1. Il contesto socio-economico e i primi tentativi definitori del caregiver informale
Il crescente interesse per la figura del caregiver informale (letteralmente il “prestatore di cura”) è motivato da un contesto socioculturale italiano, che attribuisce in larga parte alle famiglie il carico dell’attività assistenziale dei soggetti fragili e redistribuisce la funzione di cura, in maniera più o meno equilibrata, tra i membri dello stretto nucleo familiare.
Le indagini condotte dall’Istat, infatti, hanno rilevato come, dal 1998 al 2016, la quota di caregiver sia aumentata di oltre dieci punti percentuali, passando dal 22,8 al 33,12%, coinvolgendo quasi 17 milioni di individui nel 2016 (Istat 2022, 40). Inoltre, all’esito dell’approfondimento tematico in materia di conciliazione tra lavoro e famiglia, sempre l’Istat ha evidenziato come nel 2018 erano complessivamente 12 milioni 746 mila le persone tra i diciotto e i sessantaquattro anni (pari al 34,6% della popolazione nazionale) che si prendevano cura dei figli minori di 15 anni o di parenti malati, disabili o anziani. Si precisa, inoltre, che tra i soggetti occupati, quasi il 40% dei 18-64enni svolgeva anche attività di cura in ambito familiare (comunicato stampa https://www.istat.it/it/archivio/235619).
Gli esiti dei sondaggi su scala nazionale sono stati affiancati da un crescente interesse anche e soprattutto in ambito societario, dove le indagini svolte a partire dal 2013 hanno evidenziato che un lavoratore su quattro si prende cura di familiari non auto-sufficienti, e che ben l’80% supporta il proprio caro su base quotidiana. Tali risultati hanno mostrato chiaramente quale fosse il carico di cura e l’impatto sulla qualità della vita quando ci si trova ad affrontare la non autosufficienza, condizione che, per di più, oggi ha una durata media di ben dieci anni. Da considerare inoltre che l’impegno di cura di tali familiari si somma all’impegno verso i figli: il 66,6% dei rispondenti, infatti, ha almeno un figlio, spesso ancora in età scolare (Treu 2023).
Si noti come sia proprio dall’ambito lavorativo, come meglio si dirà nel prosieguo (cfr. § 6), che insorgono le rivendicazioni maggiori: da ultimo, nel gennaio 2024, la Corte di Cassazione ha proposto una domanda pregiudiziale alla Corte di Giustizia relativa alla legittimazione del caregiver familiare ‒ di minore gravemente disabile ‒ il quale deduceva di avere patito una discriminazione indiretta in ambito lavorativo come conseguenza dell’attività di assistenza da lui prestata, ad azionare la tutela antidiscriminatoria che sarebbe riconosciuta al medesimo disabile, ove quest’ultimo fosse il lavoratore, dalla Direttiva 2000/78/CE del Consiglio del 27 novembre 2000 (Zampieri 2024).
Alla luce dello scenario demografico ed occupazionale esposto, una prima qualificazione normativa viene formulata dall’Emilia-Romagna, che in forza della legge regionale n. 2 del 2014 (Art 2 c. 1), stabilisce che «Il caregiver familiare è la persona che volontariamente, in modo gratuito e responsabile, si prende cura nell’ambito del piano assistenziale individualizzato (di seguito denominato PAI) di una persona cara consenziente, in condizioni di non autosufficienza o comunque di necessità di ausilio di lunga durata, non in grado di prendersi cura di sé».
A livello nazionale, invece, in occasione della legge di bilancio del 2018 (articolo 1, commi 254-256, legge n. 205 del 2017), il comma 255 definisce il caregiver come «la persona che assiste e si prende cura del coniuge, dell’altra parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso o del convivente di fatto ai sensi della legge 20 maggio 2016, n. 76, di un familiare o di un affine entro il secondo grado, ovvero, nei soli casi indicati dall’articolo 33, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, di un familiare entro il terzo grado che, a causa di malattia, infermità o disabilità, anche croniche o degenerative, non sia autosufficiente e in grado di prendersi cura di sé, sia riconosciuto invalido in quanto bisognoso di assistenza globale e continua di lunga durata ai sensi dell’articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, o sia titolare di indennità di accompagnamento ai sensi della legge 11 febbraio 1980, n. 18».
L’esigenza definitoria della legge di bilancio è insorta in ragione della contestuale istituzione di un Fondo per il sostegno del titolo di cura e di assistenza del caregiver familiare, con una dotazione iniziale di 20 milioni di euro per ciascun anno del triennio 2018-2020, da ripartire alle Regioni per il sostegno di interventi legislativi volti a riconoscere il valore sociale ed economico di tale attività di cura non professionale.
Nel medesimo spettro si pone, da ultimo, la legge 23 marzo 2023 n. 33 delega al governo in materia di politiche in favore delle persone anziane, che ha sancito simili principi anche in relazione alla promozione e alla valorizzazione delle persone anziane mediante una molteplicità di iniziative dirette a garantirne l’assistenza.
2. L’attività di cura e di assistenza
In una prospettiva empirica, le attività svolte dal caregiver appaiono essenzialmente di tipo assistenziale, consistendo di solito nella cura quotidiana oppure occasionale e personale della persona con disabilità, anche, ma non solo, in ambito sanitario, e nell’ordinaria amministrazione del suo patrimonio, nel caso in cui non si manifesti necessaria la nomina di una figura istituzionale quale l’amministrazione di sostegno (Bugetti, Amministrazione di sostegno, 2024).
Le definizioni esposte, seppur riconducendo ai principi di spontaneità e di gratuità che definiscono di fatto l’attività del caregiver, non forniscono dettagli relativi alle specifiche attività di cura e di assistenza, ma quanto più si concentrano sul soggetto che riceve detta cura. Si richiama infatti la categoria della disabilità grave ed accertata ai sensi della legge n. 104/1992, al fine di individuare il soggetto fragile, in questo modo implicitamente escludendo dall’ambito di operazione del caregiver la mera vulnerabilità o la mancanza di autosufficienza temporanea o non accertata.
Si noti come nell’impianto codicistico originario le esigenze assistenziali della persona non autonoma vengono in rilievo solo indirettamente nella prescrizione di doveri solidaristici in capo ai familiari, come ad esempio nelle norme che sanciscono il dovere di assistenza materiale tra i coniugi e il dovere di mantenimento e di contribuzione ai bisogni della famiglia, il dovere di fornire gli alimenti ai parenti o agli affini che versino in stato di bisogno, il dovere di mantenimento dei genitori nei confronti dei figli, anche maggiorenni se non autosufficienti (Mengoni 1980).
Al di là dei riferimenti appena citati, il termine cura viene sovente riferito precipuamente all’ambito medico sanitario, inteso come la serie di attività dirette a salvaguardare la salute psico-fisica del soggetto e la liberazione dalla malattia. È evidente, infatti, come accanto alla mera assistenza materiale la persona debole sia portatrice di una domanda di relazioni interpersonali ‒ difficilmente scindibile da quella relativa al soddisfacimento di bisogni materiali ‒ e dunque di supporto psicologico, affettivo, morale (Bugetti, Verso… e oltre l’amministrazione di sostegno, 2024).
In quest’ultimo orizzonte di valorizzazione della prospettiva fattuale, appare porsi l’intervento legislativo spagnolo che, con la Ley n. 2 del 2021, riconosce forme di supporto della persona disabile ispirate alla valorizzazione della sua personalità e all’obiettivo di favorire nella massima misura possibile la sua permanenza nel contesto familiare. La disciplina modellata sul paradigma di un’assistenza preferibilmente familiare, che prescinde dalla necessità di una investitura formale, affianca alla persona con disabilità un guardador de hecho che spontaneamente individuato nella cerchia dei familiari, assiste e collabora con il soggetto fragile nell’assunzione delle decisioni (Al Mureden 2024).
3. La normativa regionale: il caregiver in ambito socio-sanitario
Seguendo l’esempio della regione Emilia Romagna, che per prima nel 2014 si è dotata di una specifica disciplina di promozione e assistenza della figura del caregiver, le iniziative legislative e finanziarie regionali si sono moltiplicate e ad oggi si possono menzionare tra le proposte di legge: nel 2017 la Regione Campania, nel novembre 2022 la Regione Lombardia, nel febbraio 2023 la Regione Calabria, nell’aprile 2023 la Regione Sardegna, nell’agosto 2023 la Regione Friuli Venezia Giulia. Tra i protocolli di intesa/delibere di indirizzo/promozione economica, si possono ricordare: nel luglio 2022, la Regione Puglia, dal 2020 ad oggi la Regione Lazio ha invece deliberato finanziamenti a sostegno dei caregiver.
Accomuna la maggior parte dei testi normativi, il riconoscimento del caregiver familiare quale componente della rete del welfare locale e per tale ragione gli assicurano il supporto e l’affiancamento necessari a sostenere la qualità dell’opera assistenziale prestata.
Volendo sintetizzare la struttura comune modellata dalle normative territoriali, al netto delle loro ‒ minime ‒ peculiarità, si potrebbe riassumere il ruolo ed il rilievo giuridico del caregiver, differenziando a seconda della condizione del paziente. Se si tratta infatti di un paziente capace di intendere e di volere e non sottoposto ad alcuna misura di protezione, il caregiver, sebbene privo di un ruolo specifico ed equiparato nei fatti ad un parente, potrà essere coinvolto nella relazione di cura. Allorché invece il paziente sia incapace di fatto e non sottoposto ad alcuna misura di sostegno, il caregiver è a rigore escluso da qualsivoglia ruolo nel prestare il trattamento sanitario, tutt’al più coinvolto nel processo di ricostruzione delle presunte volontà del paziente. Nell’ipotesi in cui il paziente sia sottoposto ad una misura di sostegno che preveda la sua sostituzione o assistenza in ambito sanitario, il caregiver non ha alcuna legittimazione. Infine, allorché il paziente incapace avesse redatto delle DAT e nominato un fiduciario, il caregiver non avrà titolo, ma ricorrendo alcune condizioni potrà essere nominato quale rappresentante sanitario.
Trattasi di apprezzabili tentativi di fornire riconoscimento e tutela alla figura del caregiver, specie nell’ambito che lo vede maggiormente coinvolto, id est quello della cura della persona debole, e dunque nella prospettiva di ritagliare specifici ambiti di intervento, anche nel segno del coordinamento con chi abbia un ruolo formalizzato nella stessa.
4. Gli accomodamenti ragionevoli e la tutela antidiscriminatoria per i caregiver
Anche sul piano più strettamente giuslavoristico si pone la necessità di prevedere un adeguato sistema di protezione per i lavoratori e le lavoratrici che si prendono cura in modo informale e gratuito di soggetti affetti da condizioni di disabilità (cosiddetti caregiver) (Zilli 2022, 121 ss.).
Proprio con riferimento alla nozione giuridica di caregiver di persone con disabilità, anche in seguito alle modifiche apportate dal d.lgs. n. 105 del 2022, non sembra intravedersi un reale cambiamento di passo.
Le previsioni destinate alla tutela dei soggetti che si fanno carico della cura e dell’assistenza di un congiunto disabile, infatti, sono sparse in differenti testi normativi e anche in questo caso non è semplice il raccordo interpretativo delle disposizioni. Così è accaduto ad esempio per gli istituti disciplinati con gli artt. 2 bis, e 33, l. n. 104 del 92, gli artt. 33 e 42 del d.lgs. n. 151 del 2001, nonché di cui all’art. 18, comma 3-bis, l. n. 81 del 2017 (lavoro agile), e art. 8 del d.lgs. n. 81 del 2015 (part-time).
Il tema dei caregiver in generale, e soprattutto dei diritti ad essi riconosciuti anche attraverso accomodamenti ragionevoli, rimane controverso. In particolare, in un’ottica di bilanciamento, la questione si pone al centro dell’ontologico conflitto tra le esigenze di vita delle persone che lavorano e le ragioni di natura produttiva ed organizzativa delle aziende.
Uno degli snodi più dibattuti in dottrina e, sempre più spesso, anche in giurisprudenza, riguarda la possibilità di estendere l’obbligo di adottare accomodamenti ragionevoli (Cass. 5 giugno 2024, n. 15723, in OneLegale, conforme all’orientamento della Corte giust., 18 gennaio 2018, causa C- 270/16, Ruiz Conejero) anche nei confronti del caregiver (Trib. Bari, 26 giugno 2018, in Arg. dir. lav., 2018, 1647, con nota di N. Rossi, Assistenza al familiare disabile e obbligo datoriale di adottare “ragionevoli accomodamenti”).
Certamente, un punto di riferimento nell’elaborazione dei diritti di coloro che prestano assistenza e cura a un disabile è rappresentato dall’orientamento della Corte di giustizia che ha configurato la cosiddetta “discriminazione per associazione” (Corte giust. 17 luglio 2008, causa C-303/06, Coleman, cit.; Trib. Catanzaro 9 dicembre 2023, in https://www.italianequalitynetwork.it/archivio/?id=106).
In questa prospettiva, costituisce discriminazione indiretta il rifiuto dell’azienda di ricercare un accomodamento sull’orario di lavoro funzionale ai reali bisogni della lavoratrice, perché l’adibizione della medesima ad un orario apparentemente neutro mette il genitore di un figlio con disabilità in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altri lavoratori.
Il principio della parità di trattamento che la direttiva n. 2000/78 mira a garantire non è limitato alle persone esse stesse disabili, ma si estende anche alla persona che ha in cura il soggetto disabile. In buona sostanza, la Corte afferma che la protezione accordata dalla suddetta direttiva vada riconosciuta non solo con riguardo al soggetto cui attiene il fattore di rischio (cosiddetta vittima immediata), ma anche nei confronti della persona associata al soggetto che detiene detto fattore, in quanto su quest’ultima gravano i relativi compiti di assistenza.
Si accoglie quindi una nozione allargata del campo soggettivo di applicazione della direttiva n. 2000/78 (Par. 36, sentenza Coleman. Per una prima applicazione di questo orientamento nella giurisprudenza di merito, cfr. Trib. Pavia, ord. 19 settembre 2009), per consentire in via mediata al disabile stesso un adeguato apparato di tutele, che ne consentano l’inserimento e la piena integrazione sociale (Griffo 2023, 8, 55 ss.).
Obiettivo che non potrebbe essere garantito senza l’estensione delle tutele anche al caregiver. Anche per questa ragione, la nozione di discriminazione per associazione elaborata in sede euro-unitaria (oltre a Corte giust., 17 luglio 2008, causa C-303/06, Coleman, cit., v. anche Corte giust., 16 luglio 2015, causa C‑83/14, Chez, in federalismi.it, 15) sembra entrata a far parte a pieno titolo delle elaborazioni della giurisprudenza di legittimità (Garofalo 2023, 9).
Ebbene «sono tutte le discriminazioni connesse alla disabilità, sulla base dunque di un nesso di causalità oggettivo, a recare danno alla coesione sociale e non solo quelle che colpiscono in modo diretto i disabili» (Barbera, Borelli 2022, 10). Peraltro, a seguito della modifica operata all’art. 25, comma 2 bis, d.lgs. n. 198 del 2006 (c.d. Codice delle pari opportunità), dall’art. 2, comma 1, della l. n. 162 del 2021, secondo cui «costituisce discriminazione, ai sensi del presente titolo, ogni trattamento o modifica dell’organizzazione delle condizioni e dei tempi di lavoro che (…) , in ragione delle esigenze di cura personale o familiare, dello stato di gravidanza nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell’esercizio dei relativi diritti, pone o può porre il lavoratore in almeno una delle seguenti condizioni: a) posizione di svantaggio rispetto alla generalità degli altri lavoratori; b) limitazione delle opportunità di partecipazione alla vita o alle scelte aziendali; c) limitazione dell’accesso ai meccanismi di avanzamento e di progressione nella carriera», può desumersi che anche le ragioni di cura e di assistenza familiare rientrino tra i fattori di rischio (Izzi 2005, spec. 42, nota 36, sull’origine della locuzione “fattori di rischio”; Gabriele 2024).
Questa lettura è confermata anche da un recente orientamento della Suprema Corte, secondo cui il divieto di discriminazione diretta non è limitato alle sole persone che siano esse stesse disabili (Cass., ord. 4 aprile 2024, n. 13934, in www.wikilabour.it). Conseguentemente qualora un datore di lavoro tratti un lavoratore che non sia esso stesso disabile, in modo sfavorevole rispetto al modo in cui è, è stato o sarebbe trattato un altro lavoratore in una situazione analoga, e sia provato che il trattamento sfavorevole è causato dalle attività di cura e di assistenza nei confronti di un familiare, un siffatto trattamento viola il divieto di discriminazione diretta.
5. La prospettiva interpretativa de jure condito e de jure condendo
Ulteriori margini di riflessione provengono dalla recente modifica apportata dal Decreto Disabilità al testo della l. n. 104 del 1992.
Senza dubbio con tale intervento legislativo avrebbe potuto cogliersi l’occasione per dirimere definitivamente il nodo della tutela dei caregiver. Tuttavia, considerando che tale opportunità non è stata colta, la questione va risolta attraverso la mediazione giudiziale.
Sul piano strettamente normativo, potrebbe aprirsi uno spiraglio interpretativo con la previsione di cui all’art. 24, comma 4, lett. c), secondo cui «entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto, le regioni, al fine della predisposizione del progetto di vita, programmano e stabiliscono le modalità di riordino e unificazione, all’interno delle unità di valutazione multidimensionale di cui al comma 1, delle attività e dei compiti svolti dalle unità di valutazione multidimensionale operanti per (…) c) l’individuazione delle misure di sostegno ai caregiver». Si tratterà con molta probabilità del riferimento a misure di sostegno di natura economica, sulla falsariga del cosiddetto “bonus caregiver”.
De jure condendo, va segnalato che, presso la Camera dei deputati, risultano attualmente incardinate diverse proposte di legge di iniziativa parlamentare[1] finalizzate ad introdurre una disciplina per il riconoscimento della figura del caregiver familiare ed il sostegno dell’attività di cura ed assistenza delle persone più fragili.
In una prospettiva internazionale, inoltre, è significativa la pronuncia con cui il Comitato ONU sui diritti delle persone con disabilità ha accolto il ricorso di una caregiver familiare italiana, con una decisione del 3 ottobre 2022.
Il Comitato ha ritenuto che «l’incapacità dell’Italia di fornire servizi di sostegno individualizzati a una famiglia di persone con disabilità è discriminatoria e viola i loro diritti alla vita familiare, a vivere in modo indipendente e ad avere un tenore di vita adeguato».
La suddetta decisione ha messo in evidenza, con precipuo riferimento all’ordinamento italiano, «le gravi conseguenze sulle persone con disabilità assistite che derivano dal mancato riconoscimento della figura del caregiver e di misure di protezione sociale effettive a suo favore (quali l’accesso a incentivi, fondi e al sistema pensionistico, la flessibilità degli orari di lavoro e nelle vicinanze della propria abitazione)». Secondo il Comitato, infatti, il riconoscimento e la tutela del caregiver familiare nella legislazione nazionale rappresentano una precondizione essenziale alla realizzazione dei diritti della persona con disabilità.
Proprio a causa di questa lacuna dell’ordinamento interno, esso ha riscontrato una violazione da parte dell’Italia degli obblighi previsti dagli artt. 19 (Vita indipendente ed inclusione nella società del disabile), 23 (Rispetto del domicilio e della famiglia) e 28, comma 2, lett. c), (Sul diritto ad adeguati livelli di vita e protezione sociale), in combinato disposto con l’art. 5 (Uguaglianza e non discriminazione) della Convenzione sui diritti delle persone con disabilità, formulando delle specifiche raccomandazioni all’Italia, inerenti sia la situazione della parte ricorrente sia, più in generale, la condizione di tutte le persone con disabilità e i loro caregiver.
6. Il ruolo decisivo del dialogo tra le Alte Corti
Da ultimo, si segnala che è pendente un’istanza pregiudiziale con cui la Cassazione, con l’ordinanza interlocutoria n. 1788 del 17 gennaio 2024, ha rimesso alla Corte di giustizia una questione interpretativa relativa proprio all’ambito di applicazione della disciplina prevista dalla dir. 2000/78/CE (Cass. 17 gennaio 2024, n. 1788, su cui Biondo 2024, spec. 251).
In particolare, i giudici del Supremo Collegio hanno richiesto alla Corte lussemburghese di pronunciarsi, oltre che sui confini della definizione di caregiver, sulla possibilità dello stesso di beneficiare della tutela antidiscriminatoria in caso di discriminazione indiretta causata dall’attività di assistenza prestata, nonché sulla configurabilità in capo al datore di lavoro dell’obbligo di adottare accomodamenti ragionevoli anche nei confronti di questa categoria di soggetti.
In linea di massima, si ritiene che l’accoglimento di un’interpretazione restrittiva da parte della giurisprudenza euro-unitaria sarebbe in linea generale da escludere.
Proprio attraverso il principio dell’effetto utile della Direttiva 78/2000/CE, anche alla luce della Convenzione ONU sulla disabilità (che non distingue tra discriminazione diretta e indiretta ai fini dell’applicazione dell’art. 2, adottando un criterio omnicomprensivo di discriminazione), nonché sulla scorta delle emergenti ragioni di tutela della cura, potrebbero esserci fondate ragioni per ritenere che la protezione contro le discriminazioni dirette e indirette, e la predisposizione di accomodamenti ragionevoli, possano essere estesi anche al caregiver familiare (Andretta 2024).
È presumibile che la Corte di giustizia rinvii la soluzione alla Corte nazionale, segnalando implicitamente all’Italia la mancanza di chiarezza complessiva del sistema di tutele nei confronti dei caregiver anche a fronte di un arretramento delle tutele offerte dal complessivo sistema dell’assistenza sociale, sulla falsariga di quanto già fatto dal Comitato ONU nel caso Bellini.
In base al principio di diritto emergente dalla suddetta decisione, infatti, negare il riconoscimento giuridico e le varie forme di assistenza al caregiver, equivale ad impedire alla persona con disabilità di autodeterminarsi, violando il diritto riconosciuto dalla Convenzione alla persona con disabilità a un’adeguata protezione sociale e ai livelli adatti di protezione economica.
Per altro verso va altresì segnalato un orientamento della giurisprudenza in controtendenza rispetto al trend in favore di un’estensione delle tutele per i caregiver.
Di recente, infatti, la Corte di cassazione, in relazione alla richiesta di trasferimento di una dipendente per poter assistere il padre convivente portatore di handicap grave, ha ritenuto che il diritto a scegliere la sede di lavoro più vicina al domicilio della persona disabile da assistere non sia considerato assoluto e illimitato, ma deve essere bilanciato con gli interessi datoriali in conflitto nel caso concreto[2].
Al riguardo i Supremi Giudici hanno stabilito e precisato che in materia di assistenza ai portatori di handicap, la l. n. 104 del 1992, art. 33, comma 5, circa «il diritto del lavoratore che assiste un disabile in situazione di gravità di scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio, va interpretato nel senso che tale diritto può essere esercitato (…) in coerenza con la funzione solidaristica della disciplina e con le esigenze di tutela e garanzia dei diritti del soggetto portatore di handicap previsti dalla Costituzione e dalla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità» (Cass. 1° marzo 2019, n. 6150, in OneLegale).
Il divieto di trasferimento del lavoratore che assiste un familiare invalido è da intendersi come limite esterno al potere datoriale, prevalente nei confronti delle ordinarie esigenze tecniche, organizzative e produttive, salva l’insuscettibilità di essere le stesse diversamente soddisfatte (Cass. 11 novembre 2022, n. 33429, in OneLegale).
Resta quindi aperto il varco per il riconoscimento in astratto delle esigenze datoriali, da valutare di volta in volta, considerando la fattispecie concreta e il costo economico e organizzativo da accollare al datore di lavoro per soddisfare le esigenze delle persone caregiver.
Questa valutazione, in quanto parametrata a esigenze mutevoli e specifiche dei diversi contesti produttivi, non può che essere affidata al giudizio dell’interprete, senza quindi escludere il rischio di un soggettivismo giudiziario.
La questione della tutela dei caregiver che lavorano, pertanto, è ancora densa di nodi irrisolti, molti dei quali non è possibile accennare in questa sede per esigenze di economia del testo (amplius sia consentito il rinvio a Gabriele 2024).
Di certo, la frammentarietà e la scarsa omogeneità dei testi normativi nuoce a una visione unitaria e coerente del sistema e all’effettività delle tutele messe in campo.
Un siffatto approccio del decisore politico, confermato anche dalla recente riforma sulla disabilità, tradisce la scarsa consapevolezza del rilievo che tali questioni assumono nella “vita” delle persone con carichi di cura e di assistenza.
Note
[1] Cfr. Atto Camera, n. 114 (Panizzut ed altri): “Disposizioni e delega al Governo per la disciplina della figura del caregiver familiare e per la promozione e il sostegno dell’attività di assistenza e di cura da esso svolta”, Esame in Commissione (iniziato il 14 febbraio 2024). Si segnalano anche le numerose proposte di legge della XIX Legislatura sul riconoscimento della figura del caregiver attualmente depositate e di cui poter avviare l’esame, rinvenibili al link https://temi.camera.it/leg19/post/normativa-vigente-e-proposte-di-legge-sulla-figura-del-caregiver-familiare.html.
[2] Cass., ord. 20 luglio 2023, n. 21627, conforme a Corte App. Reggio Calabria 20 giugno 2019, n. 567, entrambe in OneLegale, secondo cui nel caso di specie, sebbene la sede di provenienza della lavoratrice risultasse parzialmente scoperta, le dimensioni dell’organico aziendale erano tali da escludere che il trasferimento di un’unica risorsa potesse produrre un danno consistente all’organizzazione dell’impresa.
* Il contributo è frutto di una riflessione comune delle Autrici. Tuttavia, i §§ 1, 2, 3 sono da ricondurre a Diletta Giunchedi, mentre i §§ da 4 a 6 sono da ricondurre ad Alessia Gabriele.
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