1. Introduzione: il legame fra povertà educativa e condizioni familiari
La povertà educativa costituisce una forma profonda e strutturale di disuguaglianza sociale, capace di autoriprodursi attraverso le generazioni. Non si tratta soltanto della mancanza di accesso all’istruzione formale, ma di un deficit più ampio di competenze di base, di opportunità culturali, risorse simboliche e strumenti cognitivi necessari a partecipare pienamente alla vita sociale. La povertà educativa si configura per questo come un fenomeno strutturale, capace di riprodursi in linea intergenerazionale attraverso meccanismi complessi che intrecciano capitale culturale, calcolo strategico e condizioni contestuali. Diversamente dalla mera povertà economica, la povertà educativa implica una deprivazione di opportunità di apprendimento, sia formali che informali, che limita l’accesso ai saperi, alla partecipazione culturale e, in prospettiva, alla piena cittadinanza.
In tal senso, la povertà educativa si configura come un fenomeno multidimensionale, che non può essere ridotto al solo mancato completamento degli studi. Essa si manifesta attraverso almeno tre dimensioni strettamente interconnesse (Giancola e Salmieri 2023). La prima riguarda il livello di istruzione formale: non aver conseguito almeno il diploma di scuola secondaria superiore rappresenta un importante indicatore di vulnerabilità, segnalando un’esposizione limitata a esperienze di apprendimento strutturato e qualificato. La seconda dimensione è relativa alle competenze fondamentali – in particolare lettura, scrittura, calcolo e capacità di risoluzione di problemi – che costituiscono il nucleo dell’alfabetizzazione funzionale. Tali competenze, tuttavia, non dipendono esclusivamente dal titolo di studio acquisito: se non vengono esercitate nel quotidiano, nel lavoro o nel tempo libero, tendono a indebolirsi nel tempo. Non è raro, ad esempio, che anche individui diplomati manifestino difficoltà nella comprensione di testi complessi o nel risolvere problemi logico-matematici, soprattutto se privi di contesti che ne richiedano l’uso attivo. Infine, la terza dimensione, meno visibile ma altrettanto significativa, riguarda l’atteggiamento verso l’apprendimento e la cultura. La povertà educativa si esprime anche nella scarsa motivazione a conoscere, nella bassa propensione alla formazione continua e nella limitata partecipazione alla vita culturale. In questa prospettiva, la cultura non è solo un sapere formalizzato, ma un insieme di pratiche, interessi e frequentazioni che alimentano la crescita personale e sociale. È attraverso queste esperienze extra-scolastiche – come la lettura, la partecipazione ad attività culturali o l’interazione con ambienti stimolanti – che si consolidano e si arricchiscono le competenze apprese nei percorsi formali, creando le condizioni per un apprendimento duraturo e per una piena cittadinanza attiva.
2. Perché la povertà educativa è un fenomeno intergenerazionale
La povertà educativa tende a riprodursi da una generazione all’altra, seguendo dinamiche strutturali che coinvolgono sia la sfera familiare che quelle relazionali e sociali, nonché i contesti territoriali. La sua trasmissione intergenerazionale avviene lungo traiettorie segnate da tre ordini di fattori: il peso del capitale culturale familiare, le valutazioni razionali rispetto ai percorsi di istruzione, e la struttura dei contesti socio-relazionali e territoriali.
Riprendendo un notevole sedimentato di letteratura teorica ed empirica, possiamo affermare che la prima traiettoria esplicativa riguarda la forza di inerzia del capitale culturale formalizzato a livello familiare. Seguendo l’impianto teorico di Pierre Bourdieu, l’istruzione dei genitori agisce come una proxy dell’habitus, ovvero di quell’insieme di disposizioni incorporate che orientano, spesso inconsapevolmente, il comportamento degli individui. La trasmissione del capitale culturale non si limita all’eredità di titoli scolastici, ma si esprime anche in termini di atteggiamenti verso l’istruzione, aspettative educative, linguaggi, stili cognitivi e pratiche quotidiane che modellano precocemente l’approccio dei figli verso la scuola. In tal senso, il capitale culturale agisce non solo come risorsa simbolica, ma anche come vettore di disuguaglianza reale negli apprendimenti, confermando l’ipotesi secondo cui il rendimento scolastico è fortemente condizionato dall’origine sociale, già nei primi anni di scolarizzazione.
Una seconda traiettoria è riconducibile a una razionalità strumentale (e limitata) legata alla percezione del rapporto costi-benefici dell’investimento educativo. Per le famiglie e i giovani delle classi popolari, l’accesso a percorsi di istruzione prolungata (come l’università) è spesso percepito come un investimento incerto, costoso e dai ritorni economici differiti nel tempo. Anche in presenza di buoni risultati scolastici, il rischio associato a un’istruzione superiore si traduce in una propensione al disinvestimento. Al contrario, le famiglie delle classi medie e superiori manifestano una forte avversione al rischio di mobilità discendente — una dinamica descritta dalla teoria della relative risk aversion — che le spinge a sostenere con forza il percorso formativo dei figli, anche quando i risultati scolastici non sono eccellenti (Giancola e Rizzi 2024). La scuola, in questo quadro, si configura come strumento di riproduzione più che di mobilità sociale, e l’accesso differenziale all’istruzione superiore contribuisce alla stabilizzazione delle disuguaglianze. Possiamo quindi schematicamente dire che per chi proviene da contesti svantaggiati, proseguire negli studi oltre l’obbligo scolastico può apparire rischioso, soprattutto in assenza di garanzie di un ritorno economico immediato. Al contrario, le famiglie più avvantaggiate reagiscono al timore di una possibile mobilità discendente investendo risorse materiali e simboliche nell’educazione dei figli, anche quando i risultati scolastici non sono brillanti.
Infine, non può essere trascurato l’effetto dei contesti, sia in termini di reti socio-relazionali che di offerta territoriale. I giovani tendono a frequentare ambienti omofili, in cui la prossimità sociale e culturale prevale sulla diversità. In linea con quanto suggerito da grandi autori del passato come Simmel o, più recentemente, da Randall Collins (Salmieri e Locicero 2024), l’interazione quotidiana si svolge prevalentemente all’interno di network che rafforzano l’identificazione con il proprio gruppo di origine, limitando l’esposizione a modelli alternativi. Inoltre, le disuguaglianze territoriali influiscono sulla disponibilità di risorse culturali e formative: la densità di biblioteche, centri culturali, spazi di apprendimento non formale e opportunità extracurricolari varia sensibilmente tra territori, contribuendo a consolidare la distanza tra chi ha accesso a tali risorse e chi ne è escluso. In tal senso, le reti relazionali tendono a essere omogenee dal punto di vista socio-culturale, riducendo l’esposizione a modelli alternativi, mentre le opportunità educative offerte dai territori – biblioteche, centri culturali, associazioni – sono distribuite in modo diseguale. In questo intreccio di fattori, la povertà educativa si consolida e si tramanda, non come destino individuale, ma come esito probabile di un insieme di condizioni strutturali che si rafforzano nel tempo.
L’insieme di queste prospettive mostra quanto la persistenza della povertà educativa in linea intergenerazionale sia riconducibile a un intreccio di fattori strutturali e agentivi. L’azione individuale e familiare è profondamente condizionata da disposizioni ereditate, calcoli razionali situati e contesti relazionali e territoriali differenziati. Per contrastare efficacemente questo fenomeno, è dunque necessario un approccio integrato che riconosca la natura multidimensionale della disuguaglianza educativa.
Naturalmente, i processi di trasmissione intergenerazionale della povertà educativa non vanno letti in chiave deterministica. Sebbene i vincoli strutturali pesino fortemente sugli esiti scolastici e formativi, esistono margini di deviazione, possibilità di rottura e traiettorie non previste. Diverse ricerche documentano la presenza di studenti che riescono a superare le aspettative negative associate alla loro origine sociale. L’OCSE li definisce resilient students (2011): ragazze e ragazzi che, pur provenendo da contesti svantaggiati, raggiungono livelli di competenza pari o superiori alla media. In ambito italiano, studi recenti hanno messo in luce percorsi inattesi di successo formativo (Bonanni e Giancola 2025) e casi di “devianza positiva” in cui studenti riescono ad avere risultato migliori di quanto i fattori ascrittivi – come il livello di istruzione dei genitori o la condizione occupazionale familiare – lascerebbero immaginare (Bonanni e Moreschini 2024). Questi percorsi confermano che la struttura non esaurisce la spiegazione dei destini scolastici, e che l’azione individuale, le risorse relazionali e le opportunità che si aprono lungo il percorso possono contribuire a spezzare la continuità della povertà educativa. Tuttavia, la stessa esistenza di questi casi dimostra quanto sia eccezionale e accidentale il superamento degli ostacoli, e quanto siano necessari interventi sistemici per rendere quelle traiettorie meno rare e meno improbabili.
3. La povertà educativa in età adulta: una condizione che si trasmette e si riproduce
A questo punto è importante sottolineare che la povertà educativa non riguarda esclusivamente bambini e ragazzi in età scolastica, ma rappresenta una condizione diffusa anche nel mondo adulto. Eppure, questa dimensione rimane spesso ai margini dell’attenzione pubblica e delle politiche, come se l’apprendimento si esaurisse con il termine della scuola o dell’università. Nella percezione comune, il titolo di studio viene visto come un traguardo definitivo, mentre in realtà le competenze di base – come la lettura, la scrittura, il calcolo, la capacità di orientarsi tra le informazioni – necessitano di essere esercitate, aggiornate e coltivate nel tempo. Proprio come la povertà economica si traduce in mancanza di risorse materiali, la povertà educativa in età adulta implica una carenza di strumenti per comprendere, interpretare e affrontare la complessità della vita quotidiana, rendendo le persone più dipendenti dagli altri e più vulnerabili di fronte al cambiamento. In questa prospettiva, la cultura può essere intesa come una vera e propria “cassetta degli attrezzi” (Swidler 1986), fatta di conoscenze, linguaggi, pratiche e riferimenti che devono essere continuamente mobilitati per orientarsi in un mondo in trasformazione.
Molti adulti si trovano invece a sperimentare un progressivo impoverimento delle proprie risorse cognitive e culturali, che si traduce in difficoltà nella comprensione di testi articolati, nella capacità di valutare criticamente le informazioni, nell’accesso a opportunità di crescita personale o lavorativa. Non si tratta solo del titolo di studio posseduto, ma della postura assunta nei confronti della conoscenza: l’interesse, la curiosità, la disponibilità ad apprendere nel corso della vita rappresentano elementi centrali per contrastare il declino delle competenze. Quando questa disponibilità è assente o limitata, si crea un circolo vizioso in cui povertà educativa e povertà economica si rafforzano reciprocamente: la mancanza di risorse culturali restringe il ventaglio delle opportunità occupazionali e sociali, e la precarietà economica riduce ulteriormente l’accesso a contesti educativi formali e informali. Si produce così una condizione di doppia vulnerabilità, che non solo colpisce l’individuo, ma tende a riprodursi nel tempo, passando dai genitori ai figli. È infatti importante considerare che la povertà educativa in età adulta si configura non solo come una condizione individuale, ma come un fenomeno che coinvolge e trasforma la dimensione familiare. Le competenze e le risorse culturali degli adulti, e in particolare dei genitori, influenzano profondamente la socializzazione dei figli, modellando le opportunità formative e di vita a loro disposizione. Quando gli adulti si trovano in uno stato di povertà educativa, la capacità di supportare, stimolare e orientare i percorsi di apprendimento dei figli si riduce significativamente, aumentando il rischio che anche le nuove generazioni crescano in condizioni di svantaggio educativo. In questo senso, la povertà educativa si riproduce e si intreccia con le dinamiche familiari, accentuando le disuguaglianze e compromettendo la possibilità di interrompere il circolo vizioso tra svantaggio culturale, sociale ed economico. In questo processo, un ruolo cruciale è giocato da quello che la letteratura definisce “effetto San Matteo” (Stanovich, 2009): chi possiede già un buon livello di istruzione e competenze è maggiormente in grado di cogliere le opportunità di apprendimento continuo e crescita culturale; al contrario, chi parte da una posizione di svantaggio rischia di rimanere escluso anche quando le occasioni esistono. In questo modo, la povertà educativa si accumula e si cristallizza, diventando una condizione ereditaria.
4. La necessità di risposte continuative e integrate
La povertà educativa, dunque, non è un evento isolato né una semplice fotografia di un momento della vita, ma un processo dinamico che si costruisce nel tempo e si trasmette tra le generazioni. Si manifesta come un meccanismo circolare e cumulativo, in cui piccoli svantaggi iniziali, spesso già evidenti nell’infanzia, seguendo un approccio di crescita e accumulazione. Questo processo, che definiamo “bias sistematico” (Giancola e Salmieri 2023), implica che anche piccoli svantaggi iniziali, spesso legati a fattori sociali o familiari o contestuali, vengono progressivamente amplificati nel corso del tempo a causa della struttura stessa dei contesti educativi e sociali, che tendono a favorire chi è già avvantaggiato e a penalizzare chi parte da posizioni di svantaggio. L’effetto a catena che si mette in moto produce la tendenza delle disuguaglianze a consolidarsi e moltiplicarsi lungo l’intero corso di vita, restringendo progressivamente l’accesso alle opportunità formative, culturali e professionali. In questo senso, la povertà educativa non si limita a riflettere le disuguaglianze esistenti: le approfondisce, le struttura, le rende persistenti. Interrompere questo ciclo richiede quindi un approccio lungo tutto l’arco della vita, capace di riconoscere e contrastare l’accumulo degli svantaggi, promuovendo condizioni che favoriscano la mobilità culturale e sociale. Per raggiungere questi obiettivi, è essenziale quindi adottare politiche multisettoriali che coinvolgano in modo coordinato e integrato diversi attori – istituzionali, educativi, sociali e civici – garantendo al contempo continuità nel tempo. Solo un intervento sistemico e sostenibile, in grado di connettere e rafforzare le azioni su più fronti, può affrontare con efficacia le radici complesse della povertà educativa. Una non adeguata conciliazione tra vita familiare e lavorativa implica che i genitori incontrino difficoltà nel bilanciare gli impegni professionali con le responsabilità familiari. Nelle famiglie con redditi bassi o lavori precari, che spesso non possono permettersi servizi di supporto come babysitter, doposcuola o attività educative a pagamento, ciò comporta una difficoltà ulteriore, che si traduce in disuguaglianze aggiuntive. Laddove i genitori non riescano a essere presenti o coinvolti nella vita dei figli – per mancanza di tempo, stanchezza o stress – i bambini rischiano di non ricevere il sostegno emotivo, cognitivo ed educativo di cui avrebbero bisogno. Possono, ad esempio, incontrare difficoltà nello svolgimento dei compiti, non partecipare ad attività culturali o formative, o non sviluppare competenze socio-relazionali fondamentali. Tutto questo contribuisce alla riproduzione della povertà educativa. Una cattiva conciliazione dei tempi di lavoro e di vita può dunque aggravare le disuguaglianze educative, riprodotte sia per via intergenerazionale sia in relazione al contesto socio-economico, culturale e relazionale in cui i bambini crescono.
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