1. Per una nuova definizione di conciliazione
Con il termine “conciliazione” dei tempi di vita con i tempi di lavoro si intende l’investimento di risorse – spesso individuali – necessario per trovare un equilibrio soddisfacente tra i diversi ambiti della vita di ciascun individuo. Tradizionalmente questi ambiti sono stati separati con nettezza: da un lato l’attività lavorativa, da svolgersi in un contesto connotato come luogo di lavoro e in un tempo chiaramente definito; dall’altro l’attività di cura, un insieme di compiti da svolgersi nello spazio della casa (ma non soltanto in quello) che contemplano l’accudimento dei figli (e di altre persone dipendenti, quali ad esempio i genitori) e della casa stessa e che si ripetono con una cadenza ciclica che raramente prevede interruzioni (difficile andare in vacanza dalla pulizia della casa, la preparazione dei pasti, l’accudimento di una persona dipendente…). L’investimento individuale di risorse ed energie da dedicare alla conciliazione è fortemente condizionato dall’appartenenza di genere: a tutt’oggi in Europa, ma soprattutto in Italia, sono le donne che si fanno maggiormente carico delle attività di cura. Il recente report di Save the Children[1] dall’eloquente titolo Le equilibriste offre numerosi esempi di come le energie necessarie per mantenere questo equilibrio siano talmente ingenti da portare le donne ad abbandonare il lavoro a seguito della maternità oppure a preferire sempre di più una scelta volta a “contenere i danni”, ovvero alla rinuncia alla maternità stessa, con i noti effetti di contrazione delle nascite.
Secondo un rapporto dell’Organizzazione internazionale del lavoro[2] citato da Save the Children, in Italia le donne dedicano 5 ore e 5 minuti al giorno al lavoro non retribuito di assistenza e cura, mentre gli uomini 1 ora e 48 minuti. Il 74% del totale delle ore di lavoro non retribuito di assistenza e cura grava pertanto sulle spalle delle donne.
A ciò si aggiunga che l’investimento individuale è tanto più consistente quanto più il contesto in cui la persona vive è povero di infrastrutture sociali e servizi che possano agevolare la gestione dei carichi di cura. Con il termine “infrastrutture sociali” si fa riferimento non soltanto ai tradizionali servizi di accudimento e cura di bambine, bambini e persone anziane nonché alla possibilità di accedere a servizi sanitari di buon livello, ma si pensa anche al sistema dei trasporti pubblici e locali (che possono fare la differenza nel garantire una buona qualità della vita) e alla disponibilità e accessibilità di luoghi per la socializzazione e lo svago.
Se consideriamo il tempo inevitabilmente dedicato alle funzioni vitali (dormire, mangiare, prendersi cura del proprio corpo), da stimarsi in almeno 9 ore, e aggiungiamo le almeno 9 ore di un lavoro a tempo pieno (8 ore più una pausa, più il tempo di trasporto per raggiungere il luogo di lavoro), le 5 ore e 5 minuti dedicate alla cura occupano la quasi totalità delle ore che rimangono in una giornata.
Nel conteggio ovviamente non trovano spazio altre attività che dovrebbero far parte della vita di una persona: il tempo per lo svago, per le attività sportive, per la lettura, le amicizie. Non trova spazio il tempo “libero” nelle sue varie declinazioni.
Con l’evolversi delle nuove tecnologie digitali e l’avvento del microprocessore che consente a molte persone di lavorare in “ogni luogo ed in ogni tempo”[3], il cosiddetto smart working, sostenuto nella sua espansione anche dall’adozione straordinaria in pandemia, ha assottigliato i confini tra luoghi e tempi di lavoro e luoghi e tempi della cura. Questo processo da un lato ha offerto la possibilità di lavorare da casa, in apparenza agevolando chi ha maggiori responsabilità di cura, dall’altro ha reso di fatto ininterrotto il tempo del lavoro, unendo in un continuum senza sosta il tempo (e lo spazio) del lavoro retribuito con il tempo (e lo spazio) del lavoro di cura. Un insieme di attività che ha sempre le caratteristiche di un impegno lavorativo, ma non è riconosciuto come tale non essendo retribuito.
Lo sforzo per conciliare e trovare un equilibrio assume quindi nuove caratteristiche e, se possibile, diviene ancora più complesso.
Ne consegue la necessità di sviluppare un approccio inclusivo, che vada oltre una visione stereotipata dei bisogni di conciliazione delle persone, superando in primo luogo gli stereotipi di genere e in secondo luogo una concezione che ritenga come legittimi solo i bisogni legati all’adempienza di carichi di cura.
Accanto alla necessità di considerare la cura una responsabilità sociale, che riguarda tutti gli individui all’interno e all’esterno del nucleo familiare di riferimento, che deve trovare nel contesto sociale possibilità di soddisfazione, emerge anche la necessità di interrogarsi sulle reali necessità degli individui nella loro complessità e nelle loro caratteristiche intersezionali, provando a definire le strategie più adatte per ridurre l’investimento individuale necessario a trovare un equilibrio e contribuire ad una presa in carico collettiva.
2. Le politiche per la conciliazione
L’insieme delle politiche e misure di conciliazione sviluppate negli anni più recenti rappresenta un fattore di innovazione dei modelli sociali, economici e culturali e si ripropone di fornire strumenti che, rendendo compatibili sfera lavorativa e sfera individuale-familiare, consentano a ciascun individuo di vivere al meglio i molteplici ruoli che gioca all’interno di società complesse.
Sebbene nella maggior parte degli interventi previsti prevalga una visione tradizionale della definizione di conciliazione, con una marcata attenzione ad offrire strumenti alle donne per far fronte ai numerosi carichi di cura di cui sono responsabili, negli ultimi anni si rileva un impegno costante, sostenuto anche dalla normativa europea, a promuovere un coinvolgimento sempre maggiore dei padri nella cura dei figli, ad esempio allargando la previsione di congedi di paternità obbligatori.
La Direttiva Europea (UE) 2019/1158, relativa all’equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza riconosce l’importanza della disponibilità di congedi e modalità di lavoro flessibili per favorire una maggiore inclusione delle donne nel mercato del lavoro. Afferma inoltre che «poiché le opportunità e gli incentivi diretti a indurre gli uomini ad avvalersi dei meccanismi per conciliare attività professionale e vita familiare sono in genere scarsi e di conseguenza il loro utilizzo è basso nella maggior parte degli Stati membri, una concezione più equilibrata di tali regimi dal punto di vista del genere può contribuire a riequilibrare la distribuzione dell’assistenza all’interno della famiglia».
La direttiva ha così contribuito ad allargare i tempi del congedo di paternità anche nel nostro paese portando alla previsione che il padre lavoratore (dipendente pubblico o privato) debba astenersi obbligatoriamente dal lavoro per 10 giorni dal lavoro, che possono essere usufruiti tra i due mesi precedenti e i cinque successivi al parto.
Si tratta di un punto di partenza, ancora debole rispetto alle previsioni di altri paesi e che non include i professionisti e i lavoratori autonomi, ma che comunque lancia un segnale nella prospettiva di una maggiore condivisione della genitorialità.
In Italia il tema della conciliazione, anche in una accezione più ampia, è disciplinato da oltre 20 anni dalla legge 8 marzo 2000 n. 53, che, oltre ad aver introdotto i congedi parentali, e ad aver favorito la sperimentazione di azioni positive per la conciliazione sul luogo di lavoro, sensibilizzando in tal senso aziende e parti sociali, ha previsto l’istituzione del congedo per la formazione continua e l’estensione dei congedi per la formazione.
Se la normativa disciplina la possibilità per lavoratrici e lavoratori di accedere a congedi per genitorialità e cura[4], essa riguarda solo le famiglie e le relazioni parentali formalmente riconosciute, lasciando al margine nuove forme di famiglie e non riconoscendo a pieno i diritti di tutte e tutti.
In aggiunta, essa non soddisfa le esigenze di conciliazione dei soggetti che hanno un’occupazione precaria ‒ più spesso donne che uomini ‒ che non rientrando nella categoria dei lavoratori/trici non possono usufruire dei benefici di legge previsti.
Per questi soggetti, e per la popolazione in generale, rimane prioritario un investimento in politiche pubbliche che preveda infrastrutture sociali capaci di contribuire a migliorare la qualità della vita per tutti: copertura degli asilo nido (ancora fortemente al di sotto degli standard europei in molte zone del Paese), tempo pieno nelle scuole elementari e medie, disponibilità di centri diurni di qualità per persone con disabilità gravi, servizi sanitari diffusi e di qualità, buona qualità dei trasporti locali, spazi di aggregazione e per attività sportive e culturali accessibili ed economici, politiche dei “tempi delle città” che consentano un accesso agli uffici pubblici sia telematico sia distribuito nell’arco della giornata.
In assenza di queste infrastrutture sociali l’investimento per la conciliazione è destinato a rimanere un investimento individuale il cui risultato nell’immediato sarà sempre più una esclusione delle donne dagli spazi pubblici del lavoro, del sociale e della politica.
3. Il ruolo delle aziende
Negli ultimi anni le aziende, soprattutto le aziende di grandi dimensioni, hanno avuto un ruolo importante nella sperimentazione di strumenti e politiche a favore della conciliazione.
Le opportunità offerte dall’innovazione tecnologica, e la spinta imposta dall’isolamento forzato durante la pandemia, hanno portato molte organizzazioni a strutturarsi in modo da offrire maggiore flessibilità e la possibilità di lavorare in ambienti digitali, a cui poter accedere da remoto, dalla propria abitazione o da altri luoghi a scelta del lavoratore/trice.
Abbiamo visto come questo elemento rappresenti sia un’opportunità che un rischio, ma è innegabile che una maggiore flessibilità di luoghi e orari rappresenti una risorsa per chi debba definire un equilibrio tra tempi di vita e tempi di lavoro.
Alle misure che favoriscono la flessibilità ‒ e che non si esauriscono nello smart working, ma possono includere sperimentazioni di settimane corte, fasce orarie comuni e tempo individuale flessibile, banche ore per recuperi e cessione di ore e permessi tra colleghi, finestre flessibili per le entrate e le uscite ‒ alcune aziende affiancano la definizione di linee guida per un’organizzazione attenta alle esigenze di conciliazione. Tali linee guida possono includere indicazioni sull’organizzazione delle riunioni ‒ che si devono svolgere tra le 10 e le 16, essere comunicate per tempo e avere un’agenda chiara ‒ norme sul diritto alla disconnessione, predisposizione di spazi “familiari”, ovvero stanze per l’allattamento o sale dove poter portare i figli con sé in ufficio se necessario.
Le realtà più avanzate propongono veri e propri piani di conciliazione che prevedono la possibilità di accedere a coaching individuale per l’organizzazione dei tempi di lavoro e di cura e l’individuazione e pianificazione dell’accesso ai servizi sul territorio. Solo in rari casi le imprese si impegnano anche in campagne di sensibilizzazione per una genitorialità più condivisa, campagne il cui obiettivo sia una maggiore fruizione da parte dei padri dei congedi parentali a cui potrebbero accedere, ma che, per ragioni anche di carattere economico[5], tendono a non utilizzare.
In aggiunta ad una maggiore flessibilità, le aziende hanno iniziato ad offrire ai/le propri/e dipendenti, mediante lo strumento del welfare aziendale, una serie di servizi il cui obiettivo è migliorare la qualità lavorativa e di vita del dipendente stesso. Si tratta di voucher, attivabili mediante piattaforme telematiche e pagati dall’azienda, che consentono di avere accesso a servizi disponibili sul territorio e che includono servizi di supporto alla cura ‒ nidi privati, centri estivi, soggiorni studio ‒ o per il tempo libero ‒ centri estetici, palestre, viaggi. Sia il lavoratore/trice che l’azienda traggono beneficio dalla de-fiscalizzazione degli strumenti di welfare e dalla possibilità di accedere al mercato dei servizi territoriali. Ovviamente questa misura è condizionata dall’offerta di servizi territoriali e di fatto accentua le disparità esistenti sul territorio nazionale anziché sanarle (è evidente che l’offerta dei grandi centri urbani è più ricca di quella delle piccole realtà di provincia). Un altro limite è la sua temporaneità e variabilità nel tempo, poiché le risorse da destinare alle iniziative di welfare possono variare di anno in anno al variare della disponibilità dell’azienda.
In un’ottica di maggiore inclusione e allargamento della platea degli aventi diritto alle misure di conciliazione, negli anni le grandi aziende hanno funzionato da apri pista, riconoscendo i nuclei familiari comunque costituiti e garantendo l’accessibilità alle misure dei vari piani familiari anche a soggetti non formalmente riconosciuti come familiari dall’ordinamento (famiglie di fatto, famiglie arcobaleno).
Se il contributo delle grandi imprese è importante e costituisce un aiuto significativo per molte persone impegnate nello sforzo della conciliazione, si tratta tuttavia di un’opportunità riservata a pochi/e e soprattutto a chi riesce a rimanere all’interno del mercato del lavoro. Si tratta anche di iniziative che solo raramente mettono in discussione lo stereotipo di genere, secondo il quale una donna deve conciliare lavoro retribuito e lavoro di cura (non retribuito) senza che ci sia spazio per il tempo libero, laddove un uomo deve conciliare tempo di lavoro con tempo per sé, con una contrazione del tempo della cura socialmente meno riconosciuto e accettato, se svolto da un uomo.
Da queste brevi riflessioni emerge l’urgenza di una nuova definizione di conciliazione che metta sullo stesso lato della bilancia il lavoro ‒ sia esso retribuito o non retribuito ‒ e dall’altro il tempo libero da responsabilità e oneri e dedicato a se stessi, alla vita sociale, alla crescita personale.
Note
[1] Save the Children, Le equilibriste. la maternità in Italia nel 2023, https://www.savethechildren.it/cosa-facciamo/pubblicazioni/le-equilibriste-la-maternita-in-italia-2023.
[2] ILO, Care work and care jobs. For the future of decent work, 2018, https://www.ilo.org/global/publications/books/WCMS_633135/lang–en/index.htm.
[3] Eurofound, Working anytime, anywhere: The effects on the world of work, https://www.eurofound.europa.eu/publications/report/2017/working-anytime-anywhere-the-effects-on-the-world-of-work.
[4] Un importante strumento è anche la disciplina prevista dalla legge 104 che riconosce congedi alla persona con disabilità di varia natura e prevede per il familiare del disabile grave il diritto, richiedendo il congedo straordinario, a due anni di assenza dal lavoro retribuiti in base allo stipendio dell’ultimo mese precedente alla richiesta di astensione dal lavoro.
[5] I congedi parentali attualmente prevedono una retribuzione al 30% per chi ne usufruisce; poiché statisticamente nelle coppie eterosessuali le donne guadagnano meno degli uomini è al salario minore che si rinuncia con maggiore frequenza.