1. Introduzione
In un contesto demografico europeo in cui la popolazione sta progressivamente invecchiando, sta emergendo un crescente bisogno di cure e assistenza, tendenza che probabilmente persisterà nei prossimi decenni. Attualmente, soprattutto nei Paesi del Sud Europa, i sistemi di welfare si basano principalmente sul sostegno fornito dalle famiglie e sull’affidamento a pratiche di caregiving informale. Negli ultimi decenni, l’Italia, così come l’Europa nel suo complesso (European Commission 2018; 2021) ha assistito a significativi cambiamenti socio-demografici che hanno impattato direttamente sulla cura degli anziani e sulle dinamiche familiari. L’aumento dell’aspettativa di vita e il calo delle nascite stanno contribuendo al rapido invecchiamento della popolazione (Istat 2020; 2021). Questo fenomeno richiede un ripensamento dei tradizionali modelli di cura e una maggiore attenzione alle fragilità degli anziani (Bramanti, 2022). Di conseguenza, ci troviamo di fronte a un ripensamento e ad una riconfigurazione degli obblighi e delle responsabilità di cura tra l’unità familiare, lo stato e il mercato. L’emergenza pandemica di Covid-19 ha evidenziato, soprattutto in Italia, quanto siano rilevanti e importanti i legami e le relazioni familiari nell’assistenza e nel sostegno ai membri. Come evidenziato da recenti studi condotti a livello europeo, uno dei gruppi di popolazione più colpiti dalla pandemia Covid-19 è stato quello delle persone con esigenze di assistenza a lungo termine, soprattutto in età avanzata, e dei loro caregiver informali (Bergmann Wagner 2021; Cipolletta, Morandini e Tomaino 2023). In questo quadro, le famiglie esprimono una richiesta di protezione sociale, rispondendo a esigenze che hanno superato le loro capacità interne. Tradizionalmente intrinseche ai ruoli e alle responsabilità familiari, queste richieste si sono spostate verso l’outsourcing esterno.
Nell’attuale tessuto sociale, il concetto di “caregiver” rappresenta un pilastro fondamentale all’interno delle relazioni familiari, poiché incarna l’essenza della cura, dell’assistenza e del sostegno reciproco all’interno dell’ambiente domestico. Tuttavia, ciò che rende ancora più significativo questo ruolo è la sua capacità di conciliare, di bilanciare molteplici responsabilità ed esigenze, spesso in un contesto caratterizzato da complessità e sfide. Da una prospettiva socio-filosofica, esaminiamo come i caregiver navigano attraverso le dinamiche familiari, affrontando pressioni esterne e interne mentre si dedicano alla cura degli altri.
Innanzitutto, è cruciale comprendere il concetto stesso di “caregiver” e il suo impatto sulle relazioni familiari. Il caregiver non è soltanto colui che fornisce assistenza materiale o fisica, ma anche colui che offre supporto emotivo, comprensione e presenza costante. In tal senso, il ruolo del caregiver si espande ben oltre il mero compito di soddisfare bisogni pratici, abbracciando una dimensione profondamente umana e interpersonale.
Tuttavia, ciò che distingue ulteriormente il ruolo dei caregiver che conciliano è la loro capacità di navigare tra molteplici ruoli e identità. Spesso, i caregiver sono chiamati a bilanciare le loro responsabilità familiari con impegni lavorativi, sociali e personali. Questa sfida richiede non solo una gestione efficace del tempo e delle risorse, ma anche una riflessione critica sul significato stesso di cura e sacrificio all’interno della sfera familiare.
Considerando il ruolo centrale svolto dalle famiglie nelle pratiche di assistenza sia prima che dopo la pandemia, è fondamentale esplorare gli adattamenti, le strategie e gli strumenti messi in atto per far fronte al periodo di crisi, al fine di migliorare le politiche e i sistemi di welfare. Un tema attuale che riguarda anche i rapporti generazionali, poiché nella dimensione familiare i caregiver informali risultano essere sempre più giovani, la cosiddetta generazione sandwich, stretta tra gli obblighi di cura dei figli e dei genitori (Brenna, 2021).
Le politiche pubbliche, le norme sociali e le strutture economiche possono influenzare in modo significativo il modo in cui i caregiver interpretano e praticano il loro ruolo. Ad esempio, politiche di welfare inefficienti o un mercato del lavoro precario possono mettere a dura prova le risorse e la resilienza dei caregiver, compromettendo il benessere familiare nel suo complesso.
La prospettiva socio-filosofica ci invita a considerare il contesto culturale, politico ed economico in cui si svolgono le dinamiche familiari moderne, per poter poi mettere in atto politiche adeguate alla profondità delle questioni che sono in gioco.
2. La cura tra universalità antropologica e lavoro retribuito
La nozione di cura è in un certo senso universale. Questa universalità della cura non è sempre stata un bene.
Il rischio interpretativo più ingente è quello per cui proprio il carattere trascendentale della cura ci renda indifferenti alle rappresentazioni sociali tramite cui le differenti civiltà hanno inteso comprendere all’interno dei differenti ordini del discorso i fenomeni di cura: una spiritualizzazione della cura per cui la sua ricorrenza nel tempo e nello spazio finisce per legittimare qualunque fenomeno attraverso cui la cura è stata organizzata. Esiste una molteplicità di azioni umane che si richiamano alla cura: alcune di loro sono forme di cura che curano e altre forme di cura che in realtà nascondono patologie, relazioni tossiche, dipendenze. Saper distinguere non è indifferente rispetto all’esperienza concreta che tutti noi facciamo della cura.
Intanto possiamo partire da un’evidenza d’ordine esistenziale: vi è cura dove vi è mancanza. La cura si riferisce cioè a una forma di presa in carico di una condizione in cui vi è una vulnerabilità. Ogni volta che facciamo ricorso al gergo della cura, ci riferiamo dunque a una serie di azioni messe in atto dagli esseri umani in relazione a una qualche situazione di vulnerabilità. Eppure contemporaneamente la vulnerabilità umana non è solo il risultato di particolari eventi contingenti. L’essere umano è strutturalmente vulnerabile, in quanto “costretto” a comprendersi tramite una mancanza originaria. Più semplicemente potremmo dire: le forme contingenti della vulnerabilità (le età della vita in cui non siamo autosufficienti, le patologie, le difficoltà socio-culturali, ecc.) non sono altro che manifestazioni di una più generale condizione umana per cui l’essere umano è sempre in rapporto con la propria vulnerabilità e per questo è sempre capace di ricevere/offrire cura: l’essere umano è in quanto tale un essere di cura.
Per distinguere questi due significati originari della cura, Heidegger introduce la differenza tra il “prendersi cura” e l’“aver cura” (Heidegger, 2015). Nel suo prendersi cura l’essere umano si occupa di “qualcuno” come fosse “qualcosa”. La cura diventa così una forma di misura quantitativa che si può calcolare. Nell’esperienza comune, prendersi e avere cura si co-implicano: aver cura di qualcuno vuol dire anche regalargli oggetti, garantire il necessario per la sussistenza, spendersi per minimizzare le difficoltà concrete e quotidiane, ecc.
Questa co-appartenenza del prendersi cura e dell’aver cura è implicata anche nelle differenziazioni categoriali tramite cui facciamo riferimento al lessico della cura. A ogni cura attribuiamo un aggettivo e tale aggettivazione modifica il senso dell’esperienza, rendendo più concreto il suo carattere universale. Abbiamo la cura parentale, la cura generazionale, la cura relazionale, la cura materiale, la cura simbolica, la cura spirituale, la cura ambientale, ecc. A ogni aggettivazione corrisponde un’esperienza differente che va attraversata e analizzata anche in termini teorici.
C’è infine la cura professionale, che è un’invenzione recente. Con l’organizzazione del lavoro moderno, la cura diventa una prestazione che può essere scambiata col denaro. Il lavoro diventa appunto una professione, il cui significato è duplice. Non è solo quello di fornirci il necessario per la sussistenza, attraverso la mediazione del denaro, ma è anche quello di darci una nuova identità, l’identità sociale. Il lavoro produttivo così diventa anche un lavoro sociale: tramite il lavoro ci identifichiamo socialmente (Gorz, 1992).
Questa riduzione del lavoro umano al lavoro come professione ha per quasi due secoli volutamente rimosso la questione del lavoro di cura, definito più propriamente come lavoro riproduttivo e contrapposto al lavoro produttivo (Bock G. – Duden B., 2024). Tutte le attività che avevano come fine di garantire la sussistenza e la riproduzione della vita umana sono state infatti delegate al femminile e non riconosciute come professione. In quanto tali, i lavori di cura sono però la condizione di possibilità dei lavori produttivi. Se non ci fosse qualcuno a prendersi cura di noi fin dalla nascita, che non si occupi della soddisfazione dei bisogni primari, che non mantenga in condizioni salubri i nostri ambienti vitali e che si prenda cura dei nostri parenti da anziani, non saremmo nelle condizioni per poter svolgere le nostre professioni. La cura è stata un lavoro – tra i più faticosi oltretutto perché quotidiano, ripetitivo, non prevedibile in quanto dipendente dalla contingenza delle situazioni – ma non è stata una professione.
La società del lavoro si organizzava dunque a partire da questo schema fondativo. Da un lato il lavoro come professione, appannaggio degli uomini e la cui centralità è tale da affidargli l’identificazione sociale; dall’altro lato il lavoro riproduttivo, affidato alle donne e costretto a restare nell’ordine dell’informale, pur essendo condizione di possibilità di ogni altra forma di lavoro.
Questa tendenza è stata messa in discussione e ridimensionata a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso. Ma se la messa in discussione è dovuta alle critiche che giustamente si sono levate contro questo sfruttamento sistematico del lavoro femminile e contro lo stereotipo di genere che costringe la cura ad essere un “mestiere delle donne”, il suo ridimensionamento è arrivato, paradossalmente, da una trasformazione della divisione capitalistica del lavoro.
È il fenomeno della cosiddetta femminilizzazione del lavoro (Fraser, 1996). Il lavoro di cura fuoriesce velocemente dalla zona d’ombra dell’informalità per diventare a tutti gli effetti un lavoro retribuito, una professione come tutte le altre. Il lavoro di cura diviene così una nuova frontiera della produzione capitalistica. Ma questa razionalizzazione capitalistica si rende possibile anche a seguito di un’oggettiva e repentina trasformazione demografica delle nostre società. Il processo di invecchiamento generalizzato dà luogo all’estensione del lavoro di cura e alla necessità di una sua organizzazione scientifica e di una sua normazione.
Si accrescono in questo modo anche i livelli di sensibilità pubblica nei confronti del lavoro di cura. Da un lato il lavoro di cura – nel suo passaggio dall’informale al formale – diviene oggetto di scienza. Si moltiplicano le specializzazioni e le professionalizzazioni. La capacità di cura non è più affidata semplicemente alla buona volontà o a un presunto “istinto naturale all’accudimento”, ma si acquisisce una vera e propria scienza professionalizzante e una tassonomia dei lavoratori della cura. Infine, a questi elementi se ne aggiunge anche un altro. La crisi del welfare diventa una crisi della forma pubblica della cura. Il lavoro di cura si scontra con la diffusione sempre più estesa del “lavoro povero”, cioè quel lavoro la cui retribuzione non permette di stare oltre la soglia della povertà relativa e che tocca le professioni della cura in un duplice senso: da un lato non consente a molte famiglie di “pagare” il lavoro di cura, dall’altro finisce per costringere i lavoratori della cura a essere sottopagati e senza riconoscimenti di diritti e tutele che dovrebbero essere definitivamente acquisiti. L’invecchiamento diffuso trasforma le “nonne” e i “nonni” da potenziali soggetti di cura a effettivi oggetti della cura, modificando drasticamente le rappresentazioni sociali della cura generazionale. Si è prodotta così una vera e propria aporia sociale: da un lato la progressiva professionalizzazione della cura ha dato luogo alla necessità della formalizzazione di norme e tutele a garanzia dei lavoratori, dall’altro lo stato di ridimensionamento del “pubblico” non ha permesso, allo stato attuale, un organico e sistematico riconoscimento pubblico e istituzionale all’altezza delle sfide recenti. Più il lavoro di cura diventa una professione, meno acquisisce i diritti e le tutele di cui avrebbe sempre più bisogno.
Se la società del lavoro sembra destinata a tramontare, abbiamo di fronte a noi l’epoca della società della cura. Il progressivo spostamento della cura dai margini del nostro mondo al suo centro può essere occasione per un ripensamento complessivo del modo in cui interpretiamo le relazioni d’aiuto (The Care Collective, 2021). L’attenzione pubblica alle forme plurali del lavoro di cura deve essere cioè occasione per fare della cura un nuovo fatto sociale totale, intorno a cui ricostruire e rigenerare le nostre relazioni sociali.
3. Caregiving e relazioni familiari: dinamiche della cura e della conciliazione
La nozione di “cura” assume una rilevanza cruciale anche nella prospettiva della sociologia, poiché si estende ben oltre la mera dimensione medica, riflettendo il modo in cui le persone costruiscono le loro relazioni sociali e interagiscono con l’ambiente circostante. In questo contesto, la cura svolge un ruolo multidimensionale, abbracciando dimensioni emotive, relazionali e istituzionali che influenzano la struttura stessa del tessuto societario (Fiocco, 2004; Fine, 2004).
La cura è un concetto fondamentale per istituzioni sociali, ad esempio assumendo un ruolo centrale nella strutturazione della famiglia e della comunità.
All’interno della famiglia, la cura non si limita all’aspetto biologico, ma si estende alle dinamiche affettive e alle responsabilità quotidiane. È nell’ambito familiare che le persone imparano le prime lezioni di empatia, reciprocità e attenzione verso gli altri, aspetti che plasmano le loro interazioni sociali future. La cura si manifesta anche in contesti professionali e istituzionali, assumendo una forma più strutturata e organizzata e sempre più spesso le organizzazioni, oggi orientate al benessere dei dipendenti, riconoscono l’importanza di creare un ambiente di lavoro che promuova la cura reciproca e il supporto emotivo. Politiche aziendali che favoriscono un equilibrio tra lavoro e vita personale, programmi di assistenza ai dipendenti e iniziative di benessere psicologico, sono tutti elementi che contribuiscono a creare un contesto lavorativo attento alla cura.
Proprio perché attuata in contesti relazionali, la nozione di cura nella sociologia non può tuttavia prescindere dalle dinamiche di potere e disuguaglianza sociale (Fraser, 1996; Lynch, Kalaitzake e Crean, 2021). La distribuzione disuguale delle responsabilità di cura, spesso ripartite in modo disproporzionato su determinati gruppi (donne, straniere come assistenti familiari, etc.), può riflettere e perpetuare disuguaglianze di genere e socio-economiche. Ad esempio, le donne sono tradizionalmente associate alle attività di cura nella sfera domestica (come caregiver), il che può influenzare le opportunità di partecipazione sociale e professionale.
Il concetto di caregiver è intrinsecamente legato al concetto di cura, alle relazioni familiari e alla società nel suo complesso e si configura come fondamentale nelle relazioni familiari e nella società, un ruolo imprescindibile che coinvolge la cura e l’assistenza a membri della famiglia in situazioni di bisogno, come malattia, disabilità o vecchiaia. Questo ruolo può avere implicazioni significative sulle dinamiche familiari, sulla conciliazione tra lavoro e vita privata e sulla struttura sociale.
Innanzitutto il ruolo dei caregiver che conciliano rappresenta un nodo cruciale all’interno del tessuto sociale contemporaneo, intrecciando la cura, la relazione e la conciliazione tra molteplici identità e responsabilità (Costa, 2007; Barnes, 2010; Di Nicola e Viviani, 2020).
Da una prospettiva sociologica, possiamo evidenziare appieno la complessità di questo ruolo e l’importanza di creare contesti familiari e sociali che sostengano e valorizzino il lavoro dei caregiver nell’ambito delle relazioni familiari. Proprio queste ultime costituiscono il contesto primario in cui si svolge il caregiving anche se le dinamiche familiari possono variare ampiamente a seconda del tipo di famiglia e dei suoi membri; le famiglie nucleari, estese, monoparentali e ricomposte presentano ciascuna sfaccettature uniche che influenzano il modo in cui i caregiver si relazionano con i loro cari. Ad esempio, nelle famiglie estese, i ruoli di caregiving possono essere distribuiti in modo più equo tra vari membri della famiglia, mentre nelle famiglie nucleari il peso della cura può ricadere principalmente su un solo individuo, di solito la donna.
Il caregiving è anche influenzato da una serie di fattori sociali, tra cui il genere, la classe sociale, l’etnia e la cultura. Le donne sono tradizionalmente associate al caregiving, anche se sempre più uomini stanno assumendo questo ruolo. Tuttavia, i caregiver donne tendono a dedicare più tempo e risorse al caregiving rispetto ai loro omologhi uomini (Zilli, 2022; Melchiorre et al., 2022). La classe sociale inoltre può determinare l’accesso alle risorse e ai servizi di supporto per i caregiver, mentre l’etnia e la cultura possono influenzare le aspettative e le pratiche legate al caregiving all’interno di una comunità.
Le istituzioni sociali possono svolgere un ruolo cruciale nel supportare i caregiver e facilitare le relazioni familiari poiché i governi e le politiche pubbliche possono fornire servizi di assistenza domiciliare, sussidi finanziari e congedi retribuiti. Tuttavia, spesso esistono carenze nei servizi di supporto e le politiche possono non essere sufficientemente sensibili alle esigenze dei caregiver e delle loro famiglie e per questo motivo è importante sviluppare politiche e programmi che riconoscano e valorizzino il lavoro di cura svolto dai caregiver (Serughetti e Morrissey, 2022).
In primo luogo, l’istituzione di congedi retribuiti rappresenta un passo cruciale. Questi congedi consentono ai caregiver di prendersi cura dei propri cari senza dover sacrificare il reddito, fornendo un sollievo finanziario e un senso di sicurezza economica. Inoltre, i servizi di assistenza domiciliare devono essere resi accessibili e convenienti, offrendo ai caregiver un supporto pratico nell’assistenza quotidiana ai loro cari, come la somministrazione di cure mediche o l’aiuto nelle attività quotidiane. In aggiunta, i sussidi finanziari possono svolgere un ruolo fondamentale nel ridurre il peso finanziario associato al caregiving, fornendo assistenza economica diretta per affrontare le spese legate alle cure mediche, agli ausili e ad altre necessità connesse.
Tuttavia, è vitale che tali politiche siano attentamente progettate per essere sensibili alle diverse esigenze dei caregiver e delle loro famiglie. Ad esempio, le politiche dovrebbero considerare le differenze di contesto socio-economico, culturale e familiare tra i caregiver, garantendo che il supporto offerto sia efficace e accessibile per tutti. Inoltre, le politiche dovrebbero essere flessibili e adeguate, in grado di adattarsi ai cambiamenti nelle esigenze dei caregiver nel corso del tempo. Infine, è essenziale coinvolgere attivamente i caregiver stessi nel processo decisionale riguardante la progettazione e l’implementazione di queste politiche, assicurando che le loro voci e le loro esperienze siano ascoltate e rispettate. Solo attraverso un approccio olistico e inclusivo, le istituzioni sociali possono veramente svolgere un ruolo efficace nel sostenere i caregiver e promuovere una maggiore conciliazione tra lavoro e vita familiare (Naldini, Pavolini e Solera, 2016).
La pratica di cura può avere un impatto significativo sulle relazioni familiari e sulla società nel suo insieme, poiché le famiglie possono sperimentare cambiamenti nelle dinamiche interpersonali, con tensioni e conflitti che possono emergere a causa del caregiving; tuttavia, il caregiving può anche rafforzare i legami familiari, promuovendo un senso di solidarietà e responsabilità reciproca. A livello sociale, il caregiving può influenzare la partecipazione economica delle famiglie e avere implicazioni per la forza lavoro e il sistema sanitario (Albertini e Tosi 2022).
Inoltre, è importante promuovere una cultura organizzativa che riconosca e valorizzi il lavoro di cura, sia esso svolto all’interno o all’esterno della famiglia. Ciò potrebbe includere politiche aziendali che incoraggiano la flessibilità lavorativa e il telelavoro, così come programmi di sensibilizzazione e formazione per promuovere una maggiore consapevolezza delle questioni legate alla cura degli anziani e alle disuguaglianze di genere. Guardando oltre l’individuo e la famiglia, la cura assume anche un ruolo centrale nelle politiche sociali. Un sistema di welfare efficace riflette un impegno sociale per garantire la cura a coloro che ne hanno bisogno, riducendo le disparità socio-economiche e promuovendo un’equità più ampia. A livello di strategie di policy making, sarebbe opportuno promuovere un dialogo aperto e inclusivo tra caregiver, professionisti del settore sanitario e decisori politici poiché coinvolgerli/le nelle decisioni che riguardano le politiche di assistenza sanitaria e sociale può garantire che le loro esigenze e preoccupazioni siano adeguatamente considerate. In questo modo, si può lavorare verso un sistema più equo ed efficiente che supporti adeguatamente coloro che si prendono cura dei propri familiari, ponendo attenzione a non creare disuguaglianze.
In questa prospettiva la cura, rappresenta un elemento cardine della società, un filo rosso che lega tutte le sfere delle relazioni umane. Comprendere appieno le dinamiche della cura nella società è essenziale per affrontare le sfide legate alle disuguaglianze e per promuovere una comunità più inclusiva e solidale.
4. Conclusioni
La cura, nelle sue molteplici sfaccettature, rappresenta un elemento centrale e insostituibile all’interno delle relazioni familiari e sociali, assumendo una valenza cruciale nel contesto demografico e culturale attuale. L’analisi filosofica e sociologica del caregiving ha evidenziato come questo fenomeno sia profondamente intrecciato con le dinamiche di genere, le disuguaglianze socio-economiche e la necessità di politiche pubbliche più efficaci e inclusive.
Le riflessioni esposte mostrano che, se da un lato il ruolo dei caregiver è sempre più riconosciuto e professionalizzato, dall’altro persiste un’importante ambivalenza: l’evoluzione verso una società della cura non ha portato con sé un adeguato sistema di supporto e protezione per chi svolge questo lavoro. La professionalizzazione della cura e la sua integrazione nel mercato del lavoro sono passi importanti, ma rischiano di rimanere insufficienti se non accompagnati da politiche che garantiscano diritti e tutele commisurate alla complessità e all’importanza di questo ruolo.
È essenziale, quindi, ripensare e ridefinire i modelli di welfare e di supporto istituzionale per rispondere alle esigenze di caregiver e assistiti. La creazione di politiche più flessibili, che includano misure di sostegno finanziario, congedi retribuiti e servizi di assistenza domiciliare, rappresenta una risposta concreta alla crescente domanda di aiuto. Inoltre, un approccio inclusivo che consideri le differenze socio-economiche e culturali può contribuire a rendere questi interventi più equi ed efficaci.
Infine, l’attenzione pubblica alla cura deve tradursi in una nuova concezione della società, in cui il lavoro di cura sia considerato non solo un obbligo privato, ma una responsabilità collettiva. Questo richiede un cambiamento culturale che superi le tradizionali divisioni di genere e favorisca una distribuzione più equa delle responsabilità di cura. Solo in questo modo la cura potrà essere veramente intesa come un “fatto sociale totale”, capace di rigenerare e consolidare il tessuto delle relazioni umane e di promuovere una conciliazione più armoniosa tra vita lavorativa e familiare.
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