1. Anziani e fragilità nel prisma del diritto
La diminuzione della natalità e l’allungamento della vita ci conducono verso una società sempre più “anziana”, e conseguentemente costringono a fare i conti nei prossimi decenni con il radicale mutamento della morfologia della popolazione e con la ridefinizione della fisionomia della società e della famiglia. Da questa consapevolezza muove anche il legislatore sovrannazionale, il quale, con impulso crescente, negli ultimi decenni si è occupato della materia; basti a titolo esemplificativo, richiamare l’art. 25 della citata Carta di Nizza del 2000, che «riconosce e rispetta il diritto degli anziani di condurre una vita dignitosa e indipendente e di partecipare alla vita sociale e culturale». Ancora, la risoluzione del Consiglio Economico e Sociale dell’ONU del 16 maggio 1973, n. 1751 (LIV), intitolata “Gli anziani e la sicurezza sociale ed il Piano d’azione internazionale sull’invecchiamento”, approvato dall’Assemblea Generale dell’ONU con la risoluzione 3 dicembre 1982, n. 37/51, che, oltre alla proclamazione dei diritti fondamentali ed inalienabili degli anziani, compendia politiche in loro favore.
Sul fronte del diritto interno, l’esigenza di approntare strumenti giuridici di tutela e di protezione soddisfacenti, al fine di evitare lacune foriere di riverberarsi negativamente su soggetti sovente in condizione di debolezza o privi di autonomia, non ha trovato una risposta compiuta mediante l’approntamento di uno statuto della persona anziana. Il che è da valutare positivamente, avuto riguardo al rischio che una normativa esclusiva per l’anziano tout court sia occasione di forme di emarginazione. È preferibile, dunque, un approccio che muova nella direzione di dare risposta giuridica alle rilevanti problematiche che afferiscono alla condizione dell’anziano – al peggioramento della condizione economica, di salute, all’indebolimento delle relazioni sociali ed affettive, all’affievolirsi della capacità di intendere e di volere –, intervenendo su determinate situazioni meritevoli (e bisognevoli) di tutela e individuando adeguate soluzioni per far fronte a specifiche debolezze.
La condizione dell’anziano rileva dunque non in quanto tale, ovverosia per il raggiungimento di una determinata soglia di età cui ricondurre automaticamente una determinata tutela, bensì nella misura in cui all’anzianità si associ la mancanza di autonomia. L’evidenziata assenza nel nostro ordinamento di una disciplina unitaria che definisca la tutela dell’anziano, ancorché, come detto, apprezzabile, richiede uno sforzo ricostruttivo notevole in termini di individuazione delle singole problematiche che possono involgere l’anziano e, poi, di individuazione delle relative risposte sul piano giuridico. Ne risulta, infine, un sistema di regole assai variegato, anche se non sempre coerente, che nel disciplinare i distinti profili della cura del patrimonio e della persona dell’anziano, spaziano dal diritto pubblico, e sociale, in particolare, al diritto privato (soprattutto di famiglia e del lavoro, ma non solo).
Tra le possibili prospettive di analisi del variegato quadro normativo interno, è meritevole di elezione quello del ruolo della famiglia nella cura delle persone anziane; il che inevitabilmente richiama il punto della portata del principio solidaristico nell’ambito delle relazioni familiari, immanente sia ai rapporti tra i coniugi, sia – e specialmente – ai rapporti tra genitori e figli (di cura, di assistenza morale, oltre che di educazione, istruzione e mantenimento).
La famiglia è dalla stessa Carta fondamentale considerata un consorzio del tutto peculiare, che si distingue dagli altri per la natura dei rapporti intercorrenti tra i suoi membri: essa è il luogo primario e privilegiato di soddisfazione dei bisogni, di realizzazione dei diritti e di sviluppo della personalità dei suoi componenti, nella misura in cui la famiglia stessa se ne fa tramite e portatrice per condurli – con i mezzi suoi propri – ad estrinsecazione.
Tra i bisogni dei quali la famiglia si dà carico in via preferenziale, anche nell’ottica del legislatore, vi è quello della assistenza e della cura della persona “debole” (Rescigno 1980, 366). E, anzi, come è stato osservato, il tema dell’assistenza richiama in sé la relazione familiare, che manifesta la sua qualità tipica nella “cura alla persona”; la famiglia infatti, di norma, si dà carico spontaneamente di sostenere le persone che si trovano nell’impossibilità di soddisfare in maniera autonoma i bisogni della vita quotidiana e, dunque di svolgere da sé le attività connesse alla cura della propria persona e del proprio patrimonio. E se si concepisce l’assistenza alla luce del naturale connubio della sua componente materiale e morale, si comprende come nella lettura del sociologo la relazione familiare manifesti la sua qualità tipica nella cura della persona, dotandosi di un «compito che identifica ed accomuna i membri delle generazioni della famiglia, tutti coinvolti nella comune responsabilità di dare e di ricevere cura» (D’Agostino 2003, 92).
La famiglia appare in definitiva l’ambito più idoneo a far fronte alle esigenze complessive del soggetto debole, connotando in senso affettivo e relazionale una prestazione di tipo assistenziale che chiunque in via astratta potrebbe adempiere, seppur in modo complessivamente meno rispondente alle molteplici esigenze della persona (Donati 1989, 80).
Si comprende (e si giustifica) dunque la tendenza a preservare il ruolo primario della famiglia nell’adempimento della funzione di assistenza ai soggetti deboli: essa non si piega ad una mera logica economica di risparmio – pur essendo innegabile la maggior rispondenza ad esigenze di contenimento delle spese pubbliche in ambito socio-assistenziale la presa in carico di dette attività da parte dei privati, tra cui la famiglia, su base solidaristica –, quanto alla constatazione della miglior corrispondenza alla tutela del soggetto debole della sua presa in carico nell’ambito del consorzio familiare per la natura dei rapporti esistenti tra i suoi membri. E in questa prospettiva, ad avviso di chi scrive, deve essere letto altresì l’articolo 16 della legge 328 del 2000, Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali, a norma del quale «il sistema integrato di interventi e servizi sociali riconosce e sostiene il ruolo peculiare delle famiglie nella formazione e nella cura della persona, nella promozione del benessere e nel perseguimento della coesione sociale; sostiene e valorizza i molteplici compiti che le famiglie svolgono sia nei momenti critici di disagio sia nello sviluppo della vita quotidiana». Tale disposizione mette in luce come nel nostro ordinamento la famiglia sia considerata quale provider per l’assistenza alla persona non autonoma, ma ciò in considerazione della peculiarità del ruolo che alla famiglia è, non già attribuito, bensì riconosciuto da parte dell’ordinamento.
2. Il carattere “spontaneo” della solidarietà dei figli nei confronti dei genitori anziani o non autosufficienti
Se dalle osservazioni precedenti emerge come la famiglia sia il luogo naturale della cura della persona non autonoma, occorre mettere in luce l’asimmetrica valenza, sul piano giuridico, della solidarietà cui i genitori sono tenuti nei confronti dei figli e di quella cui per contro sono tenuti i figli nei confronti dei genitori, specialmente anziani e non autonomi. Nel nostro ordinamento, infatti, la latitudine dei doveri posti in capo ai genitori – e per il sol fatto della generazione – è andata vieppiù estendendosi, incombendo sui genitori ad esempio il dovere di mantenimento dei figli anche maggiorenni, se economicamente non autosufficienti o – e ad libitum – se portatori di handicap.
Per contro, la cura e l’assistenza dei genitori anziani e/o non autosufficienti si colloca nell’alveo di una solidarietà per così dire spontanea, non essendo qualificato come dovere giuridico. E, coerentemente, manca nella Costituzione uno specifico riferimento ai doveri cui siano tenuti figli nei confronti dei genitori, disciplinati nel codice civile con scarna disposizione all’articolo 315 bis c.c. il quale sancisce il dovere del figlio di rispettare i genitori; tale dovere, tuttavia, non costituisce un obbligo giuridico in senso stretto, ancor più a cagione della inesistenza di una sanzione in caso di inadempimento, connotandosi di contro come dovere morale, insuscettibile di essere coercito.
L’unico dovere giuridico che incombe sui figli è quello di fornire gli alimenti ai genitori, e dunque quanto necessario per vivere, allorché essi non siano in grado di procurarselo da sé. L’art. 433 ss. c.c. – ed in maniera del tutto simmetrica – prevede che tanto i figli quanto i genitori siano reciprocamente tenuti a prestare gli alimenti, al ricorrere dello stato di bisogno dell’alimentando. La condizione oggettiva di bisogno in cui deve versare l’alimentando è concetto sufficientemente elastico perché possa esservi annoverato anche chi, come l’anziano, sia in condizione di età e di salute tale da non poter provvedere da sé a procurarsi i mezzi necessari per vivere. Quanto alla misura, gli alimenti debbono essere determinati sulla scorta del bisogno dell’alimentando e delle condizioni economiche di chi è tenuto alla prestazione alimentare, e sono volti a soddisfare i bisogni primari della persona. L’art. 443 c.c. statuisce che chi deve somministrare gli alimenti ha la scelta di adempiere questa obbligazione o mediante un assegno alimentare corrisposto in periodi anticipati, o accogliendo e mantenendo nella propria casa colui che vi ha diritto. L’autorità giudiziaria può, però, secondo le circostanze, determinare il modo di somministrazione. Il menzionato assetto legislativo testimonia il carattere (tuttora) patrimoniocentrico del nostro sistema civilistico; esso, nondimeno, neppure appare adeguato alla sua funzione, solo che si consideri come manchi un raccordo tra gli obblighi alimentari e il sistema pubblico di erogazione dei servizi socio-assistenziale agli indigenti, di guisa che, si lamenta, nell’inerzia dell’alimentando, manca uno strumento che consenta la rivalsa dell’ente pubblico erogante un servizio nei confronti dei parenti dell’alimentando. La lacuna acquista connotati di allarme in un periodo di crisi delle finanze pubbliche quale l’attuale.
Ma, ancor più, per quanto in questa sede particolarmente rileva, la disciplina alimentare non è pienamente soddisfacente rispetto alle molteplici esigenze di assistenza di cui la persona non autonoma è portatrice, limitandosi al soddisfacimento del bisogno economico. Di qui la sostanziale inconferenza dei doveri alimentari rispetto alla solidarietà familiare, tenuto conto del fatto che il genitore anziano e/o privo di autonomia non reclama semplicemente l’erogazione di somme di denaro, quanto piuttosto il sostegno nel compimento delle attività quotidiane e comunque un apporto relazionale; l’istanza è, in altri termini, quella di una presa in carico della sua persona, nel suo complesso, nella molteplicità delle esigenze patrimoniali e morali.
Le suddette tendenze spiegano il fenomeno da un lato della esternalizzazione dell’assistenza – con il ricorso a persone diverse dai familiari per soddisfare i molteplici bisogni quotidiani dell’anziano – e dall’altro lato del diffondersi di strumenti contrattuali volti, seppur in maniera non sempre soddisfacente, a supplire alla mancanza della rete familiare. In questo contesto deve peraltro menzionarsi l’istituto dell’amministrazione di sostegno, che in ragione del suo carattere duttile, è idonea a fornire sostegno anche alla persona anziana che non sia in grado di curare da sé il proprio patrimonio e la propria persona. È il giudice tutelare a verificare la sussistenza della mancanza di autonomia e a nominare un amministratore di sostegno con il compito di coadiuvare o sostituire, a seconda delle necessità, il beneficiario nel compimento degli atti giuridici della vita quotidiana. L’amministratore di sostegno può anche essere incaricato di assumere le decisioni in materia di salute e di organizzare la assistenza del beneficiario, ad esempio assumendo personale qualificato. L’amministrazione di sostegno si colloca dunque nell’alveo degli strumenti volti a porre rimedio alla incoercibilità della solidarietà dei figli nei confronti dei genitori anziani, garantendo – unitamente ad un’auspicabile efficienza dei servizi socio-assistenziali – adeguato sostegno all’anziano bisognoso tutte le volte in cui esso non venga spontaneamente prestato da parte dei familiari.
Quanto fino ad ora osservato in ordine alla lacuna del sistema del diritto privato, che non pone in capo ai familiari – eccettuato il coniuge –, alcun obbligo di assistenza nei confronti dell’anziano, assume contorni di paradosso avuto riguardo non solo alle richiamate norme di diritto sociale che riconoscono nella famiglia la duplice veste di provider e di reciver di sicurezza sociale.
Tale asimmetria appare a molti non priva di ragionevolezza, invocando un generale principio di non interferenza del diritto nella complessità dei rapporti che legano un figlio adulto ad un genitore anziano; essa però, ad avviso di chi scrive, perplime, tenuto conto del fatto che nel legame familiare, rectius filiale, si individua uno dei fondamenti razionali del sistema successorio, e in particolare della successione necessaria. Cosicché mentre i figli sono annoverati tra i legittimari ai quali spetta una quota di eredità indipendentemente da una eventuale diversa volontà del de cuius, non sono loro imposti obblighi (corrispettivi) di cura e assistenza nei suoi confronti.
Di guisa che la disparità evidenziata, che pone in una situazione giuridica svantaggiosa i genitori anziani non autosufficienti rispetto a quella dei figli che versano nelle stesse condizioni di debolezza o di bisogno, meriterebbe di essere oggetto di rimeditazione, muovendo anzitutto dall’individuazione – se esiste – del fondamento razionale che la giustifica.
3. Anziani-nonni: il recente riconoscimento giuridico della relazione con i nipoti
Merita infine un cenno il tema, ancorché eccentrico rispetto a quanto sopra descritto, del riconoscimento giuridico della relazione avi-nipoti.
Fino a qualche anno fa, il rapporto tra avi e nipoti veniva considerato dal legislatore del codice civile unicamente in relazione all’obbligo sussidiario di mantenimento dei nipoti imposto agli avi nel caso di impossibilità dei genitori di potervi farvi fronte autonomamente. La Riforma della disciplina della filiazione del 2012-13 ha superato tale limitata prospettiva, affermando il diritto del minore a crescere in famiglia, ove è incluso ex art. 315-bis c.c. il diritto del figlio di mantenere rapporti significativi con gli ascendenti.
Prima della Riforma del 2012-2013 il diritto degli ascendenti a tenere rapporti con nipoti minorenni godeva di una tutela indiretta, nel senso che poteva ricorrersi al Tribunale per i minorenni affinché adottasse i provvedimenti opportuni ai sensi dell’art. 336 c.c. di limitazione della responsabilità genitoriale, una volta verificato che la privazione dell’affetto nei nonni arrecasse un pregiudizio al minore. In tal senso la riforma ha fatto un significativo passo verso il riconoscimento delle relazioni affettive all’interno della famiglia, ancorché rimanga imprescindibile, al fine dell’adozione di qualsivoglia intervento del giudice volto a tutelare il diritto dell’ascendente che si assuma leso, l’accertamento che la condotta ostruzionistica del genitore sia lesiva anche dell’interesse del minore.
Anche nello specifico ambito della disciplina della crisi è stata introdotta una norma ad hoc relativa alla relazione avi-nipoti, ove all’art. 337-ter, comma 1, c.c. si sancisce il diritto del figlio di mantenere, anche a seguito della separazione e del divorzio, rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale. La norma – invero introdotta dalla L. n. 54/2006 e dunque precedente alla Riforma della filiazione del 2012-2013 – ha definitivamente superato la tesi, all’epoca maggioritaria, secondo la quale la posizione degli ascendenti e dei parenti non poteva essere qualificata alla stregua di diritto soggettivo, posto che il beneficiario della situazione giuridica soggettiva tutelata dalla norma si considerava essere il minore. In questa prospettiva gli ascendenti e i parenti erano titolari di un interesse giuridicamente tutelato a frequentare il minore, sempre che il rapporto che li legava ad esso potesse ritenersi “significativo”. Tale norma affida al giudice un elemento ulteriore di indagine e di valutazione nella scelta e nell’articolazione di provvedimenti da adottare in tema di affidamento, nella prospettiva di una rafforzata tutela del diritto ad una crescita serena ed equilibrata. Si ritiene che il giudice possa anche d’ufficio pronunciarsi relativamente alle modalità di frequentazione del minore con parenti e ascendenti. La precisazione delle modalità di frequentazione degli ascendenti e dei parenti risulta peraltro assai opportuna ogniqualvolta il genitore non affidatario non sia in grado, per cause indipendenti dalla sua volontà, di assicurare una frequentazione assidua tra gli ascendenti ed il figlio affidato all’altro coniuge.
Bibliografia
Rescigno, P.
1980 La comunità familiare come formazione sociale, in Rapporti personali nella famiglia, Quaderni del CSM, Arti Grafiche Jasilli, Roma.
Donati, P.
1989 La famiglia come relazione sociale, Franco Angeli, Milano.
D’Agostino, F.
2003 Una filosofia per la famiglia, II ed. Giuffrè, Milano.
Sesta, M.
2021 Manuale di diritto di famiglia, IX ed., Cedam, Padova.