La conciliazione vita-lavoro tra contrattazione collettiva e prassi
Il lavoro di ricerca articolato nel presente Quaderno cerca di rispondere a un interrogativo, cioè se e in che modo la contrattazione collettiva aziendale sostenga e incrementi gli strumenti di conciliazione vita-lavoro già presenti a livello legislativo e a livello di contrattazione collettiva nazionale. In tal senso, è parso opportuno affrontare il tema della conciliazione vita-lavoro in una duplice prospettiva di analisi, dell’organizzazione aziendale e del diritto del lavoro. Il punto di partenza dello studio, però, non ha trascurato come il tema oggetto di ricerca si presenti sfuggente a ogni inquadramento sistematico. Si è ritenuto, pertanto, che per una corretta impostazione di metodo esso debba essere incastonato nell’ambito di un discorso più ampio che coinvolga le politiche legislative sulle attività di cura e sul sostegno ai servizi per la famiglia.
Va preliminarmente osservato che lo studio parte già con la consapevolezza che i risultati raggiunti non hanno pretesa di esaustività, e che pertanto questo Quaderno può considerarsi quale punto di partenza per percorsi di ricerca futuri.
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Il Quaderno si articola in due parti.
La prima è dedicata ai contributi dottrinali che si pongono come obiettivo di descrivere e analizzare in modo critico lo stato dell’arte dei rispettivi settori disciplinari in materia di conciliazione vita-lavoro (Cinzia De Marco per le questioni lavoristiche, Rocco Palumbo e Massimiliano Pellegrini per gli ambiti organizzativi), nonché di verificare l’effettiva presenza degli strumenti di conciliazione in alcuni casi di contrattazione collettiva aziendale (contributo di Deborah Gervasi e Marcella Miracolini).
La seconda parte, invece, ha un taglio più esperienziale: proprio per rispondere alla vocazione teorico-pratica dei Quaderni FMV, si è scelto di intervistare degli interlocutori che, per la loro posizione “privilegiata” rivestita nei diversi ambiti, potessero offrire dei punti di vista complementari tra di loro, ma tutti ugualmente necessari per comporre il difficile puzzle dell’indagine sugli strumenti di conciliazione. Il tema, infatti, si caratterizza per una tendenziale disomogeneità dei contenuti e per una multiforme tendenza a contaminarsi ora con la sociologia, ora con il diritto (in una prospettiva multilivello), ora con le scienze aziendalistiche e dell’organizzazione.
Sotto il profilo più strettamente giuridico, il dato più evidente è quello che proviene dall’impulso a livello eurounitario, le cui politiche degli ultimi vent’anni hanno dedicato grande attenzione alla prospettiva dei congedi, e poi, da ultimo, a un riordino complessivo della disciplina, con l’emanazione della Direttiva n. 2019/1158/UE, destinata a essere attuata nel prossimo biennio.
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Proprio questo è il tema cui è dedicato il contributo di Cinzia De Marco, le cui riflessioni prendono avvio dall’istanza sociale e dai “bisogni” che stanno alla base delle politiche di conciliazione, sostenendo che «investire nella conciliazione […] contribuisce ad aumentare il carattere inclusivo del mercato del lavoro e a migliorare la qualità della vita». In una prospettiva multilivello, il contributo descrive l’excursus normativo eurounitario che ha trasformato le misure di conciliazione da strumento per promuovere la parità di genere a strumento per supportare una più equa condivisione tra padri e madri dei compiti di cura e di accudimento della famiglia. Il riferimento centrale, oltre che alle direttive, va anche al Pilastro europeo dei diritti sociali proclamato nel vertice sociale per l’occupazione e la crescita di Göteborg del 17 novembre 2017, da cui appunto prende avvio un nuovo corso politico legislativo volto a favorire più eque condizioni di vita e di lavoro, seguendo anche il cosiddetto gender mainstreaming. Tuttavia, secondo l’A., nonostante le politiche legislative messe in atto anche in ambito nazionale, «il traguardo del work-life balance pare ancora lontano da raggiungere».
Il secondo contributo, di Rocco Palumbo e Massimiliano Pellegrini, ha come oggetto il tema dello smart working, e cerca di indagare in particolare gli effetti che il lavoro da remoto ha sulla conciliazione vita-lavoro. Lo studio si muove dalla sostanziale divergenza evidenziata dalle ricerche effettuate da altri studiosi sul tema, per i quali il lavoro a distanza avrebbe conseguenze sia positive sia negative sull’armonizzazione dei tempi di vita e di lavoro. All’esito dell’indagine empirica effettuata dagli autori su un campione di 33.549 individui, il ricorso a forme di lavoro da remoto, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, risulta essere legato da una relazione negativa al bilanciamento vita-lavoro. Da un’attenta lettura dei risultati, emerge tutta la complessità del fenomeno indagato, che richiede dunque l’adozione di specifici accorgimenti negli schemi contrattuali utilizzati per lo smart working, al fine di ridurre gli effetti collaterali che il lavoro da remoto potrebbe generare sui lavoratori, in considerazione dell’inevitabile contaminazione tra momenti di vita e momenti di lavoro che esso determina.
Il terzo e ultimo contributo della prima parte, di Deborah Gervasi e Marcella Miracolini, si è occupato di investigare se e in che modo il livello aziendale di contrattazione sia in grado di produrre effettivi incrementi nel patrimonio degli strumenti di conciliazione dei lavoratori, rispetto alle previsioni del contratto nazionale e quindi anche rispetto ai margini lasciati aperti dal legislatore. A partire da una indagine condotta su una selezione di contratti aziendali, i risultati hanno dimostrato che a fronte di una contrattazione collettiva nazionale quasi del tutto aderente al dato normativo, esistono delle esperienze aziendali di contrattazione virtuose seppur non numerose. L’esito della ricerca conferma che nei casi in cui la contrattazione collettiva è presente in azienda, proprio nel contratto collettivo si può rinvenire lo strumento principale per consentire che le politiche di conciliazione si inverino nell’ambito della vita e della realtà delle persone.
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La seconda parte dei contributi è invece dedicata alle esperienze. Qui trovano posto tre interviste: a Tiziano Treu, Presidente del CNEL; a Ivana Galli, Segretaria CGIL Nazionale, con delega alla contrattazione; a Maria Elena Manzini, CSR Manager di CIRFOOD e a Cristina Rossetti, Welfare Specialist di CIRFOOD.
Gli interlocutori sono stati selezionati proprio per costruire un dialogo a più voci tra il mondo delle istituzioni, quello sindacale e quello delle aziende. Certo, anche qui è indubbio che, a parte la voce del CNEL, proprio per il suo carattere altamente istituzionale, negli altri due casi si è cercato di selezionare dei “campioni” come parti di un’esperienza solo parziale.
Dalle esperienze raccolte si evince come nel complesso si tratti di un tema ancora in pieno sviluppo e che i modelli virtuosi, che pure esistono in Italia, sono ancora poco istituzionalizzati e riconducibili prevalentemente alle “buone prassi” aziendali.
Andando al merito dei diversi contributi, va detto come rivesta particolare pregio per gli spunti preziosi di riflessione proposti, l’intervista a Tiziano Treu, nella duplice veste di Professore emerito di Diritto del lavoro e di Presidente del CNEL. Qui si pone innanzitutto una premessa di metodo, che colloca le politiche sulla conciliazione all’interno di un cerchio più piccolo nell’ambito di cerchi concentrici più ampi, quali lo sviluppo delle attività di cura e le politiche familiari. Da ciò discende che se lo sviluppo di questi ambiti non è omogeneo, anche le politiche sulla conciliazione non potranno decollare. Da questo tassello fondamentale, si articolano ulteriori riflessioni, tra le quali si segnalano le suggestioni relative alla proposta di un cosiddetto indicatore reputazionale da attribuire alle aziende family friendly, che adottano politiche concrete di conciliazione famiglia-lavoro; ovvero anche al ruolo strategico svolto dagli enti locali soprattutto in quelle aree del Mezzogiorno, o anche in alcune zone del Nord Italia, in cui la debolezza endemica del tessuto sociale ed economico impedisce agli strumenti di conciliazione di essere efficaci.
Anche a livello di contrattazione, il ruolo fondamentale è rivestito dall’àmbito territoriale (o di prossimità), perché per le aziende, in questo campo, più che l’aspetto economico è in gioco il modello di organizzazione aziendale. Allora la vera sfida non si gioca a livello nazionale, sia contrattuale sia legislativo. Questa è una partita che, in una prospettiva di sussidiarietà orizzontale, impegna il ruolo degli attori istituzionali periferici e le parti sociali a livello territoriale. Al livello nazionale, invece, compete un ruolo di regia e di inquadramento generale degli istituti, ma ben poco qui si può fare in termini di effettività. Sul punto, valgano anche le riflessioni esposte dal Presidente Treu in merito alla possibile attuazione della direttiva 2019/1158/UE e al ruolo strategico che in futuro potrà svolgere lo smart working.
La risposta delle parti sociali è rintracciabile nell’intervista a Ivana Galli. La prima considerazione che emerge è la conferma della difficoltà del livello aziendale della contrattazione a diventare veicolo di progresso sociale nei diritti inerenti all’area del welfare delle aziende, e ciò per la sua scarsa diffusione, non certo per una sua ontologica inadeguatezza. Anzi, secondo l’esperienza raccolta, proprio nei casi in cui sono stati stipulati contratti collettivi, questi hanno alzato il livello della qualità del benessere delle relazioni tra lavoratori e impresa. Tuttavia si segnalano ancora prassi unilaterali diffuse, da parte delle aziende, con cui si tende a instaurare un rapporto one to one con i dipendenti, escludendo così la mediazione sindacale. Emerge quindi una generale tendenza «abbastanza conservatrice» delle relazioni industriali italiane, nonostante la presenza di «lodevoli eccezioni», che impedisce un reale cambiamento di passo che provenga in modo spontaneo dal tessuto sociale delle aziende. Per questo dall’intervista si rileva la necessità che a livello istituzionale si pongano concretamente le condizioni per superare le barriere istituzionali e culturali che ancora sussistono e che non favoriscono una piena ed effettiva parità tra i generi.
Infine, nell’intervista all’azienda CIRFOOD si delinea una best practice a cui l’azienda ha dedicato grande attenzione e cura nella progettazione e nella realizzazione effettiva del progetto. Il modello di costruzione del welfare aziendale è stato gestito in via unilaterale dal management e tuttavia, nonostante sia confluito in un regolamento aziendale, a monte è stato “condiviso” con le organizzazioni sindacali. Si segnala comunque che, sebbene non sia presente un sistema istituzionale di informazione e consultazione delle rappresentanze dei lavoratori, questi, in quanto soci, sono stati coinvolti nelle fasi di progettazione.
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Volendo quindi tirare le fila delle considerazioni riportate dagli interlocutori, si potrebbe individuare un concetto che, proprio in senso multidisciplinare, rende chiaro qual è l’obiettivo da raggiungere: liberare il “tempo” dai bisogni delegabili per restituirlo ai lavoratori e alle lavoratrici. Il tempo “liberato” potrà essere destinato alla cura, non solo materiale, delle relazioni familiari, e soprattutto dei soggetti deboli che di questa cura all’interno delle famiglie hanno grande bisogno. Una cura senza la quale non si può pensare a uno sviluppo sociale delle persone e che non può prescindere pertanto da una “qualità elevata” delle relazioni di lavoro. Tuttavia, il nodo strategico da risolvere rimane il modus operandi per raggiungere l’obiettivo designato.
Un modello da individuare come best practice a livello istituzionale potrebbe essere quello dato dalla Provincia Autonoma di Trento. Questa, con il Libro Bianco sulle politiche familiari e per la natalità. La famiglia risorsa del territorio. Trentino amico della famiglia approvato nel giugno 2009, ha avviato un’iniziativa concreta di dialogo tra welfare aziendale e welfare istituzionale, proprio sui temi del benessere organizzativo e della produttività aziendale1. Si potrebbe “esportare” questa esperienza anche in altri enti locali, così da mettere in circolo prassi virtuose in modo trasversale a tutti i settori.
Inoltre, emerge dai contributi anche una valutazione sullo smart working che merita di essere sottolineata. Dai dati riferiti nella ricerca di Palumbo e Pellegrino e dalle suggestioni raccolte dall’intervista al Presidente Treu, si rileva come non sia il caso di lasciarsi andare a facili entusiasmi sulla effettiva capacità di questo strumento contrattuale di rendere più agevole la “conciliazione” tra i tempi di vita e di lavoro. L’indicazione è quella di procedere con cautela e soprattutto individuando preliminarmente rigidi paletti di tempo e di durata della prestazione. In caso contrario, gli effetti sul benessere dei lavoratori e delle lavoratrici potrebbero addirittura essere deleteri.
Insomma, volendo tracciare un binario da percorrere per costruire strategie che in futuro facilitino la conciliazione, il metodo da seguire è necessariamente sinergico: sinergico per ambiti di politiche legislative da adottare, sinergico per i livelli istituzionali di intervento, e sinergico per il coinvolgimento degli attori sociali dal lato datoriale e da quello sindacale. Diversamente, se il tema della conciliazione non sarà concepito in un’ottica “olistica”, si correrà il rischio che resti solo un esercizio teorico riservato agli studiosi e che quindi che non si inveri mai nella vita delle persone.
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Ringraziamenti
Preliminarmente, ringraziamo tutti gli Autori che hanno collaborato alla parte teorica con i loro contributi multidisciplinari e l’Associazione ADAPT per aver reso disponibile una selezione di contratti collettivi aziendali.
Un doveroso e sentito ringraziamento lo rivolgiamo al Presidente del CNEL, Tiziano Treu, per averci concesso il Suo prezioso tempo e per aver arricchito di suggestioni e di preziosi spunti di riflessione il lavoro di ricerca del volume, anche in una prospettiva di studio in fieri che qui, per ragioni di tempo e di spazio, non ha potuto trovare adeguato sviluppo.
Un ulteriore ringraziamento si deve alla Segreteria Confederale della CGIL e in particolare a Ivana Galli, per aver rilasciato l’intervista, e a Tania Scacchetti, per avere sostenuto e promosso la nostra iniziativa fin dall’inizio.
Infine, un ringraziamento anche alla CIRFOOD per la “generosità” dimostrata nell’aver condiviso, ai fini del presente studio, la sua esperienza aziendale e i suoi modelli di relazioni industriali.
Note
1 L. Malfer, L’audit aziendale: benessere dei lavoratori, produttività e reti territoriali, in «Quaderni FMV Corporate Family Responsibility», 3, 2019, pp. 75 ss.