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Dall’autorità all’autorevolezza: una sfida per i padri di oggi

Essere genitore ai tempi nostri: molto più complicato rispetto a cinquanta o sessanta anni fa, quando i ruoli di padre e madre erano ben definiti e trovavano approvazione e sostegno nella società del tempo.

Oggi, in un contesto sociale abbondantemente “liquido” – per usare l’usato e abusato aggettivo di Zigmunt Bauman (Bauman 2010; 2017) – anche questi ruoli si sono fatti “liquidi” e sono più labili, a volte intercambiabili, talora addirittura invertiti. Il padre è la figura che sconta di più – nel bene e nel male – la profonda trasformazione che ha investito la famiglia negli ultimi decenni: è stato, infatti, soprattutto lui a conoscere una epocale trasformazione, una vera e propria mutazione antropologica che ne ha cambiato radicalmente le caratteristiche. “Rivoluzione paterna”, io la chiamo. Una espressione che non ha nulla di retorico o di eccessivo, perché molti connotati della paternità oggi non si sono mai verificati nei 2000 anni di storia che ci hanno preceduto. Sarebbe lungo esaminare quali sono queste novità. Alcune sono sotto gli occhi di tutti e sono gli aspetti più superficiali, più banali del cambiamento. Il padre che prepara la pappa al piccolo, il padre col passeggino, il padre che cambia i pannolini… Ho detto “banali”, ma attenzione. Dobbiamo guardare dietro questi atteggiamenti e cogliere il radicale significato di cambiamento che essi comportano. Certi gesti, che oggi alle nuove generazioni sembrano naturali, sessanta anni fa erano giudicati profondamente innaturali, addirittura aberranti.

Pensiamo, per esempio, a un fenomeno estremamente significativo e spesso sottovalutato: l’empatia del padre con il bambino da subito, dal momento della nascita. Direi ancora prima, perché sono molti i padri che partecipano ai corsi di preparazione alla nascita, ma sono moltissimi i padri che sono presenti al parto. Quando al parto assiste una persona di fiducia, questa è il padre nel 91,6% sul territorio nazionale (sono dati del Ministero della salute relativi al 2014 e mostrano diversità notevoli fra regione e regione: si va da circa il 50% nella Campania al 98,10% nella provincia autonoma di Bolzano). Numerosi studi e ricerche sottolineano quanto sia importante questo fenomeno di bonding, come lo chiamano gli anglosassoni, ossia di attaccamento precoce del padre con il figlio, per strutturare un rapporto che sarà più solido ed empatico negli anni avvenire.

Che il mestiere di genitore sia il più difficile lo sappiamo tutti, ce l’hanno detto illustri studiosi, da Donald Winnicott, che ai genitori diceva «commetterete comunque errori», a Bruno Bettelheim e al suo “genitore quasi perfetto”. Sigmund Freud, ad una signora – pare fosse Marie Bonaparte – che gli chiedeva alcuni consigli su come essere un buon genitore rispose: «Lei faccia come vuole, tanto sbaglierà comunque». Ma soprattutto lo sappiamo sulla nostra pelle di genitori.

Una frase profondamente vera è quella dello scrittore Wladyslaw Kovalski: «Essere genitore è un gioco in cui si perde sempre». Ma perché oggi è più complicato rispetto a un tempo essere padri? Perché, come accennavo prima, non c’è più quella divisione in ruoli che era così netta, specifica, tra padri e madri, in cui ognuno occupava una sua precisa collocazione, un suo preciso spazio e assolveva ruoli ben definiti. Negli anni ’50 del secolo scorso il sociologo americano Talcott Parsons (Parsons 1974, 50) elaborò una teoria, definita “dei ruoli”, in cui si assegnava alla madre un ruolo “espressivo” e al padre un ruolo “strumentale”. La madre era la mediazione, la tenerezza, l’espressione dei sentimenti, colei che mediava tra padre e figlio. L’area “espressiva” che le competeva riguardava lo stato di cose “interno” del sistema–famiglia, ovvero «il mantenimento delle relazioni integrative tra i suoi membri e la regolazione dei modelli e dei livelli di tensione delle unità che lo compongono». Il padre era invece lo strumento della famiglia, il tramite tra famiglia e società, il motore economico, la legge, la regola. La sua area “strumentale” riguardava le relazioni del sistema–famiglia «con la sua situazione all’esterno del sistema stesso». Anche in Italia era così fin dall’Ottocento, e sarà così per tutta la prima metà del Novecento.

Sul finire degli anni Sessanta del secolo scorso, la scoperta della paternità. Preceduta da segnali storici di cambiamento che vanno indietro nel tempo, attraverso i due conflitti mondiali fino ad arrivare alla Rivoluzione Francese – segnali che qui sarebbe troppo lungo analizzare – l’uomo si accorge che diventare, ossia essere padre, e fare il padre sono due cose molto diverse. Scopre l’enorme valore di questo rapporto, l’arricchimento reciproco tra uomo e bambino. E allora scompare il padre che per secoli ha caratterizzato questa figura, scompare il pater familias dei nostri antenati romani, che aveva un diritto totale, assoluto sui figli, fino al diritto di vita e di morte. Scompare il “padre padrone” immortalato nel romanzo del 1975 di Gavino Ledda e fa la sua comparsa un padre diverso, tenero, empatico. Naturalmente questa disponibilità, questa comparsa, ha come sempre il suo rovescio della medaglia. E si pone l’alternativa autorità–autorevolezza, dilemma sconosciuto in precedenza, quando ciò che contava era solo la prima. Detti così, i due termini non paiono troppo distanti; anzi, si potrebbe pensare che la migliore autorità (potere che la persona esercita) sia quella che deriva dall’autorevolezza (stima, credito, fiducia). Se però mettiamo in atto un piccolo trucco e ai due sostantivi sostituiamo i relativi aggettivi – “autoritario” e “autorevole” – capiamo subito che essi non sono solo distanti, ma addirittura antitetici. Provare per credere, aiutati da un buon dizionario. «L’autorità» – scrive Stefano Zecchi – «appare legata al potere, l’autorevolezza alla competenza» (S. Zecchi 2012, 78) E però scrive anche: «Prima di essere una prerogativa del padre, l’autorità è un bisogno del figlio» (Ibidem).

Ci sono due effetti contrapposti in questa trasformazione. Da un lato la perdita del padre normativo e dall’altra la nascita del padre affettivo. Cosa significa? Significa, per rubare le parole a Milan Kundera nel suo romanzo L’identità, che i padri si sono «papaizzati». Scrive Kundera (Kundera 1997) che non esistono più i padri, esistono solo i papà. Ossia padri ai quali manca l’autorità del padre. E questo effettivamente contiene una profonda verità. Da un rapporto verticale, gerarchico, con tutti gli eccessi del pater familias, si è passati all’estremo opposto del “mammo”. Orrendo neologismo, questo, creato dai miei colleghi giornalisti, che di primo acchito può anche suscitare simpatia e tenerezza, ma se ci pensiamo bene è profondamente svalutativo. Che cosa significa “mammo”? Significa essere la brutta copia della madre, un surrogato materno, un genitore di serie B. Significa non essere ancora capace di trovare un nuovo modo di essere padre, un modo tutto suo, tutto “paterno”, lontano dal padre padrone, ma che prenda le distanze anche dal “mammo”.

I padri hanno guadagnato certamente in affettività, espressività, capacità di esprimere le emozioni, ma hanno perso in autorità. È difficile mantenere l’autorità quando si è compagni del figlio, amici del figlio. Ecco: il “padre amico”, altra questione molto dibattuta. È un bene? È un male? Su questo tema vi sono due scuole di pensiero: una favorevole, l’altra contraria. Io credo che i figli, soprattutto in età adolescenziale, non abbiano bisogno di altri amici o compagni, perché ne hanno già tanti: i compagni di classe, gli amici del bar, della palestra… oggi anche quelli di Facebook, il social che ha dato al termine “amico” una connotazione del tutto nuova (e ampiamente riduttiva). Il padre deve essere una figura diversa, certamente vicina ai figli, empatica, ma deve rispettare un margine di distacco, deve – come amano dire gli psicologi – mantenere una relazione “verticale”, vale a dire gerarchica, e non “orizzontale”, ossia paritaria. Sarà altrimenti impossibile, o comunque molto difficile, dire poi “no”, porre regole quando verrà il momento, per esempio nella fase della adolescenza. E infatti la diffusione del padre–amico ha portato alla scomparsa del divieto, del limite e di conseguenza alla scomparsa del conflitto generazionale.

È questa un’altra conseguenza del mutato rapporto padri–figli: non c’è più la contestazione familiare. Il conflitto fra generazioni è scomparso perché i padri hanno abdicato al loro ruolo autorevole–autoritario, timorosi come sono di suscitare attriti in famiglia, di perdere la confidenza e l’affetto dei figli. Dimenticando che il loro compito–dovere non è quello di essere amati dai figli (l’amore verrà per molte strade, comunque diverse da quella dell’eccessivo permissivismo) ma quello di educare i figli. Padri che per guadagnare amore rischiano di perdere la fiducia e la stima (che stima si può avere di un genitore che cede su tutto?) Figli che non contestano più perché non hanno più motivo di contestare. Ma che poi sentono dolorosamente la mancanza di una figura forte di riferimento. Ricordo un filmato proposto a studenti adolescenti durante un convegno sulla famiglia in corso a Brescia, nel quale compariva la figura di un padre molto permissivo e accondiscendente. Nel dibattito che ne seguì alcuni ragazzi trovarono inopportuni gli atteggiamenti dell’uomo (con una certa sorpresa da parte degli organizzatori). Uno disse molto chiaramente che quel padre non gli era piaciuto per nulla perché era – disse proprio così – «un mollaccione».

Con la fine della contestazione si è perso un rito di passaggio importantissimo che segnava uno scontro solitamente seguito da un incontro col genitore ed era, come scrive Massimo Recalcati, (Recalcati 2011, 105) «un fattore imprescindibile di formazione», che ormai non c’è più. Si può – si dovrebbe – essere padri empatici, affettuosi, teneri, pronti al dialogo, ma… genitori, non compagni. E ai figli offrire solidarietà e comprensione, non complicità.

Allora la domanda che i nuovi padri si devono porre, che noi ci poniamo è: esiste una terza via? Come saranno i padri del futuro? Ci può essere un padre che non sia più pater familias, che rifugga ogni violenza, fisica e verbale, ma sia nello stesso tempo un padre autorevole, capace di assolvere a quella che è una sua funzione storica, biologica, fisica, di dire “no”, porre dei limiti, dei confini? Sembra addirittura che la nozione di limite sia insita nella stessa etimologia della parola padre. La radice di pater presente in tante lingue europee rimanderebbe infatti, secondo alcuni studiosi (Lenzen 1994, 322), alla parola recinto, confine. Per questi autori il concetto insito sarebbe quello di protezione; a me pare inevitabile aggiungere quello del limite. Poiché un recinto protegge dai pericoli e dalle intrusioni esterne ma limita anche la libertà verso l’esterno.

Per tornare alla domanda, io credo di sì, credo che questa terza via potrà essere trovata. A condizione, però, di alcuni passaggi imprescindibili. Anzitutto dovrà trovare soluzione quel punto dolente della paternità che è la separazione tra genitori e il conseguente affidamento dei figli. Troppo spesso la separazione è espressione di una lotta tra i sessi, una lotta di genere. Finché la separazione continuerà a essere vista come una lotta, una battaglia, dove c’è un genitore perdente e uno vincente, uno di serie A e uno di serie B, uno premiato e uno punito non si riuscirà a creare questa terza via. Non ci riusciremo finché non si creerà una cultura, non solo della paternità di cui parlavo prima, ma anche una “cultura della separazione” (espressione, questa, che piaceva molto al neuropsichiatra Giovanni Bollea). E poi bisognerà che i nuovi padri superino il modello femminile al quale finora si sono ispirati, quello della propria madre o compagna: inevitabile riferimento, in assenza di precedenti storici.

Questa nuova paternità dovrà anche depurarsi da eccessi, aberrazioni, patologie vere e proprie che sono sempre presenti quando c’è una profonda trasformazione sociale e culturale. Penso al padre americano, che può acquistare un seno cavo di plastica nel quale inserire il biberon da allacciare al petto per mimare l’allattamento. Penso all’empathy bell, un marchingegno americano che è stato adottato ad alcuni corsi pre–parto in Inghilterra: uno strumento micidiale a metà strada tra lo scafandro di un palombaro e un giubbotto antiproiettile, che con una serie di marchingegni, pesi, liquidi, induce nel futuro papà i sintomi della gravidanza, per esempio costringendolo a camminare come se avesse il pancione e a urinare spesso.

La nuova paternità dovrà liberarsi anche di tutto questo cascame, naturalmente. E poi dovrà smettere di porsi sullo stesso piano del figlio e recuperare una dimensione gerarchica verticale, che non vuol dire il padre distaccato, duro, freddo di un tempo, vuol dire semplicemente mantenere due ruoli diversi, due codici affettivi diversi, per usare le parole dello psicologo e psicoanalista Franco Fornari (Fornari 1981, 17 ss.).

Ci potrà essere una terza via. Il padre potrà mostrare affetto, tenerezza, dolcezza, come è giusto che sia, ma anche fermezza, recuperare quella funzione storica del controllo che insieme alla funzione di protezione è la peculiarità più antica e forse più importante della figura paterna. Ecco: saper conciliare queste due modalità è la vera sfida che attende oggi i “nuovi padri”.

Bibliografia

Kundera M.,
1997, L’identité, Paris, Gallimard, trad. it. L’identità, Milano, Adelphi, 1997.

Parsons T.,
1974, «Struttura della famiglia e socializzazione del bambino», in T. Parsons e R. F. Bales, Family, Socialization and Interaction Process, New York, The Free Press, trad. it. Famiglia e socializzazione, Milano, Mondadori, 1955.

Fornari F.,
1981, Il codice vivente, Torino, Bollati Boringhieri.

Lenzen D.,
1991, Vatershaft. Vom Patriarchat zur Alimentation, Rowohlt Taschenbuch Verlag GmbH, Reinbek bei Hamburg, trad. it., Alla ricerca del padre, Roma-Bari, Laterza, 1994.

Recalcati M.,
2011, Cosa resta del padre?, Milano, Cortina.

Zecchi S.,
2012, Dopo l’infinito cosa c’è, papà?, Milano, Mondadori

Autore

  • Giornalista professionista, laureato in Giurisprudenza con una tesi sulla deprivazione paterna. L’attenzione al tema della paternità è al centro delle sue principali pubblicazioni: Il padre ombra (Giardini, 1988), Onora il padre e la madre (Bompiani, 2001), Storia della paternità (Fazi Editore, 2010), Manuale del papà separato (Datanews, 2012), Grandi uomini, piccoli padri (Fazi Editore, 2015). Nel 1988 ha fondato l’Istituto di Studi sulla Paternità di cui è attualmente presidente.