«Patente, libretto e assicurazione. Concilia?»[1] così recita Gigi Proietti nei panni dell’indimenticabile Mandrake. Nel film, il malcapitato, finito nelle grinfie del vigile truffaldino, concilia, ovvero paga la multa. Conciliare significa comporre pacificamente una lite tra due parti mediante un accordo. Nel contesto manageriale, le pratiche di conciliazione si prefiggono di trovare un accordo tra vita privata e vita lavorativa, tra famiglia e lavoro. Vita, famiglia e lavoro sono però indissolubilmente legati, persino attorcigliati; sarebbe bello poter pensare a un mondo in cui non sia più necessario conciliare le nostre identità naturalmente multiple di lavoratori/trici, madri, padri, figli/e… Ma è “davvero” possibile?
1. Gestire la diversità: a che punto siamo?
L’etichetta “diversità della forza lavoro” è stata coniata negli anni Novanta e viene utilizzata per descrivere le differenze tra le persone nei contesti lavorativi. Le statistiche sul lavoro mostrano lavoratori sempre più eterogenei sia con riferimento a caratteristiche osservabili e innate, come genere ed età sia considerando quelle acquisite e meno osservabili, quali preferenze, valori e esperienze professionali (Roberson 2019).
La letteratura sulla diversità nelle organizzazioni è vastissima e il dibattito è cresciuto negli anni anche (qualche malpensante direbbe “perfino”) nel nostro Paese. Gli studi si sono preoccupati di definire la diversità, indagarne gli effetti per lavoratori e aziende e individuare le modalità migliori per gestirla. Contemporaneamente è cresciuta anche la consapevolezza rispetto alla molteplicità delle fonti di diversità, alla loro profondità (i.e., i valori sono, per esempio, una dimensione più profonda dell’età) e agli effetti della loro intersezione (i.e., una donna diversamente abile è potenzialmente oggetto di maggiori discriminazioni rispetto a una “solo” donna). Un recente studio internazionale ha mappato i contributi scientifici pubblicati sul tema a partire dal 2010: il numero di articoli con focus sulla diversità di genere è raddoppiato in meno di 10 anni (passando da 15.000 a più del doppio) e ‒ fatto ancora più significativo ‒ nello stesso periodo sono anche cresciute le pubblicazioni che trattano disabilità, orientamenti sessuali ed etnia, solo per citarne alcuni (Garg e Sangwan, 2021).
Parallelamente, molte organizzazioni ‒ sicuramente quelle che si dichiarano più attente a dare valore alle persone ‒ hanno investito ingenti risorse nella progettazione e nella implementazione di pratiche per la gestione della diversità (il cosiddetto diversity management). Tali iniziative si prefiggono di prevenire l’esclusione delle minoranze (Nishii et al. 2018) e quelle più consolidate ‒ qualcuno le chiama best practices ‒ sono essenzialmente riconducibili a tre tipologie (Leslie 2019). In primo luogo (anche seguendo un criterio temporale), ci sono le pratiche per contrastare la discriminazione, tese a migliorare esperienze e risultati dei gruppi sottorappresentati garantendo pari opportunità. Tra queste troviamo, per esempio, le iniziative di formazione per contrastare i bias verso le minoranze e i sistemi di valutazione della prestazione basati sul merito. Ci sono poi le pratiche che offrono supporto e opportunità direttamente alle minoranze tra cui, per esempio, i programmi di mentoring mirati, le iniziative di reclutamento specificatamente dedicate ad alcuni sottogruppi di lavoratori o anche le “quote”. Più recentemente sono state introdotte le pratiche finalizzate a diffondere il senso di responsabilità verso obiettivi di diversità a livello organizzativo, per esempio, condividendo obiettivi specifici di diversità nei processi di valutazione e nei sistemi di incentivo manageriale o progettando nuove posizioni organizzative dedicate come il chief diversity officer o il diversity manager.
In sintesi ‒ data la crescente diversità che caratterizza i contesti lavorativi, l’intenso dibattito scientifico e sociale, le tante risorse dedicate e le ormai consolidate pratiche manageriali intorno al tema della diversità ‒ è quasi scontato aspettarsi contesti lavorativi inclusivi, rispettosi e, anzi, in grado non solo di limitarne le storture, ma persino di valorizzarne i possibili benefici come, per esempio, la creatività per le organizzazioni e il benessere per i lavoratori. Purtroppo, però, le evidenze e le esperienze personali raccontano tutt’altro. Oggi, molti contesti lavorativi sono ostili, le persone faticano e sentirsi ingaggiate (e.g., solo il 21% dei lavoratori nel mondo si dichiara engaged nel proprio lavoro e questa percentuale scende al 14% nella sola Europa)[2], le minoranze continuano a essere discriminate (e.g., nel mondo, le donne mediamente guadagnano il 12% in meno dei loro colleghi uomini che occupano le stesse posizioni e negli US questa percentuale sfiora il 20%)[3], aumentano disagio e malessere organizzativo e le persone sempre più lasciano le organizzazioni in cerca di relazioni di lavoro in grado di dare senso a quello che fanno e a quello che sono (e.g., il 41% della forza lavoro globale nel 2022 ha pensato di lasciare il proprio lavoro per sfuggire da situazioni tossiche e la percentuale di coloro che si dimettono è in crescita, la chiamano great resignation)[4].
2. Gestire la diversità: perché non funziona “davvero”?
Il vocabolario Treccani[5] definisce la diversità come «essere diverso, non uguale né simile. In filosofia, il termine indica la negazione dell’identità. La condizione di chi è, o considera sé stesso, o è considerato da altri, diverso». Le difficoltà e le insidie di questo concetto sono già evidenti dalla sua definizione. La diversità si riferisce a qualsiasi differenza tra le persone ed è un attributo personale, spesso utilizzato come base per distinzioni identitarie all’interno dei gruppi sociali omogenei con una finalità ultima di difesa. In accordo alla similarity-attraction theory (Byrne 1971), ciascuno di noi è attratto dai propri simili, con cui si identifica, di cui si può fidare senza troppi rischi e di cui può facilmente interpretare i comportamenti, mentre proviamo naturale diffidenza nei confronti di coloro che hanno atteggiamenti, valori ed esperienze diverse dai nostri. Questo è anche il motivo per il quale, contrariamente ad alcune retoriche, gli effetti della diversità nelle organizzazioni non sono sempre e incontrovertibilmente positivi. Elevati livelli di diversità nelle organizzazioni possono aumentare i conflitti e il turnover, ridurre la coesione e avere effetti negativi sulla performance organizzativa (e.g., Shore et al. 2018).
Non solo la diversità, ma anche il diversity management può produrre conseguenze negative per le organizzazioni (Leslie 2019). Per esempio, iniziative di formazione o statement organizzativi possono rinforzare gli stereotipi negativi sia tra le maggioranze che tra le stesse minoranze, come in una sorta di profezia che si auto-avvera. Può inoltre accadere che i trattamenti preferenziali per sostenere le minoranze nelle loro difficoltà oggettive (e.g., percorsi di formazione dedicati, quote riservate negli avanzamenti di carriera) abbiano effetti negativi sul resto della popolazione aziendale rinforzando l’ostilità verso i diversi e attivando meccanismi anche inconsci di difesa. Infine, ci sono gli effetti cosiddetti di “falso progresso”. Si tratta di quel senso di sicurezza che deriva dall’aver implementato best practices e tenuto sotto controllo obiettivi che sono solo apparentemente risolutivi, ma che creano alibi e giustificazioni. L’aumento, per esempio, della rappresentanza di alcune minoranze poco dice sulla loro effettiva integrazione nei luoghi di lavoro, così come l’erogazione di un corso di formazione sugli stereotipi di genere non ne garantisce la scomparsa. O ancora, l’assenza di momenti di denuncia non significa necessariamente che non si verifichino micro-aggressioni nei luoghi di lavoro, anche non intenzionali, che anzi la letteratura recente riporta come praticamente “date per scontate” dagli stessi destinatari che non si sentono affatto non discriminati, ma piuttosto rassegnati. In sintesi, le pratiche di diversity management possono servire, ma non bastano.
3. Gestire l’inclusione: è “davvero” diverso?
Diversità e inclusione sono spesso considerate interscambiabili. In realtà la differenza di approccio che sottendono è talmente rilevante da configurarsi come il discrimine tra effetti positivi e negativi delle relative pratiche di gestione. La diversità è una caratteristica delle persone, l’inclusione è invece un tratto dell’organizzazione. La diversità può essere difesa attraverso norme, l’inclusione nasce da atti di volontà non obbligati. La diversità genera naturalmente diffidenza e chiusura, l’inclusione risponde al bisogno universale di equità che è in grado di generare motivazione e appartenenza (o, al contrario, demotivazione e insoddisfazione). Il diversity management si concentra sull’evitare l’esclusione, mentre le pratiche di inclusione non solo mirano ad offrire pari opportunità alle minoranze, ma sostengono tutti i lavoratori così che possano essere pienamente coinvolti a tutti i livelli dell’organizzazione e autenticamente loro stessi. «In ambienti inclusivi, le persone di ogni origine, non solo i membri di gruppi identitari storicamente potenti, vengono trattati equamente, valorizzati per ciò che sono e inclusi nelle decisioni fondamentali» (Nishii 2013, 1754). Le organizzazioni inclusive sono quelle in cui la cultura connette ogni lavoratore all’organizzazione e ne incoraggia la collaborazione, sostenendo contemporaneamente sia il senso di appartenenza (i.e., partecipare alle decisioni e alla vita organizzativa) che l’unicità (i.e., difesa delle diversità). Se nessuno dei due attributi è presente, allora avremo organizzazioni che escludono, ma anche la presenza di solo uno dei due tratti non consente di generare contesti inclusivi: l’appartenenza senza unicità rischia di generare omologazione, mentre l’unicità senza appartenenza genera sopportazione.
L’attenzione all’inclusione è più recente rispetto a quella dedicata alla diversità, sia nella ricerca scientifica che nella pratica organizzativa, ma è solo progettando ambienti inclusivi che è possibile “davvero” dare valore alla diversità sia per le organizzazioni che per le persone in una logica di reciproca soddisfazione. La ricerca scientifica dimostra che ambienti inclusivi stimolano i comportamenti cosiddetti extra ruolo (quelli discrezionali che vanno oltre quanto prescritto), il commitment verso l’organizzazione, la soddisfazione lavorativa, il benessere e la motivazione dei lavoratori sin anche la performance organizzativa e la sua sostenibilità nel tempo (Shore et al. 2017).
4. Conciliare? No, comporre i paradossi
Un’organizzazione “davvero” inclusiva non impone compromessi, ma, al contrario, compone paradossi; è una organizzazione in cui la logica binaria “o-o” è sostituita da quella generativa del “sia-sia”. Adottare la prospettiva del paradosso presuppone la consapevolezza che due opzioni in conflitto non richiedano un compromesso (Lewis e Smith 2014), ma che piuttosto possano portare a nuove e originali soluzioni che abilitano prestazioni organizzative più sostenibili (Collings et al. 2020). La vita delle organizzazioni è costellata di paradossi, di situazioni apparentemente in conflitto, che generano smarrimento, confusione, frustrazione e che aspettano di essere ricomposte verso significati altri: stabilità e apprendimento continuo, controllo e flessibilità, performances economiche e sociali, ma anche identità e diversità.
Affinché tutto questo possa “davvero” realizzarsi è fondamentale attivare processi partecipativi attraverso cui persone e organizzazioni possano, insieme, generare e sviluppare significati per innovare nella progettazione e nell’uso delle pratiche. Secondo la teoria della co-creazione, il valore viene creato da qualsiasi stakeholder che utilizza una pratica e che, proprio utilizzandola, la migliora. Non esistono pertanto best practices, ma solo soluzioni più o meno adeguate che vanno costruite, usate, misurate e ricostruite. Il valore delle pratiche di diversity and inclusion management (D&I, o meglio, I&D) è massimizzato attraverso l’uso che ne fanno tre attori fondamentali: gli HR professional, i lavoratori e i capi (Hewett e Shantz 2021).
Innanzitutto, ci sono gli HR professional, che sono i custodi della cultura organizzativa, ovvero della cornice che sostiene i significati, rinforza l’appartenenza, fa sintesi del contributo di tutti e attiva un contesto in cui le persone possono liberamente esprimere se stesse e trarre significato dal proprio lavoro orientando i comportamenti. Non è la conciliazione tra famiglia e lavoro che genera benessere, ma il senso che ciascuno è in grado di attribuire a quanto fa, dentro e fuori dai confini organizzativi, nel lavoro che è vita. Le pratiche HR servono a costruire e rinforzare valori e cultura organizzativa, a rendere sostenibile il lavoro. Ci sono poi i lavoratori, che devono imparare a partecipare attivamente e criticamente ai processi di co-creazione delle pratiche maturando consapevolezza verso le proprie preferenze, sviluppando il proprio sense of entitlement e costruendo nuove competenze in un processo di comunicazione trasparente con l’organizzazione. Infine, ci sono i capi, la cosiddetta linea manageriale, ovvero gli attori che mediano la relazione tra i lavoratori e l’organizzazione e dunque un anello cruciale di trasmissione e rinforzo dei valori, dei comportamenti e del significato della relazione lavorativa. I capi devono saper sviluppare le proprie capacità di sense-making, feedback e ascolto; devono credibilmente dare l’esempio e amplificare le voci.
Concilia? Questa volta no, grazie.
Note
[1] La citazione è tratta dal film Febbre da cavallo, del 1976 diretto da Steno.
[2] State of the Global Workplace: 2022 Report di Gallup. Ci sono molte inchieste che misurano il livello di engagement dei lavoratori. I report usano anche misure diverse, che hanno differenti significati, ma la sintesi è che comunque le percentuali rilevate – sebbene differenti – sono comunque sempre basse.
[3] Dati OECD 2022, https://www.oecd.org/gender/data/gender-wage-gap.htm.
[4] https://www.edsmart.org/the-great-resignation-statistics/.
[5] Vocabolario online, https://www.treccani.it/vocabolario/ricerca/diversita/downloaded 31 maggio 2023.
Bibliografia
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1971 The attraction paradigm, Academic Press, New York.
Collings, D. G., Nyberg, A. J., Wright, P. M., & McMackin, J.
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2016 Members of high-status groups are threatened by pro-diversity organizational messages, in «Journal of Experimental Social Psychology», 62, pp. 58-67.
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2021 Literature review on diversity and inclusion at workplace, 2010-2017, in «Vision», 25(1), pp. 12-22.
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