1. Il lavoro nella tempesta (quasi) perfetta
Con l’accelerazione delle trasformazioni che il lavoro ha subito negli ultimi anni sotto molteplici profili, sono tornate in auge le profezie nefaste della “fine del lavoro” che tanto clamore avevano destato alla fine dello scorso millennio.
Al cospetto dei processi con cui queste trasformazioni sono identificate ‒ deregolazione, destandardizzazione, digitalizzazione, automazione, remotizzazione e perfino dematerializzazione del lavoro ‒ e soprattutto a fronte dello scenario di crisi ‒ e di transizione ‒ multidimensionale (economica, sociale, ecologica, etc.) che proietta conseguenze lunghe nel futuro, il lavoro sembra essere finito al centro di una “tempesta perfetta” che ne sfida i contenuti, le forme, il significato.
Gli esercizi previsionali che le sofisticate tecniche di elaborazione dei dati consentono di fare ci consegnano scenari ambivalenti, e gli esperti si dividono ‒ come avrebbe detto Umberto Eco ‒ tra “apocalittici” e “integrati”: i primi vedono gli effetti negativi dei cambiamenti in atto sul mercato del lavoro, e la massiccia perdita di occupazione che questi comportano; i secondi, pur riconoscendone l’impatto dirompente, ne vedono le potenzialità in termini di creazione di nuovi mercati, nuove professioni e competenze, perfino di una migliore generalizzata qualità del lavoro. Potremmo invero aggiungere a questi due un terzo gruppo, quello dei “rivoluzionari”, che preconizzano ‒ e plaudono a ‒ una società liberata dal lavoro (una contraddizione in termini come vedremo).
Se però guardiamo al recente passato, i dati che fotografano quanto è accaduto negli ultimi due decenni parlano chiaro. Forse non è perfetta, ma una tempesta è in atto.
Il mercato del lavoro è sempre più polarizzato fra mansioni a elevate e a basse competenze e specializzazione, e sempre più segmentato (e caratterizzato da forti disuguaglianze) lungo i “classici” clivages del genere, dell’età, dell’origine etnica dei lavoratori e delle lavoratrici, delle differenze territoriali, della sicurezza e tutela dell’impiego; ma anche lungo nuove faglie come quelle determinatesi tra le mansioni più o meno impattate dalle tecnologie digitali, più o meno automatizzabili, o quelle più o meno remotizzabili.
Per esempio, secondo l’European Jobs Monitor 2021 due su tre nuovi posti di lavoro creati dagli inizi del nuovo secolo sono stati occupati da donne. Se l’aumento dell’occupazione femminile si è registrata sia nella parte alta che in quella bassa della distribuzione salariale è nella parte bassa che il dato richiede più attenzione. Qui, infatti, la manodopera femminile è arrivata a sopravanzare quella maschile, e a subire di più gli impatti occupazionali del Covid-19. Parallelamente è cresciuta la componente anziana e stabile della forza lavoro mentre i giovani largamente occupati con impieghi atipici hanno duramente pagato gli effetti sul lavoro della crisi pandemica, restando oltretutto ai margini degli aiuti[1]. Se pensiamo all’Italia, poco per esempio è valso a loro il blocco dei licenziamenti, avendo contratti che per lo più si sono risolti “naturalmente” e non sono stati rinnovati[2].
D’altro canto, il mercato del lavoro si è rivelato il luogo dei paradossi, del disallineamento tra domanda e offerta sul piano delle competenze e della specializzazione, ma anche delle aspettative, delle imprese e dei lavoratori. A dimostrarlo è oggi, icasticamente, il fatto che le imprese lamentano di non trovare il personale di cui hanno bisogno, mentre c’è una schiera di giovani che resta inattiva, come i Neet non occupati né impegnati in attività formative, che un impiego nemmeno lo cercano. Costituiscono oltre un terzo del totale di questo universo peraltro molto variegato al suo interno[3]. O ancora, si pensi al recentissimo fenomeno delle dimissioni volontarie, Great Resignation o Big Quit nel linguaggio internazionale; rassegnate ‒ sembrerebbe ‒ non tanto per cambiare radicalmente vita lasciando per sempre il lavoro, come una certa vulgata mediatica suggerisce, bensì alla ricerca di un lavoro migliore in termini di qualità della conciliazione con le altre sfere di vita e di realizzazione personale. Un fenomeno ancora poco conosciuto e forse anche ingigantito dai media e da facili slogan, ma che certamente chiede di essere meglio compreso e investigato.
2. Il lavoro smarrito tra le pieghe del mercato
La riflessione sul futuro del lavoro non può riguardare dunque solo il borsino delle professioni che salgono o scendono nelle richieste delle imprese, o la quantità delle opportunità occupazionali che si guadagnano o si perdono nel mercato per via della rivoluzione 4.0, né le nuove forme di regolazione e tutela necessarie per raggiungere e coprire le diverse tipologie di lavoro atipico; bensì il senso stesso del lavoro, la definizione dei suoi confini, il significato che oggi assume sul piano sociale ed esistenziale.
Cos’è il lavoro? lungi dall’essere una domanda retorica di cui si può dare per scontata la risposta, richiede una disamina articolata; richiede ‒ per dirla con Alain Supiot[4] ‒ di rinnovare le parole e, più in profondità, le categorie normative e di pensiero con le quali, sulla scia del fordismo e dello sviluppo industriale del Novecento, lo abbiamo sino ad oggi definito.
Come Aris Accornero[5] ha scritto: il XX secolo sarà ricordato come il secolo del “Lavoro”; un secolo che si è aperto con i lavoratori in cerca di riconoscimento e cittadinanza per sfuggire allo sfruttamento e alla degradazione, e che si è chiuso con la profezia della Jobless society. Nel mentre, il lavoro si è fatto «maiuscolo», divenendo il perno attorno a cui ruotavano i corsi di vita individuali e famigliari e l’intera organizzazione sociale. Il volto idealtipico di questo “Lavoro”, lo conosciamo bene. È il volto (maschile) del lavoro manuale in fabbrica, monotono e faticoso, vissuto collettivamente: omogeneo nelle condizioni della sua erogazione e capace di omogeneizzare anche le condizioni di vita dei lavoratori. È il volto del lavoro salariato, dipendente, stabile e organizzato, e che, grazie all’azione della rappresentanza collettiva, scambia subordinazione, disciplinamento e impoverimento dei contenuti professionali con la promessa di sicurezza occupazionale e reddituale, di status e identità sociale, di cittadinanza.
Questo tipo di lavoro ha diverse caratterizzazioni. È “produttivo” in un modo specifico e nuovo: il suo valore si materializza nei beni e nei servizi prodotti, destinati a soddisfare dei bisogni e a crearne di nuovi, dentro un circolo che si autoalimenta e produce ricchezza e benessere. È veicolo di riconoscimento e identità sociale oltre che di accesso al welfare. È principio di integrazione e regolazione sociale: assegna infatti a ciascuno un posto all’interno della società, cristallizzando le differenze ‒ e le disuguaglianze ‒ non solo di classe, ma anche di genere. Mentre gli uomini sono dediti alla produzione economica, alle donne si chiede l’impegno nelle attività di riproduzione sociale; attività tanto indispensabili quanto poco valorizzate socialmente. Non essendo monetizzate, sono considerate “improduttive”, “non lavoro”; cosicché la nozione di lavoro viene a essere schiacciata su quella di occupazione per il mercato.
Cosa sia successo dopo è storia. Grandi rivolgimenti economici, istituzionali, sociali e demografici (tra i quali spicca l’emancipazione femminile), si accompagnano allo sfaldamento della società salariale, alla liberalizzazione degli scambi, alla deregolazione del lavoro che segnano la cosiddetta transizione post-fordista. Si moltiplicano le forme di impiego “atipiche” che spezzano l’uniformità del lavoro considerato standard e la linearità delle carriere, rompono l’omogeneità delle condizioni di lavoro, allentano le distinzioni tra lavoro e non-lavoro così come tra lavoro produttivo e riproduttivo che si vanno mescolando dentro corsi di vita più complicati e discontinui, nei quali più frequenti si fanno i passaggi tra occupazione, disoccupazione e inattività.
Al lavoro non mancano promesse di realizzazione, a partire da quelle di valorizzazione delle capacità, delle competenze e della soggettività di ciascuno; valorizzazione che i lavoratori reclamano così come i cittadini invocano spazi di partecipazione attiva nella società, secondo i dettami culturali del processo storico di individualizzazione, giunto al suo apice promettendo autonomia e autorealizzazione. Ma, insieme alla stabilità, il lavoro ha perso l’orizzonte del lungo periodo, del progetto di tutta una vita; si è frammentato, è divenuto “minuscolo”[6]. Non è più come in passato una condizione capace di accomunare, anzi: diventa specchio di un legame sociale fragile, che si individualizza.
3. Il lavoro ritrovato nel presente del remoto
Come su un piano inclinato, i cambiamenti avviati hanno accelerato la corsa strada facendo. E, sin dagli esordi, la “quarta rivoluzione industriale” (della digitalizzazione, della robotica, ecc.) ha fatto intendere, accanto a straordinarie potenzialità per lo sviluppo e il miglioramento delle nostre vite, di poter esacerbare alcune derive sul fronte economico-lavorativo, sospingendo le imprese verso livelli sempre più esasperati di efficientismo e ottimizzazione e il lavoro verso una crescente funzionalizzazione. Basti citare l’ambito del delivery nel quale i ritmi e gli orari di lavoro sono dettati delle ordinazioni tramite App e algoritmi e dalla promessa di una fornitura in tempo reale, dove le tutele contrattuali sono spesso risibili e soffrono di un quadro normativo ancora lacunoso. Per non dire dei cosiddetti crowdworkers, che lavorano per le piattaforme di servizi online (le c.d. click farms): luoghi di condivisione, scambio, collaborazione tra professionalità e competenze, ma anche di parcellizzazione delle mansioni, di miniaturizzazione dei rapporti di lavoro, sfilacciamento delle tutele di un lavoro che è definito “autonomo”, ma nella realtà non lo è davvero[7].
Ogni determinismo è fuori luogo. La portata delle innovazioni che si stanno producendo è enorme e ha luci ed ombre che proiettate nel futuro ancora non si riescono a contornare. Ma non si può sottacere che sotto queste spinte, in assenza di una adeguata regolazione, il lavoro rischia di andare “doppiamente in frantumi”: sul piano contrattuale e sul piano dei contenuti[8].
Eppure, il lavoro continua a rappresentare un sistema di senso, conservando per le persone una funzione importante nella definizione della propria identità personale e sociale, conservando al contempo per la società una fondamentale funzione di legame sociale. Ed è proprio il lavoro digitalizzato e dematerializzato, che può essere svolto da remoto, così come quello che non può esserlo, a offrirci un punto di osservazione privilegiato per riflettere sui i nuovi confini e significati del lavoro, sul senso che continua a ricoprire per le persone e la società.
Prendiamo lo smart working su cui tanta attenzione si è riversata a partire dall’accelerazione improvvisa che esso ha avuto a causa dei lockdown e delle norme di distanziamento necessarie per arginare la diffusione del Covid. Al di là della funzione salva-occupazione e salva-reddito che lo smart working ha inizialmente rappresentato, la semplificazione delle norme di regolazione che ci è rimasta in eredità promuovendone lo sviluppo getta una luce non tanto sul fatto che esso possa favorire un più equilibrato rapporto tra lavoro e vita, tra funzioni di produzione e riproduzione sociale, un più soddisfacente rapporto tra lavoratore e impresa all’insegna di un lavoro che si riorganizza per obiettivi e coltiva i legami fiduciari, quanto sul fatto che queste aspettative sono fortemente sentite e riguardano sempre più i lavoratori e le lavoratrici indipendentemente dalla possibilità che possano o meno lavorare in smart working. In fin dei conti l’improvvisa diffusione dello smart working ha rappresentato l’opportunità per rendere tali aspettative visibili, per acquisirne consapevolezza sul piano personale e organizzativo.
La rilevanza di simili aspettative è emersa persino con maggior chiarezza nel momento in cui lo smart working ha mostrato di non poterle da solo e sempre soddisfare, specie se al di fuori di un adeguato mix con altre politiche di regolazione del lavoro, e senza effettive innovazioni organizzative nella gestione delle risorse umane[9]. Anzitutto perché lo smart working non è equamente distribuito e la possibilità di lavorare da remoto dipende dal tipo di mansione svolta e dal settore di impiego, dalla dimensione dell’impresa e dalla localizzazione territoriale della stessa. E dipende anche in larga misura dal genere, dato che tende a essere una soluzione privilegiata dalle e per le donne, con il rischio di una marginalizzazione rispetto alle funzioni strategiche per le quali le imprese richiedono che il lavoro sia svolto prevalentemente in presenza, e al tempo stesso con il rischio che si arretri sul piano della condivisione dei compiti di cura tra uomini e donne, invece positivamente sperimentata proprio nei mesi di lockdown. Inoltre, l’intersecarsi tra lavoro e vita nella gestione quotidiana dello smart working da un lato sembra poter esaltare le possibilità di scelta e responsabilità dei lavoratori e delle lavoratrici, dall’altro può intrappolarli in una cattiva gestione del tempo di lavoro che diventa totalizzante, con eccessi di connessione e overworking, con forti sovrapposizioni e tensioni con la vita privata personale e familiare. I confini tra lavoro e vita sono porosi ed esposti necessariamente a degli sconfinamenti, ma vanno presidiati e preservati.
Un secondo esempio lo possiamo trarre ancora dall’intreccio tra digitalizzazione, lavoro e pandemia, quando è apparso chiaro quanto una serie di lavori nei servizi alla persona, nei servizi di prossimità e cura, nei servizi della logistica e della distribuzione fossero “essenziali” e al tempo stesso in larga misura (al momento almeno!) non remotizzabili. Lavori a bassa produttività economica, ma a elevata “produttività sociale”, in quanto fondamentali per raggiungere e “stare vicino” alle persone, rispondere ai loro bisogni, sostenere le funzioni di riproduzione sociale, di cura e di coesione della società. Lavori perlopiù marginali nell’immaginario collettivo, spesso mal pagati e mal tutelati sul mercato, e invece indispensabile contributo al benessere della collettività; indispensabili tanto quanto tutti quei lavori che si svolgono al di fuori del mercato retribuito, dedicati anch’essi alla riproduzione sociale, come quelli del settore domestico e dell’assistenza svolti in modo informale, nelle famiglie e nelle reti di prossimità, nel volontariato, in diversi ambiti della società civile.
Esempi preziosi, che spingono a riscoprire la radice antropologica del lavoro, inteso come azione trasformativa volta a rispondere a bisogni materiali e simbolici dell’uomo (nutrirsi, sostentarsi, proteggersi, curarsi, comunicare, etc.); un’azione che è anzitutto interazione col mondo e con l’altro da sé. Il lavoro, infatti, si inscrive nella condizione di vita dell’essere umano, che è una condizione di finitezza e di apertura insieme. Questa apertura si esplica attraverso l’azione, e questa azione esprime la dimensione intrinsecamente relazionale degli esseri umani. Il lavoro non è una dimensione accessoria o marginale della condizione umana, bensì un ambito irrinunciabile della piena realizzazione della persona, così come non è dimensione accessoria o marginale della società. La società nasce come convivenza organizzata e solidale proprio dalla dimensione costitutivamente relazionale della persona, incapace per questa ragione di rispondere da sola ai propri bisogni materiali e simbolici. Allora senza lavoro non c’è nemmeno pieno sviluppo della società, di cui il lavoro è un principio fondamentale di organizzazione e prima ancora è un principio di legame sociale[10].
La jobless society è da questo punto di vista un ossimoro, ma per smascherarlo dobbiamo ritrovare il lavoro oltre i riduzionismi del mercato, per valorizzarlo, per tutelarlo e promuoverlo in tutte le sue forme. Estendendo a tutti i lavori ciò che Simone Weil scrive del lavoro manuale, operaio, potremmo affermare che la civiltà più pienamente umana è quella in cui il lavoro diviene il supremo valore non in rapporto a ciò che produce, ma in rapporto all’uomo che lo esegue, e ‒ aggiungiamo ‒ che lo esegue in relazione con altri. In questa prospettiva ritrovare il lavoro significa anzitutto rinnovare le categorie con cui lo definiamo, per contribuire ‒ come afferma Supiot[11] ‒ alla formazione di un regime di lavoro realmente umano.
Note
[1] Eurofound and European Commission Joint Research Centre, European Jobs Monitor 2021: Gender gaps and the employment structure, European Jobs Monitor series, Publications Office of the European Union, Luxembourg 2021.
[2] R. Lodigiani, Un nuovo legame con il lavoro del welfare (post) pandemico, in «Sociologia», n. 2, 2021, pp. 45-55.
[3] Nel complesso 2 milioni e 32 mila tra 15 e i 29 per un’incidenza sulla popolazione pari età del 23,1%; in calo dopo il picco registrato con lo scoppio della pandemia nel 2020, ma sempre un record in Europa, dove l’Italia conserva il primato.
[4] A. Supiot, Homo faber: continuità e rotture, in E. Mingione (a cura di), La grande trasformazione. L’impatto sociale del cambiamento del lavoro tra evoluzioni storiche e prospettive globali, Feltrinelli, Milano 2020.
[5] A. Accornero, Era il secolo del Lavoro, Bologna, Il Mulino, 1997, p. 9 e ss.
[6] Ibidem.
[7] A. Casilli, Schiavi del clic. Perché lavoriamo tutti per il turbocapitalismo, Feltrinelli, Milano 2020.
[8] R. Lodigiani, Lavoratori e cittadini, Vita e Pensiero, Milano 2018.
[9] M. Peruzzi, D. Sacchetto (a cura di), Il lavoro da remoto. Aspetti giuridici e sociologici, Giappichelli, Torino 2022 e L. Pesenti, G. Scansani, Smart Working Reloaded, Vita e Pensiero, Milano 2021.
[10] P. Gomarasca, R. Lodigiani, Educare al senso morale del lavoro, in AA.VV, Lavoro, Innovazione sociale, Solidarietà, Vita e Pensiero, Milano 2017 e R. Lodigiani, Lavoratori e cittadini, cit.
[11] A. Supiot, Homo faber: continuità e rotture, cit.
Bibliografia
Accornero A.
1997 Era il secolo del Lavoro, Il Mulino, Bologna.
Casilli A.
2020 Schiavi del clic. Perché lavoriamo tutti per il turbocapitalismo, Feltrinelli, Milano.
Eurofound and European Commission Joint Research Centre
2021 European Jobs Monitor 2021: Gender gaps and the employment structure, European Jobs Monitor series, Publications Office of the European Union, Luxembourg.
Gomarasca P., Lodigiani R.
2017 Educare al senso morale del lavoro, in AA.VV, Lavoro, Innovazione sociale, Solidarietà, Vita e Pensiero, Milano, 2017.
Lodigiani R.
2021 Un nuovo legame con il lavoro del welfare (post) pandemico, in «Sociologia», n. 2, pp. 45-55.
2018 Lavoratori e cittadini, Vita e Pensiero, Milano.
Peruzzi M., Sacchetto D., (a cura di)
2022 Il lavoro da remoto. Aspetti giuridici e sociologici, Giappichelli, Torino.
L. Pesenti, G. Scansani
2021 Smart Working Reloaded, Vita e Pensiero, Milano.
Supiot A.
2020 Homo faber: continuità e rotture, in E. Mingione (a cura di), La grande trasformazione. L’impatto sociale del cambiamento del lavoro tra evoluzioni storiche e prospettive globali, Feltrinelli, Milano.