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Non ci sono più scuse! L’adozione (o non adozione) di politiche di conciliazione e inclusione è il risultato di una scelta strategica

1. Introduzione

La scelta di focalizzarsi sul benessere lavorativo attraverso politiche volte a favorire la conciliazione dei tempi di vita con i tempi di lavoro (come ad esempio strumenti di lavoro flessibile, il lavoro da remoto, i contributi aggiuntivi per i congedi di paternità e di maternità oltre a quanto stabilito per legge) o i progetti di inclusione (come ad esempio diversity training, identificazione di KPI nei processi di reclutamento e selezione, promozione di uno stile di leadership inclusivo), non rappresenta più un’opzione da poter cogliere o meno per le organizzazioni odierne. L’enfasi mediatica, accademica e consulenziale ha reso, infatti, queste iniziative talmente mainstream che un’organizzazione pubblica o privata che non adotti queste tipologie di misure sta di per sé dando conto del risultato di una scelta strategica relativa alla modalità di intendere la gestione e il valore del capitale umano, con le conseguenze che questo può comportare in termini di attrattività, ma anche soddisfazione lavorativa e commitment. La domanda da porsi, infatti, non è quali siano i fattori organizzativi che facilitano oppure ostacolano l’implementazione di strumenti di conciliazione e inclusione. Piuttosto, quale sia la coerenza tra i progetti avviati (o non avviati) e le specificità e gli obiettivi strategici che l’organizzazione vuole raggiungere, attraverso le iniziative di conciliazione e di promozione della diversità. Quello che si vuole proporre, infatti, è una visione strategica delle misure di conciliazione e inclusione che le elevi da moda manageriale a fonte di vantaggio competitivo e che costruisca il terreno per una gestione evidence-based degli strumenti di conciliazione e inclusione anche considerando i recenti sviluppi del digital workplace.

2. Conciliazione e inclusione in un mondo del lavoro digitalmente aumentato

I temi della conciliazione (Naldini e Santero, 2019) e dell’inclusione (Bombelli e Lazazzara, 2014) hanno subito uno sviluppo significativo negli ultimi decenni in Italia, e devono ora affrontare nuovi bisogni e problemi legati all’emergere di nuove modalità di lavoro ibride (Georgiadou e Antonacopoulou, 2021) e alle nuove forme di discriminazione digitale legate ai pregiudizi nei sistemi di decisione basati sull’intelligenza artificiale che possono portare a decisioni non eque (Ferrer et al., 2021). Queste recenti sfide non solo stanno facendo emergere nuovi temi, ma anche la necessità di progettare nuove soluzioni di conciliazione e inclusione. Quando si parla di gestione delle persone e nuove tecnologie, infatti, l’enfasi è molto spesso sui problemi, come ad esempio i bias presenti nei dataset che portano a decisioni errate, gli effetti in termini di tecnostress dell’utilizzo delle tecnologie o la mancanza di competenze di digital leadership. Molta meno enfasi, invece, viene posta sulle possibili strategie di mitigazione, come ad esempio inserire dei correttivi che tengano conto delle distorsioni presenti nei dataset su cui vengono applicati algoritmi di people analytics, creare team di sviluppo delle soluzioni digitali per la gestione delle risorse umane miste per competenze e background o accompagnare con strategie di change management l’inserimento di nuovi strumenti digitali. Inoltre, conciliazione e inclusione hanno lo stesso significato sia che si tratti di modelli organizzativi tradizionali che di modelli organizzativi digitalmente aumentati? Probabilmente, lo schema mentale condiviso dai manager e dai lavoratori rispetto a che cosa vogliano dire conciliazione e inclusione in uno specifico contesto organizzativo cambia nel momento in cui vengono inserire delle tecnologie avanzate, portando dunque ad un loro ripensamento prima e dopo l’introduzione delle tecnologie digitali.

La tecnologia, infatti, non è neutra, ma passa attraverso processi di interpretazione e influenza da parte di chi la progetta e la utilizza che possono modificare la natura e la finalità stessa della sua adozione. A seconda, infatti, di come le forme di lavoro ibride vengono progettate e comunicate, lo stesso strumento può essere considerato come una leva di conciliazione o, al contrario, come ulteriore problema nella gestione del work-life balance in quanto rende più porosi i confini tra vita privata e vita lavorativa. Allo stesso modo, l’introduzione di algoritmi nati per rendere la gestione delle risorse umane più inclusiva può far percepire il processo decisionale meno contestualizzato e più riduzionista e, pertanto, più discriminatorio.

A fronte di questi cambiamenti che rendono certamente più complesso muoversi nel campo della conciliazione e inclusione, il punto di partenza resta sempre una ricerca di senso sul “perché” sia necessario farlo e quali sono le specificità organizzative da prendere in considerazione nella progettazione di iniziative personalizzate e non generaliste.

3. Conciliazione e inclusione possono essere una leva strategica?

Sebbene i temi della conciliazione e dell’inclusione siano da anni nelle priorità dichiarate di manager e amministratori delegati, le modalità attraverso cui queste dichiarazioni si trasformano (o non si trasformano) in azioni sono da ricercare nell’allineamento tra gli obiettivi specifici relativi a queste azioni, la strategia di gestione delle risorse umane e gli obiettivi strategici a cui un’organizzazione può ambire grazie ad una forza lavoro diversificata (Buonocore e Lazazzara, 2020).

Perché e come sviluppare iniziative di conciliazione e inclusione dipende, infatti, da quanto il benessere dei lavoratori e la diversità siano considerate effettivamente un valore per l’organizzazione e quali obiettivi si vogliano raggiungere. Inoltre, come già evidenziato, non si può non tenere conto del fatto che il significato di conciliazione e inclusione cambia quando la tecnologia viene adottata per implementare obiettivi di gestione delle risorse umane.

Secondo il filone della gestione strategica delle risorse umane, infatti, il capitale umano è una leva strategica e le organizzazioni possono aumentare il loro vantaggio competitivo se sono più efficaci dei loro concorrenti nello sviluppo e implementazione di sistemi di gestione e valorizzazione delle conoscenze e abilità possedute e delle attività svolte dai propri collaboratori (Becker e Huselid, 2006). Questo vuol dire che, per essere strategica, la conciliazione e l’inclusione devono essere intese come una leva che permetta di attrarre, sviluppare e trattenere risorse umane che possiedono conoscenze, abilità e competenze critiche per l’organizzazione. Il framework sviluppato da Kossek e Pichler (2006), ad esempio, identifica tre macro obiettivi per la gestione della diversità che includono la selezione per l’inclusione, la riduzione della discriminazione sul luogo di lavoro e il miglioramento delle performance finanziarie. Secondo questo framework, dunque, le modalità attraverso le quali un’organizzazione può decidere ad esempio di investire sulla diversità culturale dipendono dal fatto che gli obiettivi organizzativi siano legati ad attrarre o trattenere specifici gruppi culturali secondo una strategia di innovazione che vuole promuovere la creatività attraverso una composizione multietnica dei team. Oppure, l’obiettivo potrebbe essere quello di rispecchiare internamente la diversità della propria base clienti puntando quindi ad una strategia di aumento della performance economica che si focalizza su nuovi target e nuove culture. In questo senso, la misura in cui l’organizzazione adotterà delle iniziative volte a favorire l’inclusione di alcune minoranze etniche dipenderà dalla strategia aziendale, dalle richieste dell’ambiente e da ciò che si aspetta dai lavoratori.

Pertanto, non è possibile adottare un approccio universalista che identifichi un unico modello di progettazione della conciliazione e inclusione. Piuttosto, è necessario esplorare le dinamiche interne dell’organizzazione e dei modelli di gestione del capitale umano adottati. Ma, per farlo, è necessario sviluppare una cultura della misurabilità che parta dall’analisi dei fabbisogni per elaborare degli obiettivi strategici coerenti e misurabili che rispondono ad un effettivo fabbisogno organizzativo.

4. «Solo ciò che è misurabile è migliorabile» (Thomas Samuel Kuhn, 1922-1996): sviluppare una cultura della misurabilità

Il punto di partenza nella progettazione di iniziative di conciliazione e inclusione è la conoscenza approfondita delle caratteristiche e della composizione della forza lavoro (Buonocore e Lazazzara, 2020). Per identificare dove andare in termini di obiettivi strategici, infatti, è necessario sapere da dove partiamo sia per effettuare un’analisi dei fabbisogni sia per definire una baseline con cui confrontare gli sviluppi futuri. Questo passaggio di analisi può avvenire attraverso varie modalità. Se ci focalizziamo sull’approccio di people analytics, che si basa sull’analisi di dati quantitativi e l’adozione di modelli statistici per identificare le caratteristiche della forza lavoro con riferimento ad aree critiche o trend cui si possono associare meccanismi di discriminazione o specifici bisogni, è possibile differenziare tre opzioni. La prima si basa sull’adozione di dashboard che producono una fotografia (descrizione) della composizione demografica dell’organizzazione. Ciò equivale a dire «il 20 % dei nostri senior manager è donna» oppure «il 98% delle posizioni part-time nella nostra organizzazione è ricoperta da donne». Si tratta per lo più di report descrittivi prodotti a intervalli trimestrali o mensili che non forniscono informazioni di contesto e molto spesso diventano un “esercizio” legato ad aver assolto una verifica che “va fatta”. Un secondo (e più evoluto approccio) e invece quello cosiddetto “predittivo”, attraverso il quale è possibile creare dei modelli basati sulle caratteristiche della forza lavoro attuale e del passato che possono generare informazioni utili rispetto ai trend futuri e influenzare così le decisioni strategiche e di business. Si tratta sostanzialmente non soltanto di rispondere alla domanda «quante donne occupano oggi un ruolo di senior manager nella nostra organizzazione?». Ma, piuttosto, di prevedere «quale sarà la percentuale di donne in ruolo di senior manager tra tre anni stante le attuali politiche di reclutamento o promozione?» oppure «quale sarà la percentuale di donne in ruolo di senior manager tra tre anni introducendo determinati correttivi alle attuali politiche di reclutamento o promozione (ad es. quote, KPI)?». Un terzo approccio riguarda invece l’applicazione di metodologie di tipo prescrittivo, volte cioè ad analizzare dati non strutturati utilizzando ad esempio tecniche di machine learning ed estrarre informazioni importanti che non soltanto individuano dei pattern o delle tendenze nei dati, ma suggeriscono anche delle azioni che potrebbero essere intraprese per correggere il pattern identificato. Ad esempio, informazioni sulle reti (network) presenti all’interno delle organizzazioni e sui pattern comunicativi formali e informali possono essere predittivi della probabilità di un certo gruppo di accedere a talent pool o percorsi di sviluppo e crescita e, di conseguenza, suggerire le azioni da intraprendere per promuovere l’avanzamento dei gruppi sottorappresentati o più isolati all’interno di queste reti.

A questi strumenti dovrebbero affiancarsi anche iniziative di “ascolto” e coinvolgimento della popolazione organizzativa. Ad esempio, è possibile predisporre delle survey rivolte alla popolazione organizzativa al fine di rilevare le loro percezioni su quanto la cultura organizzativa supporti l’inclusione e le pari opportunità (Nishii, 2013). Oppure, in una logica esplorativa o per coinvolgere in profondità alcuni specifici gruppi target sarebbe auspicabile utilizzare strumenti di raccolta dati qualitativi come focus group o interviste. Ad esempio, i focus group potrebbero essere utilizzati per esplorare le percezioni delle dipendenti rientrate dalla maternità, al fine di rilevare le loro opinioni in termini di conciliazione e work-life balance.

Una volta raccolti e analizzati i dati, l’organizzazione potrebbe identificare se ci sono delle categorie sottorappresentate in alcune posizioni, se esistono dei bias nelle pratiche di gestione delle risorse umane, e qual è in generale la percezione di conciliazione o inclusione dei dipendenti. Stabilire delle metriche e monitorare regolarmente i progressi sugli obiettivi di conciliazione e inclusione può aiutare le organizzazioni a valutare l’efficacia delle loro iniziative, ma anche a rendere leader e manager responsabili dei progressi in questi ambiti anche (e soprattutto) incorporando tali obiettivi nel loro sistema di performance management.

5. Conclusioni

Per guidare un cambiamento significativo centrato sulla promozione del benessere e dell’inclusione è necessario che questi due elementi diventino effettivamente degli obiettivi di business, ancor prima che degli elementi della strategia di gestione delle risorse umane. Molto spesso tali iniziative rientrano nella sfera della comunicazione e del marketing, piuttosto che costituire le fondamenta dei sistemi di gestione del capitale umano. La leva comunicativa è certamente importante, ma ancora più importante è la coerenza tra il dichiarato e l’agito e l’allineamento tra le varie pratiche di gestione del personale e la strategia organizzativa più ampia. Questo vuol dire anche toccare dei temi “scomodi” (come ad esempio le politiche di ricompensa) e rivedere gli assunti di base della cultura organizzativa per costruire una architettura che supporti trasversalmente l’investimento su quello che si ritiene generi (o non generi nel caso di non adozione di politiche di conciliazione e inclusione) un valore per l’organizzazione: le proprie persone.

Bibliografia

Becker, B.E., Huselid, M.A.
2006 Strategic human resources management: Where do we go from here?, in «Journal of Management», 32(6), pp. 898-925. https://doi.org/10.1177/0149206306293668.

Bombelli, M.C., Lazazzara, A.
2014 Superare il Diversity Management. Come alcune terapie rischiano di peggiorare le malattie organizzative, in «Sociologia Del Lavoro», 134, pp. 169-188.

Buonocore, F., Lazazzara, A.
2020 L’organizzazione e la gestione della diversità, in F. Buonocore, F. Montanari, & L. Solari (Eds.), Organizzazione aziendale. Comportamenti e decisioni per il management, ISEDI, Torino.

Ferrer, X., Nuenen, T. Van, Such, J.M., Cote, M., Criado, N.
2021 Bias and Discrimination in AI: A Cross-Disciplinary Perspective, in «IEEE Technology and Society Magazine», 40(2), pp. 72-80. https://doi.org/10.1109/MTS.2021.3056293.

Georgiadou, A., Antonacopoulou, E.
2021 Leading Through Social Distancing: The Future of Work, Corporations and Leadership from Home, in «Gender, Work & Organization», 28, pp. 749-767.

Kossek, E.E., Lobel, S.A., Brown, J.
2006 Human resource strategies to manage workforce diversity: Examining ‘the business case’, in «Handbook of Workplace Diversity», October, pp. 53-74. https://doi.org/10.4135/9781848608092.n3.

Naldini, M., Santero, A.
2019 Le politiche di conciliazione famiglia-lavoro e le politiche per l’infanzia: L’Italia nel contesto europeo, in M. Naldini, T. Caponio, & R. Riccucci (Eds.), Famiglie in Emigrazione. Politiche e pratiche di genitorialità, Il Mulino, Bologna, pp. 19-42.

Nishii, L.H.
2013 The benefits of climate for inclusion for gender-diverse groups, in «Academy of Management Journal», 56(6), pp. 1754-1774. https://doi.org/10.5465/amj.2009.0823.

Autore

  • Professoressa associata di Organizzazione Aziendale e Gestione delle Risorse Umane presso l’Università degli Studi di Milano, dove ricopre il ruolo di Presidente del Corso di Laurea in Management delle Organizzazioni e del Lavoro. è membro del Comitato Scientifico per il Faculty Development di Ateneo e faculty member della Milano School of Management. Svolge attività di ricerca, didattica e formazione sui temi di job crafting, digital HRM e diversity management collaborando con aziende private e pubbliche. È autrice di numerosi articoli scientifici pubblicati su importanti riviste internazionali e nazionali ed è membro di numerosi comitati editoriali di riviste scientifiche. È inoltre membro del consiglio direttivo di ASSIOA - Associazione Italiana di Organizzazione Aziendale e ricopre il ruolo di Vice President di ItAIS - the Italian Chapter of the Association for Information Systems.