violenza maschile nella sfera privata.
Ma il più delle volte a spingere al crimine è il momento della separazione, quando essa è voluta dalla donna e l’uomo ne deve subire la decisione. Come osservato dalla psicoanalista Simona Argentieri4, l’uomo vive il rifiuto come un abbandono, un insulto e un attentato alla sua stessa identità: una vera e propria ferita identitaria.
Frequentemente poi la violenza di genere è ammantata, e giustificata, dalla gelosia. In realtà l’unica emozione agita è la rabbia, una reazione emotiva aberrante connessa ad una perversa percezione oggettuale della persona e ad un senso di appartenenza a fronte del quale ogni azione della vittima viene percepita come un’insubordinazione, un comportamento disubbidiente e ribelle, meritevole di essere punito[5].
L’omicidio o le lesioni diventano allora la concreta estrinsecazione di una insana rivendicazione di possesso e di un ruolo dominante nella coppia, da riaffermare anche dopo la fine di un rapporto. Ma il tentativo di tenere in piedi un rapporto affettivo attraverso la violenza è del tutto inaccettabile in una società in cui la tutela della libertà di autodeterminazione nelle scelte della propria vita assume rango di valore primario ai sensi dell’art. 2 Cost.
Orbene la definizione di violenza di genere si rinviene in due testi di origine sovranazionale, la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, fatta a Istanbul l’11 maggio 2011 e ratificata dall’Italia con l. 27 giugno 2013, n. 77, e la direttiva 2012/29/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2012 che istituisce norme minime in materia di diritti, di assistenza e protezione delle vittime di reato, attuata con il D.Lgs. 15 dicembre 2015, n. 212.
La Convenzione di Istanbul definisce all’art. 3 «la violenza nei confronti delle donne» come una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica che in quella privata; «la violenza domestica» come tutti gli atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi o partner, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima; “il genere” come ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti, che una determinata società considera appropriati per uomini e donne.
A far tempo dalla Convenzione del Consiglio d’Europa, entrata in vigore il 1° agosto 2014, che rappresenta il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e alla violenza domestica e riconosce la violenza sulle donne come una forma di violazione dei diritti umani, i plurimi interventi legislativi adottati negli ultimi dieci anni nel nostro Paese si muovono, proprio nel solco tracciato dalla Convenzione, lungo tre direttrici principali: prevenzione dei reati, punizione dei colpevoli, protezione delle vittime.
Il primo intervento in tal senso è stato operato dal decreto-legge n. 93 del 2013, adottato a pochi mesi di distanza dalla ratifica della Convenzione, convertito dalla legge 15 ottobre 2013, n. 119, che ha apportato rilevanti modifiche in ambito penale e processuale ed ha previsto l’adozione periodica di Piani d’azione contro la violenza di genere.
Ma sicuramente l’intervento più incisivo è rappresentato dalla l. 19 luglio 2019, n. 69 (c.d. codice rosso), che ha rafforzato le tutele processuali delle vittime di reati violenti, con particolare riferimento ai reati di violenza sessuale e domestica; ha introdotto alcuni nuovi reati nel codice penale ‒ tra cui il delitto di deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso, quello di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti (c.d. revenge porn) e quello di costrizione o induzione al matrimonio ‒ ed aumentato le pene previste per i reati che più frequentemente sono commessi contro vittime di genere femminile (maltrattamenti, atti persecutori, violenza sessuale).
In particolare la legge ha introdotto un percorso procedimentale preferenziale e, dunque, accelerato per alcuni reati reputati “spia” della degenerazione nelle relazioni familiari o, comunque, strette. Ciò risponde all’esigenza di evitare che eventuali stasi nell’acquisizione e iscrizione delle notizie di reato o nello svolgimento delle indagini preliminari possano pregiudicare la tempestività di interventi cautelari o di prevenzione a tutela della vittima dei reati di maltrattamenti, violenza sessuale, atti persecutori e di lesioni aggravate in quanto commesse in contesti familiari o nell’ambito di relazioni di convivenza.
Le disposizioni processuali trovano fondamento anche nella sentenza della Corte EDU Talpis c. Italia (Sez. 1, 2.3.2017) con cui la Corte di Strasburgo ha affermato che il ritardo con il quale le Autorità competenti, alle quali era stato denunciato un caso di violenza domestica, hanno adottato le misure necessarie a tutelare la vittima integra ad un tempo la violazione dell’art. 2 CEDU relativo al diritto alla vita, in quanto priva di efficacia la denuncia e dell’art. 3 CEDU per il mancato adempimento degli obblighi positivi di protezione a seguito del ritardo nell’avvio del procedimento penale. Inoltre la sentenza ha evidenziato come il venir meno, anche involontario, da parte dello Stato all’obbligo di protezione delle donne contro la violenza domestica si traduce in una violazione del loro diritto ad una uguale protezione di fronte alla legge ed è, pertanto, intrinsecamente discriminatorio.
Dopo la legge 8 settembre 2023, n. 122 (c.d. codice rosso rafforzato), che ha accresciuto i poteri del Procuratore della Repubblica in materia di assunzione di informazioni dalla vittima, la l. 24 novembre 2023, n. 168, adottata celermente e all’unanimità dopo l’efferato omicidio della giovane Giulia Cecchettin, che ha destato sconcerto per le modalità con cui è stato perpetrato e per l’ambiente in cui è maturato, persegue lo scopo di migliorare la valutazione del rischio, che in tale materia – come evidenziato nella sentenza della Corte Edu 7 aprile 2022, Landi c. Italia, che ha confermato dopo la sentenza Talpis sopra citata l’inadeguatezza della risposta istituzionale italiana al fenomeno della violenza domestica, condannando nuovamente il nostro Paese per la violazione dell’art. 2 della Convenzione, rilievi ribaditi nella sentenza 16 giugno 2022, Giorgi c. Italia – è ancora affidata all’esperienza o alle capacità intuitive degli operatori di Polizia in mancanza di parametri standardizzati e diffusi tra tutti i soggetti istituzionali che si occupano di violenza, mirando ad approntare altresì strumenti volti a realizzare una più efficace protezione attraverso l’adozione di una serie graduale di misure, prevalentemente a carattere preventivo.
Poiché dalla valutazione dei dati statistici emerge in maniera evidente che la tempestività è essenziale per far fronte a questo fenomeno criminale, la legge conferisce peculiare importanza alle misure di prevenzione; agisce sull’area delle misure pre-cautelari, prevedendo l’arresto anche in flagranza differita, e cautelari al fine di depotenziare il pericolo prima che possa deflagrare; dà peculiare attenzione ai percorsi di recupero per il contenimento della recidiva; implementa, nelle varie fasi del procedimento e anche prima del suo instaurarsi, il sostegno alle vittime.
Tuttavia, come stigmatizzato dal Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione nella relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2024, «il solo intervento sul piano normativo, pur essendo strategico, non risulta sufficiente, se non accompagnato da un’ampia riflessione culturale sul problema. L’idea della sufficienza pedagogica del diritto, in una struttura sociale dalle forme comunicative capillari e dalla polverizzazione delle fonti di influenza, non è più attuale». Ne dà prova eloquente il fatto che gli autori dei femminicidi non si facciano frenare dalle conseguenze a loro danno: la condanna, il carcere, come anche il suicidio.
Nella lotta contro questo fenomeno è dunque necessario avere consapevolezza che il diritto penale è solo uno degli strumenti necessari ad eliminare la violenza contro le donne e che, anzi, il ricorso alla sanzione penale rappresenta il segno del fallimento delle politiche di prevenzione. La repressione penale può rispondere allo scopo assegnato solo in quanto sia stata organizzata e monitorata nella sua concreta applicazione in una visione globale e con l’ausilio di saperi diversi da quelli giuridici.
Al contempo, se è pur vero che va favorita l’emersione del c.d. numero oscuro di violenze non denunciate e che il recente affioramento di un sommerso testimonia un’aumentata sensibilità al fenomeno e una maggiore propensione alla denuncia, occorre prendere atto, come dimostrato dalle vicende concrete, che anche la forza di deterrenza della denuncia è limitata.
I femminicidi costituiscono spesso il tragico epilogo di reati cd. “spia” o presupposti, che ne sono ritenuti gli indicatori prognostici, in quanto espressivi di violenza diretta contro una donna in quanto tale (violenza privata, violazione di domicilio, lesioni, maltrattamenti in famiglia, stalking), che richiedono particolare attenzione, competenza, professionalità e tempestività d’intervento per impedire conseguenze ben più gravi.
A tal riguardo è fondamentale garantire adeguate competenze degli operatori che trattano casi di violenza di genere e, in specie, della polizia giudiziaria che è quasi sempre la prima ad avere un contatto con la vittima e deve pertanto saper riconoscere e trattare la situazione di rischio, sviluppando una sensibilità di valutazione del problema capace di adottare iniziative adeguate a tutela della donna ed evitando la sottovalutazione della violenza riferita[6]. La messa in atto di meccanismi di conciliazione dei conflitti a fronte di una malcompresa percezione della entità della violenza può infatti essere inidonea rispetto alle esigenze di protezione della donna.
Ma la tutela della vittima (e il recupero del maltrattante) non può essere affidata unicamente alle Forze dell’ordine ed all’Autorità giudiziaria. Poiché il fenomeno interseca una pluralità di piani (culturale, sociologico, psicologico, assistenziale, sanitario) ed ha carattere dinamico, dal momento che spesso la violenza nasce in sordina, ma evolve in forme sempre più eclatanti, occorre por mano ad una strategia globale di rete, che coinvolga tutte le Istituzioni pubbliche che intervengono in ogni fase, valutando costantemente la soglia del rischio ed il suo eventuale innalzamento, con circolarità di informazioni e costante adeguamento degli interventi[7].
Per contrastare il fenomeno dunque non sono sufficienti gli strumenti normativi che pure ci siamo dati. Per assicurarne l’effettività è indispensabile un profondo cambiamento culturale.
Occorre quindi avversare sin dall’infanzia stereotipi di genere basati sul dominio del maschio, ma anche promuovere un’educazione affettiva e sessuale degli uomini che li renda capaci di mantenere le corrette distanze dalla donna, intendendola non già come la propria metà, ma come altro da sé, idoneo a completarlo, ma autonomo, intraprendendo un percorso culturale volto a superare il senso di possesso.
I cardini della tutela delle vittime di violenza di genere e domestica vanno dunque ricercati, tra gli altri, nell’educazione e formazione delle persone ad opera delle agenzie sociali, in primis la scuola e la famiglia, affinchè si radichi il rispetto della dignità del partner, nonché nella corretta comunicazione e rappresentazione dell’immagine femminile, anche sui mezzi di informazione.
Last, but not least, è indispensabile, come evidenziato dalla Argentieri nell’articolo già citato (nota 4), una introspezione psicologica, un interrogarsi da parte degli uomini su di sé e sui meccanismi inconsci che tramandano il pregiudizio di generazione in generazione.
Note
[1] Dati del Dipartimento della Pubblica Sicurezza del Ministero dell’Interno-Direzione Centrale Polizia Criminale.
[2] F. Filice, Diritto penale e genere, in «Diritto Penale e Uomo», 2019, p. 14.
[3] S. Filippini, Relazioni perverse, la violenza psicologica nella coppia, Milano, Franco Angeli, 2005.
[4] S. Argentieri, Femminicidio: tempo di uccidere, in «Giudicedonna.it», 2023, nn.1/2.
[5] Sul punto v. anche F. Zacco, L’aggravante dei futili motivi nei reati connessi a violenza di genere nella giurisprudenza di legittimità, in «Giudicedonna.it», 2021, nn.3/4.
[6] Atti del Convegno Violenza e discriminazione di genere: parole e diritti, Corte di Cassazione, 2023, in particolare intervento V. Manuali.
[7] Sul punto v. anche G. Diotallevi, Violenza contro le donne: il ruolo delle istituzioni e la necessità di una riconoscibile catena protettiva, in «Giudicedonna.it», 2023, nn.1/2.