1. Gestire la diversità in azienda: una necessità condivisa?
L’attenzione nei confronti della pluralità della forza lavoro è nata negli Stati Uniti alla fine degli anni ’80 e si è poi diffusa in Europa, in particolare nei paesi nordici, fino a giungere in Italia prevalentemente all’interno di società multinazionali. Allora il focus era sulle differenze di genere e sulla creazione di strumenti e servizi di conciliazione per supportare lo sviluppo professionale delle donne e la ricerca di un “giusto” equilibrio tra i loro diversi ruoli (di madre, moglie, lavoratrice). Poi, negli anni, si è avvertita una crescente necessità di azioni più trasversali, aventi come destinatari non più solo madri lavoratrici, ma potenzialmente tutta la popolazione aziendale. Azioni organizzative quindi in grado di valorizzare i diversi status identitari e includere identità, stili di vita e modelli non-normativi.
Oggi il tema è diventato mainstream e ha assunto un’importanza tale da rientrare tra i 17 Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile nell’Agenda 2030 sottoscritta dai Paesi membri delle Nazioni Unite. L’obiettivo 5, infatti, riguarda la gender equality e il 10 la riduzione delle diseguaglianze. Il percorso che ha portato a riconoscere un’importanza strategica al tema non è stato facile.
Era il 2007 quando, insieme ad una collega di SDA Bocconi, ho pubblicato il libro Diversity Management. Gestire e valorizzare le differenze individuali nell’organizzazione che cambia. In quegli anni il tema era ancora poco conosciuto ed esplorato, sia in ambito accademico, sia in ambito aziendale e le riflessioni sul valore della diversità in azienda venivano ascoltate con un certo scetticismo, se non addirittura scherno.
Ancora oggi nella mia attività di consulente e formatrice mi capita di intercettare resistenze, ostilità e tanti luoghi comuni: «Dobbiamo ancora parlare di donne?»; «Siamo tutti uguali: perché rimarcare e sottolineare la diversità?»; «In un sistema meritocratico, contano solo le competenze»; «Noi diamo a tutti le stesse opportunità»; «Le quote sono controproducenti e vanificano un’evoluzione che dovrebbe invece essere naturale e non forzata». Ecco, nel mondo ideale queste affermazioni potrebbero anche essere vere, ma nel mondo reale in cui viviamo, ricco di contraddizioni e paradossi, non lo sono: è importante riuscire ad avere uno sguardo lucido e a prendere consapevolezza del fatto che il sistema non è equo, che tutti noi siamo diversi uno dall’altro, che alcune forzature sono necessarie per apportare cambiamenti che altrimenti non avverrebbero. Quindi ben vengano gli strumenti legislativi che danno risposte ai nuovi bisogni delle persone e ben vengano le azioni messe in atto dalle aziende più lungimiranti per favorire benessere organizzativo.
2. Dal Diversity Management alla Diversity, Equity & Inclusion
Fino a qualche anno fa, l’obiettivo prioritario delle aziende era quello di avere una forza lavoro eterogenea e differenziata: si parlava di Diversity Management cioè di modalità di gestione delle persone in grado di intercettare la diversificazione dei loro bisogni ed esigenze.
Oggi si parla di Diversity, Equity & Inclusion (DE&I): un cambio lessicale che riflette un vero e proprio cambio di paradigma. La creazione di contesti con persone eterogenee e “diverse” tra loro è una condizione necessaria, ma non sufficiente per una reale valorizzazione e integrazione. Nell’acronimo DE&I quindi, oltre alla Diversità, che si riferisce alle differenze fisiche o socioculturali reali o percepite attribuite alle persone e alla loro rappresentanza all’interno delle organizzazioni, ci sono altri due costrutti fondamentali. Il primo è l’Equità, vale a dire la gestione delle persone in termini sia di opportunità che di risultato; il secondo è l’Inclusione e si riferisce alla creazione di una cultura che promuova l’appartenenza e la valorizzazione dei diversi gruppi/categorie di lavoratori e lavoratrici.
Così inquadrata, la DE&I diventa la condizione essenziale sia per la crescita e la competitività delle imprese, sia per il benessere dei lavoratori e delle lavoratrici, al di là della retorica, del rischio “moda manageriale” o “social washing” sempre presente. Credo infatti che tutti, nella nostra quotidianità, sperimentiamo quanto sia proficuo lavorare con persone diverse da noi, per età, background formativo o lavorativo, abilità, genere, età ed etnia. E il fatto che questa nostra percezione venga confermata da dati di ricerca, rigorosi e statisticamente validi, legittima ancora di più la necessità di creare ambienti di lavoro caring e attenti alla valorizzazione delle diversità di cui tutti noi siamo portatori e portatrici.
3. La conciliazione vita privata e lavorativa: alla ricerca di un’integrazione
La ricerca di una buona conciliazione è sempre stata una necessità e un bisogno fortemente espresso dalle persone già nel pre-pandemia; sicuramente in questi ultimi tre anni, il bilanciamento tra la nostra identità familiare e professionale è stato messo a dura a prova.
È notizia di pochi giorni fa, l’approvazione da parte del Consiglio dei ministri del Decreto legislativo di recepimento della direttiva europea 2019/1158, che ha l’obiettivo di promuovere il miglioramento della conciliazione tra i tempi della vita lavorativa e quelli dedicati alla vita familiare per i lavoratori e le lavoratrici. La direttiva, infatti, introduce alcuni standard minimi per gli Stati membri su un tema che rappresenta per l’Unione Europea una sfida per la competitività e la crescita. Si tratta di un provvedimento molto interessante perché cavalca la promozione del modello dual-earner dual-carer attraverso la promozione di politiche finalizzate alla condivisione delle responsabilità di cura tra entrambi i genitori (e non più solo per mamme!). Parallelamente a questi cambiamenti legislativi che necessariamente non solo riflettono, ma anche agevolano il cambiamento culturale, anche il mondo aziendale si è attivato e si sta attivando con policy interne, survey, attività di sensibilizzazione di formazione e creazione di servizi sempre più differenziati e variegati di “work life balance”, o meglio di “work life integration”.
Un interessante filone di studi, infatti, sta mettendo in discussione l’espressione “work life balance” principalmente per due motivi che non sono solo linguistici e di forma, ma anche concettuali, quindi di sostanza. Il primo motivo è che l’etichetta parla di lavoro e di vita, come se il tempo che si trascorre all’interno di un’azienda fosse una “non-vita”. Ma, è bene ricordare che noi siamo al contempo tante cose, abitiamo in parallelo tante stanze identitarie che non sono racchiudibili in “vita” e “lavoro”.
Il secondo motivo ha a che vedere con la parola “balance”: parlare di bilanciamento e di “equilibrio”, evoca una sorta di gioco a somma zero in cui diventa necessario suddividere in ugual misura le ore da dedicare all’una e all’altra sfera, come se lavoro e vita fossero ai due estremi opposti rispetto a un fulcro centrale. Come a dire che c’è work life balance se e solo se i due piatti della bilancia sono perfettamente allineati. Ma, come è facile intuire, è molto difficile che sia così. Possiamo anche dire che ricercare un equilibrio perfetto non è un obiettivo realistico: quindi, per assurdo, rinunciare a trovare un equilibrio ci permette di liberarci da sensi di colpa o dalla sensazione di non essere all’altezza. Meglio dunque attrezzarsi per trovare il modo per far coesistere sullo stesso piatto della bilancia i nostri status identitari, per arrivare a una commistione funzionale che ci faccia stare bene: dal miraggio del “balance” a una più realistica (e sana) “integration”.
4. La conciliazione come leva della Diversity, Equity & Inclusion
Alla luce di quanto detto, il Quaderno intende analizzare il ruolo degli strumenti di conciliazione quali veicoli e leve per la creazione di ambienti aziendali inclusivi, in grado cioè di dare una risposta concreta al bisogno di integrazione e armonizzazione dell’identità lavorativa e di quella personale e familiare dei lavoratori e delle lavoratrici.
Nella sezione delle Riflessioni, vengono approfondite quattro condizioni necessarie per creare inclusione (quella vera, sostanziale e non di facciata), di cui due ascrivibili ad un piano più politico, due afferenti all’ambito aziendale. La prima, ben sottolineata dal contributo Barbara De Micheli, La conciliazione come leva per creare ambienti inclusivi in grado di favorire il benessere delle persone, è la disponibilità di servizi, preferibilmente pubblici, che supportino la work life integration: solo con servizi accessibili, adeguati e di qualità è possibile ottenere una conciliazione accettabile e sostenibile tra i tempo del lavoro ‒ sia esso retribuito o non retribuito ‒ e il tempo libero da responsabilità e oneri e dedicato a se stessi, alla vita sociale, alla crescita personale. In assenza di infrastrutture sociali, il rischio è che tutto ricada sui lavoratori e soprattutto sulle lavoratrici.
La seconda condizione è che le strategie e le pratiche di conciliazione siano in grado di adattarsi alle diverse esigenze e caratteristiche dei soggetti che operano all’interno delle organizzazioni, tenendo conto delle loro specificità (genere, età, situazione familiare, appartenenza etnica, condizione contrattuale, ecc.), così come alle diverse fasi dei corsi di vita. È questo un punto fondamentale che troviamo nel contributo di Barbara Poggio, Tra conciliazione e valorizzazione delle diversità: un nesso virtuoso e imprescindibile. Questo significa che è necessario utilizzare strumenti non standardizzati, capaci cioè di adattarsi a bisogni differenziati. Al contempo, è importante che chi ha la responsabilità di decidere e disegnare queste politiche e azioni, sia consapevole del rischio che il destinarle a specifici target, in particolare alle donne con figli, può avere in termini di riproduzione di quegli stereotipi e squilibri che si vorrebbero invece superare.
Per quanto riguarda le aziende, il contributo di Alessandra Lazazzara è molto esplicativo, già nel titolo: Non ci sono più scuse! L’adozione (o non adozione) di politiche di conciliazione e inclusione è il risultato di una scelta strategica: un’organizzazione pubblica o privata che non adotta misure di DE&I sta dichiarando la sua scelta strategica e di conseguenza la sua visione riguardo la gestione e il valore (o non valore) del capitale umano. Per promuovere il benessere e l’inclusione è necessario che questi due elementi diventino effettivamente degli obiettivi di business e costituiscano le fondamenta dei sistemi di gestione delle persone.
Infine, il contributo di Barbara Imperatori, Le pratiche di diversità e inclusione servono “davvero”? Il ruolo della direzione HR tra sostenibilità e significato del lavoro sottolinea con forza che le organizzazioni inclusive sono quelle in cui la cultura connette ogni lavoratore all’organizzazione e ne incoraggia la collaborazione, sostenendo contemporaneamente sia il senso di appartenenza e di coinvolgimento alla vita organizzativa, sia la sua unicità. Affinché tutto questo possa “davvero” realizzarsi, è necessario attivare processi partecipativi (tra HR professional, i lavoratori e i capi) attraverso cui persone e organizzazioni possano, insieme, generare idee, progetti e pratiche innovative.
Con le Esperienze passiamo dalla teoria alla pratica. In questa sezione ho voluto dare spazio a voci differenti per ruolo e backgroud, voci che ci parlano di azioni concrete messe in atto sul tema della conciliazione e della DE&I.
La prima, è di Sara Callegari, HR, HSE & Procurement Director di ENGIE Italia, che illustra i motivi e il percorso che ha portato la sua azienda a ottenere la Certificazione della Parità di Genere.
La seconda voce è di Francesca Sagramora, vice presidente Risorse umane Procter & Gamble che ci descrive le azioni messe in campo sul tema della genitorialità, con un focus particolare sui neo papà.
La terza voce è di Shata Diallo, consulente di Mida, che ci presenta il modello H.E.R.O., il quale valorizza strumenti di cittadinanza per agire di fronte a micro-iniquità e micro-aggressioni che possiamo sperimentare nella vita di tutti i giorni.
La quarta voce è di Mariarosaria Izzo, coordinatrice del corso post-lauream di perfezionamento in Disability e Diversity Management dell’Università Europea di Roma, corso che nasce dall’intenzione di preparare in maniera specialistica persone già esperte sul tema con una visione sistemica e organizzativa.
Ringraziamenti
Con grande piacere e interesse ho colto la sfida della Fondazione Vigorelli, quella di realizzare una pubblicazione che unisse due temi caldi, a me molto cari sia dal punto di vista professionale che personale: la conciliazione vita personale e professionale e la gestione della diversità in azienda.
Quando mi sono trovata davanti al foglio word per abbozzare un’ipotesi di indice, mi sono chiesta quale potesse essere il valore aggiunto della pubblicazione all’interno di un panorama già ricco di contributi e ricerche. Ed è così che ho messo a fuoco la mia idea: integrare approcci differenti, visioni innovative e, perché no, dare spazio a provocazioni e sguardi critici.
I miei ringraziamenti vanno a Sonia Vazzano e Isabella Crespi per essere state sempre al mio fianco con consigli, idee, stimoli che hanno arricchito la pubblicazione. A tutte le autrici dei contributi per essere riuscite a cogliere pienamente quello che avevo in mente di realizzare; non era nei piani fossero tutte donne, ma la loro grande competenza sul tema e la loro autenticità nel portarlo avanti come accademiche, direttrici risorse umane, consulenti e formatrici sono stati i criteri guida rispetto alla loro scelta. Al team Kokeshi con cui quotidianamente sperimento il valore del confronto e della collaborazione.
Spero davvero che dalla lettura del Quaderno si possano cogliere spunti, sollecitazioni e ispirazioni per continuare a lavorare, come professionisti/e ma non solo, sull’accettazione della diversità dell’altro, sulla messa in discussione delle proprie convinzioni e posizioni, sulla valorizzazione dello scambio, sulla creazione di ambienti inclusivi. Ce ne è davvero ancora tanto bisogno.