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Il coraggio civile in azienda

Intervista a Shata Diallo a cura di Sonia Vazzano

DE&I in azienda. Oggi sembra sempre di più una moda: in che modo è possibile, secondo te, contrastare questa deriva?

L’inclusione, soprattutto in Italia, è diventato un tema di grande rilevanza negli ultimi anni, spinto da cambiamenti e trasformazioni culturali, anche provenienti da Oltreoceano. Ci sono molte ragioni che guidano questa attenzione: sicuramente il sistema di interessi, compresi i meccanismi di rendicontazione finanziaria delle aziende quotate in borsa (ESG). Personalmente, non vedo questo fenomeno come necessariamente negativo, perché porta con sé l’opportunità di stimolare le organizzazioni a occuparsi di queste tematiche in modo serio. Possiamo considerarlo come una moda, ma anche come il segnale di una spinta positiva, che invita le aziende a intraprendere azioni concrete. Ciò che fa davvero la differenza non è tanto la chiave che attiva l’interesse delle aziende, ma il modo in cui la diversità, l’equità e l’inclusione vengono effettivamente agite all’interno delle organizzazioni. Quello che fa la differenza sono gli obiettivi che vengono definiti e la spinta verso il cambiamento culturale.

Tra le altre cose, è molto evidente quando l’impegno aziendale verso la DE&I è autentico oppure è semplicemente finalizzato all’immagine. Le nuove generazioni sono particolarmente attente alla coerenza tra comunicazione esterna e serietà dell’azienda, per cui quelle organizzazioni che non recepiscono in modo serio il mandato vengono solitamente smascherate in poco tempo.

Che cosa pensi della Certificazione sulla parità di genere disponibile al momento per le aziende?

Personalmente, ritengo che la certificazione per la parità di genere rappresenti un’importante opportunità, così come lo sono le quote di genere. Il World Economic Forum identifica tre imperativi quando si parla di inclusione: l’imperativo morale, l’imperativo legale e l’imperativo economico. L’imperativo legale riguarda le normative che guidano le aziende a occuparsi seriamente di queste tematiche, stabilendo linee guida e obblighi. La certificazione per la parità di genere potrebbe sembrare una moda, una sorta di sigillo che le organizzazioni ottengono per dimostrare la loro inclusività.

Tuttavia, la certificazione comporta indicatori rigorosi e richiede alle organizzazioni di rispettare degli standard attraverso monitoraggi a lungo termine. Un altro punto di valore è che la certificazione non riguarda solo il genere in sé, ma mappa anche una serie di indicatori rilevanti per la trasformazione inclusiva dell’organizzazione e della sua cultura. Penso che la certificazione stia contribuendo in modo importante a dare una nuova spinta al cambiamento, basata su dati oggettivi, numeri e misurazioni.

Sappiamo che in Mida avete creato la metodologia H.E.R.O. Ci spieghi meglio in cosa consiste?

H.E.R.O. è un modello che abbiamo sviluppato negli anni in Mida. Il modello si basa sulla metodologia del coraggio civile, che mira a fornire strumenti di cittadinanza per agire di fronte a micro-iniquità e micro-aggressioni, ovvero quei piccoli episodi con cui tutti noi siamo abituati a confrontarci e sperimentare nella vita di tutti i giorni. Abbiamo assimilato la metodologia del coraggio civile e l’abbiamo adattata al contesto aziendale. Da qui è nato il modello.

Ma di cosa si tratta nello specifico? Tutti noi agiamo e subiamo micro-aggressioni quotidiane. Non è qualcosa che accade una tantum, ma è qualcosa che sperimentiamo quotidianamente. Spesso entriamo in un meccanismo o passivo o aggressivo e facciamo fatica a capire come intervenire efficacemente. Ed è proprio qui che entra in gioco il modello H.E.R.O. È un modello d’azione, ma soprattutto di empowerment. Parte dal presupposto per cui le persone coraggiose non sono solo coloro che compiono grandi azioni, in grado di cambiare il corso della storia e mettendosi in pericolo. La persona coraggiosa è colui o colei che è in grado di fare la differenza nella propria vita quotidiana, attraverso una piccola azione e chiedendo agli altri di fare lo stesso.

Qual è il ruolo che hanno le relazioni in questa metodologia?

Le relazioni giocano un ruolo fondamentale. È uno dei principi chiave del modello H.E.R.O.: la persona coraggiosa non è solo capace di intervenire autonomamente, ma è soprattutto in grado di chiedere aiuto. Nella fase di azione e intervento, l’H.E.R.O. utilizza tre poteri: il potere di uno, intervengo in autonomia; il potere di due, intervengo insieme a qualcuno, a un alleato o un’alleata che possa supportarmi; il potere di chiedere, scegliendo di non intervenire personalmente, ma chiedendo a qualcun altro di intervenire al proprio posto. Questi tre poteri hanno lo stesso valore e importanza, non ce n’è uno più significativo o funzionale degli altri. Qui risiede il grande valore dell’alleanza: affrontare le micro-iniquità e le micro-aggressioni può richiedere risorse che a volte non sono disponibili individualmente. Anche perché, come esseri umani, potremmo non sentirci in grado di intervenire autonomamente rispetto a una relazione o una situazione di micro-iniquità o micro-aggressione che stiamo osservando.

Hai mai misurato gli impatti di H.E.R.O.? Che cosa puoi dirci a riguardo?

Nel corso dei nostri progetti abbiamo sempre cercato di valutare gli impatti che il percorso ha sulle persone coinvolte. Utilizziamo una scala likert e chiediamo alle persone di valutare quanto si sentono eroi all’inizio del percorso e ripetiamo questa valutazione più volte durante e dopo il percorso. Ciò che emerge è che se le persone che partecipano al percorso tendono a sentirsi molto meno eroiche all’inizio, alla fine lo sentono molto di più. Questo dimostra un notevole impatto in termini di potenziamento personale ed empowerment.

Raccontaci un case history di successo di un’azienda che hai accompagnato con questa metodologia?

Mi viene in mente un caso di successo che abbiamo affrontato con un gruppo di ambassador DE&I all’interno di un’azienda. Si tratta di un gruppo multi-utility multinazionale, di branch italiana. Al percorso hanno partecipato 40 persone (con un equilibrio di genere, età, seniority aziendale, appartenenza alle società del gruppo).

Abbiamo condotto un lavoro approfondito con loro, fornendo strumenti e conoscenze per comprendere meglio il contesto e diventare veri promotori dell’inclusione. Il nostro approccio consiste nell’esaminare casi concreti di micro aggressioni che sono state subite, osservate o compiute dalle persone coinvolte. In gruppo, analizziamo queste situazioni attraverso la lente del coraggio civile, chiedendoci come abbiano reagito e cosa avrebbero potuto fare diversamente. Da qui, emergono casi di coraggio civile che vengono poi raccolti in una guida interna all’azienda, una “Guida al Coraggio Civile”. Abbiamo anche coinvolto gli ambassador nel processo decisionale, chiedendo loro come avremmo potuto valorizzare al meglio questa guida e diffondere il modello in azienda. Il punto di valore della “Guida al Coraggio Civile” è che diventa uno strumento concreto a disposizione delle persone a partire da casi pratici e quotidiani. Anche per gli HR diventa un’opportunità preziosa per acquisire una serie di casistiche su cui fare ulteriori riflessioni, visto che le micro aggressioni sono meno intercettabili in azienda.

Da qui, abbiamo avviato percorsi di formazione sul coraggio civile, campagne di comunicazione sull’argomento e simulazioni virtuali. Le simulazioni consentono alle persone di sperimentare casi concreti davanti al proprio pc, prendere decisioni, comprendere gli impatti delle azioni e rivedere i propri comportamenti, in un ambiente sicuro.

Secondo te, qual è il legame attuale, o quale potrebbe essere in futuro, tra DE&I e conciliazione famiglia-lavoro?

Attualmente c’è un forte legame tra diversità, equità e inclusione e conciliazione famiglia-lavoro, e credo che questo legame diventerà ancora più significativo in futuro. Spesso si associa la parità di genere esclusivamente alle donne, ma in realtà significa parità tra i generi. Già parlare di parità tra i generi, considerandone solo due, è limitante. C’è spazio per ulteriori passi in avanti anche in questo senso. È importante oggi andare oltre il concetto di empowerment femminile e il pensiero per cui l’obiettivo è capire come possiamo supportare le mamme nel raggiungere maggiore equilibrio e conciliazione. In questo modo rinforziamo l’idea per cui sono le donne a doversi occupare del lavoro di cura non retribuito. Un punto di svolta sarà considerare il coinvolgimento di tutti i generi, della genitorialità nel suo insieme, di tutte le identità di genere e delle diverse tipologie di famiglie.

Oggi si parla tanto di parental skills. Esistono, per usare un eufemismo, anche delle DE&I skills su cui è possibile lavorare in ottica educativa, formativa e di sviluppo personale?

Oltre al coraggio civile e alla capacità di intervenire a fronte di iniquità e micro-agressioni, in Mida utilizziamo un altro modello, che si chiama “Bridge Building”. Il bridge building è quella che consideriamo la competenza chiave dell’inclusione, ovvero la capacità di costruire ponti nella relazione con gli altri. Questa competenza, come un ponte, si basa su due pilastri e poi sul tragitto tra un pilastro e l’altro.

Il primo pilastro è la conoscenza di sé. Implica l’essere consapevoli dei propri bias, attitudini e del modo in cui stiamo in relazione con gli altri. Il secondo pilastro, la conoscenza dell’altro, implica l’essere in grado di uscire dalla propria mappa mentale e non universalizzare il proprio punto di vista, per saper cogliere le prospettive degli altri e mostrare empatia. La costruzione di ponti, ovvero il passaggio da il primo al secondo pilastro, richiede anche competenze di azione e intervento nella quotidianità per favorire l’inclusione.

Nel percorso per diventare “bridge builder”, ci sono molte altre competenze da allenare.

A partire dalle ricerche che abbiamo svolto in questi anni in collaborazione con l’Università Cattolica, emerge che le culture organizzative che valorizzano le differenze e si orientano all’inclusione sono quelle che favoriscono un ambiente in cui le persone si sentono psicologicamente sicure, sentono di poter esprimere liberamente le loro idee, possono innovare e stare nel conflitto generativo. Per far sì che questo avvenga sono necessarie delle pre-condizioni. Le competenze DE&I non sono solo individuali, ma sono anche influenzate dal contesto organizzativo e dalla sua predisposizione ad accogliere e incoraggiare determinati comportamenti e atteggiamenti. È quando questi due attori sono allineati che si abilita davvero l’inclusione.

Autore

  • Psicologa iscritta all’Albo, Principal e Inclusion Lead in MIDA, si occupa di Diversity, Equity & Inclusion. Dal 2022 sta conseguendo un Executive PhD presso l’Università Cattolica su processi organizzativi e inclusione in azienda. Nel 2015 ha fondato YOBBO – Youth Beyond Borders, una associazione culturale di cui è Presidente e che si occupa di progettare e facilitare scambi giovanili e corsi di formazione per europei orientati alla promozione dell’imprenditorialità, dell’inclusione e della cittadinanza attiva. Appassionata di tutto ciò che riguarda la sostenibilità sociale e l’inclusione, mette a disposizione le sue esperienze e conoscenze attraverso i progetti in azienda, lezioni in Università e articoli su editoriali.

  • Laureata in Filosofia, ha conseguito il titolo di Dottore di Ricerca in Teoria e storia della storiografia filosofica. Dopo un master in Editoria e comunicazione, si è specializzata alla Sda Bocconi in un Percorso manager per il no profit. Per la Fondazione Marco Vigorelli coordina le attività di ricerca e formazione. Professional Certified Coach (PCC-ICF International), si occupa di attività di Corporate, Business e Life coaching. Tra le sue certificazioni, quelle di Assessor, Practitioner ed Educator di Intelligenza emotiva (Six Seconds).