Intervista a Mariarosaria Izzo a cura di Sonia Vazzano
Da diversi anni ti occupi di DE&I da differenti prospettive (psicologia, coaching, accademia…). Che idea ti sei fatta del futuro che abbiamo davanti e delle tappe più significative raggiunte finora?
Nella ricerca della diversità, dell’equità e dell’inclusione (DE&I), le aziende hanno una responsabilità e un’opportunità unica, per generare un impatto significativo su questioni urgenti che la nostra società deve affrontare. Attualmente le organizzazioni sono impegnate ad includere con sapienza e capillarità le proprie persone nel rispetto della propria unicità (genere, generazione, disabilità, orientamento sessuale, etnia), secondo il principio dell’equità. Negli ultimi cinque anni si è potuto osservare un incremento di attenzione-interesse-comunicazione sui temi dell’inclusione, sia a livello sociale che organizzativo. Questo nuovo orientamento non è stato davvero proporzionale alle effettive opportunità di cambiamento, sia per ragioni legate alla diffidenza sia per un effetto modaiolo che ha visto i programmi di diversity più nei dipartimenti di comunicazione e marketing che nelle stanze dei board per i cambiamenti di processo. La sfida futura sarà quella di passare dalla platea al palcoscenico, dall’applausometro social ad un’opera prima che sia all’altezza del tema. Si tratta di affermare una leadership inclusiva che abbia un impegno realistico nei confronti di valori che incoraggino una società valorizzante. La fase di consapevolezza se non cede il passo alla naturale evoluzione verso una fase di advocacy della diversità, può solo che essere un boomerang. L’effetto nelle coscienze collettive delle cittadinanze sociali e organizzative sarà di certo quello dell’incoerenza, di una contraddizione tra il dire e il fare con effetti negativi sulla soddisfazione, sull’impegno e sulla motivazione delle persone. Il coinvolgimento dei consigli di amministrazione nello sviluppo e nella valutazione delle strategie di diversità, equità e inclusione è il modo più rapido e concreto per assicurare una difesa dell’inclusione.
Il tema di questo Quaderno legge la conciliazione come leva per la DE&I. Che cosa pensi di questo approccio rispetto alla tua esperienza?
Il tema della conciliazione ha una connessione intrinseca con la diversità, l’equità e l’inclusione fin dalla metà del secolo scorso, a mio modo di vedere. Se la prima affermazione della DE&I era guidata dal principio dell’eguaglianza, dei pari diritti con i movimenti delle minoranze etniche e con quelli delle donne negli Stati Uniti d’America, oggi il principio guida dell’equità si compone dei processi di conciliazione per una maggiore giustizia sociale.
L’equità è la lente attraverso cui ci si assicura di fornire ad ogni persona gli strumenti per poter dare il meglio di sé e di competere alla pari con gli altri. Questo non può prescindere dalla visione dell’identità di ogni individuo in maniera sistemica, dal riconoscimento delle proprie unicità e dei propri contesti allargati. In questo principio ravvedo la più stretta connessione con la conciliazione. Lavoro e vita si sono adattati vicendevolmente più che mai sino ad ora e la pandemia inoltre ha stimolato una conciliazione nuova tra lavoro e vita privata, con un conteggio finale ancora non troppo equo. L’aumento del lavoro a distanza ha anche offuscato i confini tra tempo personale e tempo di lavoro, rendendo più difficile raggiungere l’equilibrio tra lavoro e vita privata. Attualmente si parla di work-life integration per indicare la capacità di integrare il proprio lavoro e la propria vita per completarsi e sostenersi a vicenda. È il processo di concedere spazio sia al lavoro che alla vita personale in modo che la persona possa sentirsi realizzata in entrambi gli aspetti. In tal senso si coordinano in modo efficiente gli orari della giornata lavorativa e le responsabilità personali, garantendo produttività personale e professionale e una maggiore soddisfazione. Sebbene l’equilibrio e l’integrazione tra lavoro e vita privata condividano lo stesso obiettivo di raggiungere un’armonia tra la nostra vita professionale e personale, l’approccio è molto diverso. L’integrazione non riguarda la ricerca di un equilibrio “perfetto” tra lavoro e vita. Si tratta di trovare un equilibrio che funzioni e che sarà diverso per ogni persona lungo il ciclo di vita lavorativo, ovvero cambierà nel tempo man mano che cambiano le circostanze di vita e i relativi bisogni personali. La chiave è creare una convivenza che funzioni per essere flessibile e adattabile con il variare delle esigenze delle persone.
Dal punto di vista della psicologia, quali sono le intuizioni che non stiamo ancora valorizzando al meglio nell’ambito della diversity?
La convivenza delle diversità all’interno dei sistemi sociali richiede una consapevolezza dei processi inconsci, prima ancora delle azioni di integrazione. Le società che investono nella diversità dirigono la propria nave verso mari sconfinati seguendo la rotta vincente del valore dell’equità. Decidere di agire concretamente per assicurare un’apertura e un dialogo delle diversità, richiede cultura e per avere cultura occorre mettere in crisi il proprio sistema di credenze. La parola crisi deriva dal greco krino che significa proprio distinguere, valutare, discernere. In questa accezione la crisi accompagna, positivamente, i processi di trasformazione e cambiamento. In questa fase emergono le idee auto limitanti, i bias negativi e le discriminazioni, consapevoli e inconsapevoli, che tutti noi agiamo quotidianamente. Gli ostacoli che la mente umana incontra nel confrontarsi con il diverso dalla norma prevalente innesca il meccanismo delle discriminazioni. Il mio personale modello ‒ elaborato nei quindici anni di attività professionale come advisor e coach nelle organizzazioni ‒ evidenzia come gli stereotipi, che si ancorano ai valori, influenzano gli atteggiamenti e i comportamenti dando vita alla catena delle discriminazioni. Se parto dall’idea che i miei valori sono gli unici possibili allora non sarò in grado di dialogare con diversità di alcun genere. La psicologia e le neuroscienze hanno molto da offrire per rendere evidenti gli effetti sulla mente umana delle discriminazioni e delle dissonanze cognitive che le organizzazioni non inclusive generano, nonché gli effetti collettivi di sistemi organizzativi legati a paradigmi obsoleti. Le organizzazioni pagano la miope gestione delle diversità in termini di fuga delle persone di talento, di mancata attrazione, di turn over elevato, di malattie croniche, di assenteismo, di mancanza di innovazione e di disimpegno. A mio avviso, la psicologia può aiutare sia la quantificazione e qualificazione del danno sia la prevenzione dallo stesso, nonché la facilitazione verso l’advocacy di cui ho parlato precedentemente.
Molti colleghi e colleghe orientano questo processo verso i soli fattori di rischio psicosociale ignorando un variopinto scenario di opportunità di contribuzione che sono già nell’agenda di altre discipline. Questo può essere un limite che farà perdere, purtroppo, alla psicologia un’occasione di distintività, se non si amplia l’orizzonte di analisi e intervento.
Parlaci della tua esperienza in accademia relativa al corso di perfezionamento sulla Diversity che stai coordinando?
La volontà di unire l’accademia ai contesti organizzativi per l’inclusione è una sfida, ma anche un’opportunità per creare una sinergia positiva nella comune intenzione di promuovere una maggiore giustizia sociale. In questo scenario si colloca il corso in Disability e Diversity Management dell’Università Europea di Roma, iniziato nel 2019, e attualmente alla sua quinta edizione. È un corso post-lauream di perfezionamento che nasce dall’intenzione di preparare in maniera specialistica persone già esperte sul tema con una visione sistemica e organizzativa. Difatti il corso prepara non solo sugli aspetti normativi, ma anche sugli ambiti e le competenze specifiche per un management di Diversità e Disability, in ottica di intersezione.
La determinazione nel tempo di mantenere un assetto formativo di corso di perfezionamento più che di master muove dall’idea di facilitare la conciliazione vita-lavoro delle persone partecipanti e di favorire le iscrizioni di persone con disabilità, ancora troppo discriminate dai percorsi formativi.
Il corso è intensivo e ha negli anni permesso alle persone in aula, dal vivo oppure on line, di potersi confrontare con testimonial di eccezione dei diversi mondi organizzativi ‒ Pubblica Amministrazione, For Profit e No profit. Coordinare e insegnare è una esperienza di privilegio per la ricchezza umana e professionale che di anno in anno ho potuto conoscere e con cui ho interagito. Ad oggi abbiamo più di 60 persone diplomate come disability e diversity manager in tutto il territorio nazionale, che hanno fatto avanzamenti di carriera nelle proprie organizzazioni o hanno trovato occupazione in contesti sfidanti.
Partendo dalla definizione di disabilità dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, «qualsiasi restrizione o carenza (conseguente a una menomazione) della capacità di svolgere un’attività nel modo e nei limiti ritenuti normali per un essere umano», possiamo definire come disabilità «qualsiasi tipo di carenza, di perdita o di variazione inattesa a livello psicologico, fisiologico o anatomico» (2011). Questo presupposto ha capovolto il paradigma di analisi e ha portato, a ragione, a una responsabilizzazione dei sistemi organizzati verso tutte le forme di discriminazioni in termini di disabilità e accessibilità. L’evoluzione verso un modello bio-psico-sociale facilita quelle pratiche di inclusione in ottica proattiva e di prevenzione, in cui l’integrazione di ambiti disciplinari differenti accelera i cambiamenti. Il network degli alunni si amplia ogni anno e ascolto da essi storie di successo nelle pratiche di inclusione proprio grazie a questa visione comune. Abbiamo ricevuto un premio lo scorso anno al Disability Matters Europe Conference & Awards, per il valore della ricerca e delle pratiche nelle politiche di inclusione e delle pratiche per il disability management. Occorre fare ancora molto, ma la strada è aperta a ricerche molto innovative con la collaborazione di aziende illuminate.
Cosa pensi della Certificazione di genere che si sta diffondendo molto tra le aziende: aspetti positivi e negativi?
Il Sistema di certificazione della parità di genere UNI Pdr125:2022 è una prassi che facilita lo sviluppo della gender equality nelle organizzazioni pubbliche e private. Essa rientra nella Missione 5 “Inclusione e Coesione”, Componente 1 “Politiche attive del lavoro e sostegno all’occupazione” del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e mira a promuovere una maggiore inclusione delle donne nel mercato del lavoro. Il PNRR e la disciplina della legge n. 162 del 2021 (legge Gribaudo) e della legge n. 234 del 2021 (legge Bilancio 2022), ha inoltre l’obiettivo di assicurare una maggiore qualità del lavoro femminile, promuovendo la trasparenza sui processi lavorativi nelle imprese, riducendo il “gap retributivo tra generi”, aumentando le opportunità di crescita in azienda e tutelando la maternità/paternità. Queste notizie essenziali del Ministero Pari Opportunità dallo scorso marzo 2022 hanno dato seguito a una serie di passi, a volte discussi e disapprovati, dai vari stakeholder del sistema che ruota intorno a questo tema. Dallo scorso marzo 2022, tra i first movers in quest’ottica, ho potuto partecipare al disegno di schemi tecnici di traduzione delle politiche di genere, e in seguito verificare e accompagnare diverse aziende nel percorso di socializzazione prima e di ottenimento poi con la prassi della certificazione stessa. Il punto di vista che promuovo è quello strategico di chi si approccia alla certificazione come una leva trasformativa più che come la meta ultima. La prassi è rivolta ad entrambi i generi binari e, nelle sei dimensioni caratterizzanti, rivolge il proprio focus alle variabili stereotipali e discriminanti che agiscono nella gestione dell’organizzazioni. Questo aspetto non è banale e racchiude le potenzialità per cambiamenti culturali, così tristemente comuni e diffusi, in Italia. Analizzare e valorizzare il percorso intrapreso dall’azienda nell’adozione di politiche e strategie di eguaglianza di genere al fine di favorire la diffusione di una cultura dell’inclusività, sono solo alcuni dei principali obiettivi del percorso sulla parità di genere. Un’ulteriore valorizzazione della prassi è una attenta presa in carico dei processi di welfare e di conciliazione vita-lavoro, non più come fanalino di coda oppure orpello di un sistema di gestione delle persone, ma come driver strategico con impatti positivi sulla collettività, sull’appartenenza e l’impegno organizzativo e sul benessere individuale e organizzativo. Al contempo le ombre dietro alla certificazione non sono poche, ravvisabili in modo immediato nella banalizzazione della logica dell’autocertificazione, che per fortuna è stata arginata immediatamente, sino al rischio della negazione, meccanismo primitivo di difesa, che vede in questa prassi un tentativo di rendere elitario questo tema o addirittura superato. Un ulteriore rischio è lo sciacallaggio di società ed esperti improvvisati e qualunquisti, che attratti dalla richiesta del mercato possono attuare brutture di processo, errori metodologici a danno delle organizzazioni richiedenti. La solida posizione di gruppi di professionisti e professioniste dell’ambito dell’eguaglianza di genere è stata un baluardo positivo a protezione di errori e distorsioni semplicistiche.
Salute mentale, benessere organizzativo e sviluppo del personale: questi i tre ambiti di cui ti occupi maggiormente nell’ambito della DE&I. Come investire sulle relazioni al lavoro e in famiglia per riuscire a non perdere di vista questi tre aspetti?
Viviamo in un periodo in cui la realizzazione di ogni campo della propria esistenza può essere o deve declinarsi con pienezza e qualità. Le persone si adoperano ogni giorno per cercare di assicurarsi lo sviluppo nei diversi ambiti della vita. Le continue richieste performative in ambito privato e professionale rischiano di schiacciare le persone, orientandole in stili di vita omologanti e depersonalizzanti. A livello sistemico il cambio di paradigma, che orienta le organizzazioni nell’acquisire una visione integrata del processo economico e del suo impatto nella capacità di redistribuzione, rappresenta la nuova gestione della complessità che nell’intersezione di variabili e attitudini può trovare una più immediata attuazione.
Nel mondo del lavoro negli ultimi anni si è assistito un progressivo aumento delle pratiche di Diversity Management, che si ispirano alla visione aristotelica che qui vi propongo.
Mallgrave (2015) scrive «Siamo esseri incarnati (“embodied beings”), in cui menti, corpi, ambiente e cultura sono connessi tra loro a livelli diversi»[1]. Si ritorna, così, all’idea aristotelica prima e fenomenologica poi, che la mente deve essere compresa e analizzata nel contesto delle sue relazioni sensomotorie col mondo circostante. Sviluppare la capacità di gestire le diversità e assicurare convivenze positive e autentiche è possibile proprio grazie allo sviluppo di una cultura integrante e inclusiva e a pratiche che sviluppano germogli di equità. I modi per farlo corrispondono a quella pratica che fa di un’esperienza la possibilità di ancorare il sapere alla realtà.
Le organizzazioni, come le menti umane, tendono a uniformarsi e appiattirsi, scegliendo ad esempio per anni gli stessi coaches e consulenti (per sesso, seniority, conformità alla cultura organizzativa, età, abilità motoria, etc.) perdendo in questo modo la possibilità di promuovere un cambiamento positivo e occasioni evolutive davvero dirompenti. Nelle attività di coaching inclusivo, di advisorship o di psicoterapia l’esercizio più complesso è la capacità di vedere, riconoscere e valorizzare le diversità per attuarne l’integrazione, eliminando le negazioni, le dicotomie, le polarizzazioni che provocano una depauperante perdita di senso. La capacità di integrare per far co-esistere e co-costruire nuove narrazioni personali o lavorative richiede passaggi evolutivi e fiducia nel processo, con un chiaro e protettivo senso del confine. Sposare questa scelta, tenendo insieme la passione accademia, la traduzione pratica nel campo per assicurare salute e benessere delle persone e delle organizzazioni, è la mia scelta ogni giorno; l’esercizio quotidiano per promuovere l’okness e la fioritura nel continuum di valore di ogni identità in quanto configurazione di benessere soggettivo e psico-sociale.
Ti è capitato di incontrare persone che hanno cambiato lavoro per problemi di conciliazione legata anche alla DE&I? Ti va di raccontarci qualche esperienza?
In tempi recenti nell’advisorship alle aziende o nelle stanze dei colloqui individuali di diversity coaching mi è sembrato di cogliere un nuovo orientamento al caos, normalizzato nelle narrazioni come controllo positivo.
In questo ravvedo un pericolo per le persone che cercano tenere insieme i vari aspetti della propria vita e conciliare. Ho visto DE&I manager lasciare il proprio lavoro a causa di mancanza di risorse o per riduzione delle opportunità di agire sui processi aziendali, come le selezioni. Questo calo delle assunzioni diversificate non è sorprendente, dato l’impatto sproporzionato dei licenziamenti sui professionisti DE&I. I tassi di abbandono per i ruoli DE&I hanno superato quelli dei ruoli non DE&I in più di 600 aziende statunitensi che hanno licenziato lavoratori dalla fine del 2020 e sono aumentati rapidamente negli ultimi 6 mesi.
Un’altra osservazione è nel rientro dallo smart working per molte aziende, a due-tre o cinque giorni a settimana, con un capovolgimento organizzativo per molti ruoli e impatti sulle motivazioni al lavoro. La generazione Z valuta le proposte professionali sulla base della qualità di conciliazione vita-lavoro, in cui lo smart working è una delle variabili cruciali nel processo di decisione.
A tuo avviso a che punto si trova l’Italia rispetto ai temi della DEI e che prospettive vedi all’orizzonte per il prossimo futuro?
La prospettiva futura ci porterà sempre di più verso la DE&I americana che a differenza di quella europea guarda alla gestione della diversità strettamente connessa con i temi dell’appartenenza, dell’impegno, dell’ingaggio e del benessere.
Il costante innalzamento dell’attenzione alla gestione delle diversità richiede una preparazione del management e modelli di leadership evoluti, in un movimento circolare bottom up e top down, che tenga conto delle ricerche e pratiche di psicologia del lavoro.
Il potenziale di inclusione cresce al crescere di ambienti che promuovono la diversità, che favoriscono le contaminazioni positive e che valorizzano la reciprocità. L’inclusione possibile nel mondo del futuro è una sfida a conciliare le necessità di conservazione della dominanza con il riconoscimento del valore della diversità. L’intersezionalità, ad esempio, afferma che le concettualizzazioni classiche dell’oppressione nella società ‒ come il razzismo, il sessismo, l’abilismo, lo specismo, l’omofobia, la transfobia, la xenofobia e tutti i pregiudizi basati sull’intolleranza ‒ non agiscono in modo indipendente, bensì che queste forme di esclusione sono interconnesse e creano un sistema di oppressione che rispecchia l’intersezione di molteplici forme di discriminazione. Nel corso del tempo si è passati dalle logiche sistemiche di esclusione e segregazione, sino a quelle di integrazione. L’inclusione vera e positiva è quella che ti assicura una convivenza autentica, il riconoscimento di pari poteri e la voglia di un’interdipendenza generativa.
Dal punto di vista linguistico sembra evidente che il termine diversità richiami il tema delle differenze, che rispetto ai corrispettivi inglesi “diverse” e “diversity” sono maggiormente assonanti con devianza, esclusione, marginalità, quasi ad evocare un retropensiero di stigma, il contrario delle policy a tutela della diversità. Si sente facilmente parlare di “differenza” e “molteplicità” proprio per sottolineare la mission delle azioni di chi si occupa di diversità a tutelare i diritti, a promuovere l’inclusione di chi si discosta dagli standard. Personalmente ritengo che le caratteristiche di diversità possano essere assimilate al concetto di “unicità” dell’identità persona, con il corredo di diritti e caratteristiche che ne derivano. Convengo con il collega Basaglia nell’idea che «la diversità della forza lavoro non riguarda le differenze antropologiche tra le persone che le “rendono speciali”, la diversità riguarda l’appartenenza a gruppi e categorie che sono visibilmente e invisibilmente diversi da tutto ciò che è considerato “mainstream” nella società»2. La piena realizzazione delle persone potrà accadere solo se le organizzazioni sapranno cogliere il potere generativo dell’accoglienza, poiché le persone vogliono contribuire e sentirsi parte di un progetto condiviso, e sentirsi accettate e al sicuro è il primo passo per farlo.
Note
[1] H. Mallgrave, L’empatia degli spazi, Cortina Editore, Milano 2015.
[2] S. Basaglia et al., L’organizzazione inclusiva. Pari opportunità e diversity management, Egea, Milano 2022.