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Conciliazione vita-lavoro e contrasto alla povertà: un binomio strategico per una società più equa

1. Introduzione

Le politiche di conciliazione vita-lavoro sono una leva strategica per promuovere una società più equa e inclusiva. In un contesto, come quello italiano, segnato da persistenti diseguaglianze di genere, queste politiche assumono infatti un ruolo cruciale nel sostegno all’occupazione femminile e nella prevenzione della vulnerabilità economica e sociale che si trasmette di generazione in generazione.

L’obiettivo di questo lavoro è analizzare l’interrelazione tra la debolezza delle misure di conciliazione, la povertà lavorativa e la povertà educativa, evidenziando come interventi mirati ad alleviare gli oneri di cura possano produrre effetti moltiplicatori in termini di inclusione e sviluppo.

Il contributo si articola in tre sezioni: la prima esamina l’impatto della conciliazione sull’occupazione femminile; la seconda approfondisce il legame tra lavoro povero e carichi di cura; la terza evidenzia il ruolo dei servizi educativi nell’ottica dell’investimento sociale, con particolare attenzione alla prevenzione della povertà educativa.

2. Conciliazione vita-lavoro e occupazione femminile

Nel contesto italiano, dove gli oneri di cura ricadono in larga parte sulle donne[1], la scarsità o poca efficacia di strumenti di conciliazione limita fortemente l’occupazione femminile. Nel 2023, sono occupate il 52,5% delle donne e il 70,4% degli uomini, con un divario di genere di quasi 18 punti percentuali. Tuttavia, se si guarda al ruolo giocato in famiglia e alla presenza o assenza di figli i divari aumentano.

Il 69,3% delle donne single senza figli è occupato, una percentuale che si mantiene elevata anche tra le madri sole (62,9%), ma che si riduce al 57,2% nel caso delle madri in coppia; oltre 12 punti percentuali in meno rispetto alle donne single. Tra gli uomini, invece, le differenze legate al ruolo familiare sono decisamente meno marcate. Il tasso di occupazione dei single supera il 77%, mentre arriva all’86,3% per i padri in coppia; una quota che supera di quasi 30 punti percentuali quella delle madri in coppia.

Considerando le madri inattive, il 62,2% non è alla ricerca di un impiego né è disponibile a lavorare, principalmente per motivi familiari. Questi includono la cura dei figli o l’assistenza a persone anziane o non autosufficienti. Una motivazione che è invece indicata solo dal 4,8% dei padri inattivi, evidenziando un marcato squilibrio nella distribuzione dei carichi familiari tra i generi (Istat e Cnel 2025).

Oltre ad alimentare squilibri e iniquità di genere, la scarsità o poca efficacia di adeguate politiche di conciliazione impatta negativamente sull’economia del Paese. La letteratura è infatti concorde nel riconoscere un nesso virtuoso fra queste politiche e la crescita economica, riconducibile in particolare a due principali fattori.

Il primo riguarda il contributo che una maggiore partecipazione femminile al mercato del lavoro può apportare in termini di produttività, grazie all’ampliamento del bacino di competenze e talenti disponibili. Tale dinamica è particolarmente rilevante nei settori tradizionalmente a predominanza maschile (Fielden et al. 2000; Balcita et al. 2002).

Il secondo elemento attiene alla capacità dell’occupazione femminile di stimolare la domanda di servizi, con conseguenti effetti positivi sulla creazione di nuovi posti di lavoro (Ferrera, 2008). Questa domanda è a sua volta alimentata da processi di “defamilizzazione” delle responsabilità di cura, che implicano un maggiore ricorso ai servizi formali, ad esempio nel caso della prima infanzia (Saraceno 2011).

Le analisi del Parlamento europeo e dell’Istituto Europeo per l’Uguaglianza di Genere (EIGE) sottolineano il potenziale moltiplicatore della parità di genere sull’economia europea. Secondo il Parlamento europeo (2023), la parità salariale potrebbe generare un aumento annuo del PIL pari a circa 35 miliardi di euro. Parallelamente, le stime dell’EIGE (2017) indicano che un miglioramento complessivo in materia di equità di genere potrebbe tradursi in un aumento del PIL pro capite fino al 2% entro il 2030 e fino al 10% entro il 2050, con un impatto economico complessivo stimato tra 1,95 e 3,15 miliardi di euro entro la medesima scadenza.

3. Conciliazione e lavoro povero

La mancanza di efficaci politiche di conciliazione alimenta anche la povertà lavorativa. Si trovano in questa condizione coloro che, pur avendo un impiego, non riescono a garantire un tenore di vita dignitoso a sé e alla propria famiglia. In particolare, l’Eurostat definisce povero il lavoratore (“working poor” o “in-work poor”) di età compresa tra i 18 e i 64 anni che, pur lavorando almeno sei mesi durante l’anno, vive in una famiglia il cui reddito disponibile equivalente è inferiore al 60% del reddito equivalente mediano[2].

Il lavoro povero, che interessa in modo particolare le donne con responsabilità di cura, è strettamente connesso alla segmentazione del mercato del lavoro, ovvero alla presenza di un “settore primario” caratterizzato da impieghi stabili, ben retribuiti e che prevedono avanzamenti di carriera e un “settore secondario” in cui prevalgono lavori mal pagati, con poche o nulle prospettive di crescita e con minori tutele (Eurofound 2019).

In assenza di servizi, chi ha carichi di cura può essere spinto ad accettare lavori part-time o con orari flessibili ma questi lavori sono spesso meno retribuiti, instabili e privi di tutele (Inps 2024a; 2024b). Non è un caso, dunque, che le donne siano sovrarappresentate nei contratti part-time, temporanei e/o intermittenti.

Nel terzo trimestre 2024, sette uomini su dieci possono contare su una posizione lavorativa standard (ovvero sono dipendenti a tempo indeterminato o hanno un’attività autonoma con dipendenti), fra le donne questa condizione si riscontra in poco più della metà dei casi (53,9%).

Specularmente, quasi un quarto delle donne occupate (23,9%, pari a 2 milioni e mezzo in termini assoluti), si trova in una condizione lavorativa caratterizzata da elementi di vulnerabilità (ad esempio perché è dipendente a tempo determinato, o impiegata part-time in modo involontario)[3], a fronte del 13,8% degli uomini. In particolare, il 19,9% delle lavoratrici sperimenta una sola forma di vulnerabilità, mentre un ulteriore 4% si trova in una condizione multipla di vulnerabilità, combinando un contratto a termine o di collaborazione con il part-time involontario. Tra gli uomini, queste condizioni riguardano rispettivamente l’11,9% e l’1,8% (Istat e Cnel 2025).

Nel lungo periodo, tale fenomeno produce effetti rilevanti sulla condizione delle donne. Da un lato, l’inserimento nel settore secondario del mercato del lavoro tende a consolidarsi dal momento che questo tipo di occupazione non consente un adeguato accumulo di competenze ostacolando di fatto la mobilità verso posizioni più qualificate. Dall’altro lato, il lavoro povero incide negativamente sulle prospettive pensionistiche delle donne, poiché retribuzioni più basse e carriere lavorative maggiormente frammentate si traducono in pensioni più modeste. Nel 2023, le donne hanno percepito pensioni inferiori di circa il 36% rispetto agli uomini. Infatti, se per questi ultimi il trasferimento medio è stato pari a 1.750 euro, per le prime è stato di 1.069 euro (Inps 2024b).

4. Conciliazione e povertà educativa

Le politiche di conciliazione devono essere analizzate non solo guardando all’occupazione femminile, ma anche considerando le opportunità fruite da bambini e bambine che accedono a servizi educativi di qualità. Tali politiche costituiscono una leva strategica anche per contrastare la povertà educativa (cfr. Giancola 2025), nella misura in cui si traducono in servizi di qualità che promuovono lo sviluppo cognitivo, emotivo e sociale dei minori. In questo senso, la conciliazione può essere agente per la costruzione di un’infrastruttura di opportunità per le nuove generazioni.

Soprattutto con riferimento alla prima infanzia (0-6 anni), la centralità dei servizi educativi è sostenuta dalla cosiddetta prospettiva dell’investimento sociale che si afferma sin dalla fine degli anni Novanta, quando le organizzazioni internazionali, in particolare l’Unione Europea (UE) e l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), promuovono un nuovo approccio al welfare che mira a riconciliare sviluppo economico e giustizia sociale. In generale, questo approccio è orientato verso la prevenzione piuttosto che la compensazione delle conseguenze connesse alla perdita del reddito e, in ragione di questo, guarda al futuro promuovendo interventi a favore delle giovani generazioni. Nel quadro dell’investimento sociale, i servizi per la prima infanzia garantiscono inclusione sociale e competitività dell’economia dal momento che aumentano il potenziale dei beneficiari (capitale umano) e contribuiscono a una maggiore coesione sociale (capitale sociale) (Esping-Andersen 2002; Hemerijck e Ronchi 2021; Jenson 2010).

Inoltre, la letteratura mostra come l’accesso precoce ai servizi educativi, oltre a garantire maggiori possibilità di successo scolastico e professionale, tuteli la salute mentale dei bambini e delle bambine svolgendo un ruolo cruciale nel promuovere l’armonia della crescita (Iannaco et al. 2024).

Sebbene i benefici connessi all’accesso ai servizi educativi per la prima infanzia siano ampiamente riconosciuti e nonostante i progressi registrati nell’ultimo decennio, l’Italia è ancora distante dall’obiettivo (fissato a livello europeo) di garantire l’accesso a tali servizi ad almeno il 45% dei bambini di età inferiore ai tre anni entro il 2030.

Tra il 2013 e il 2023, il tasso di partecipazione ai servizi educativi 0-3 anni è aumentato di 13,8 punti percentuali, passando dal 21,1% al 34,9%. Nonostante questo miglioramento l’Italia si attesta ancora al di sotto della media europea che è pari al 37,5% (era il 27% nel 2013) e lontana da paesi quali l’Olanda e la Danimarca in cui il tasso di partecipazione a questi servizi si aggira intorno al 70%.

Nel nostro paese peraltro i servizi per l’infanzia sono “servizi d’élite” dal momento che i bambini che li frequentano provengono più spesso da nuclei familiari in cui entrambi i genitori sono occupati, hanno livelli di istruzione più elevati e un reddito superiore rispetto a quelli che non ne usufruiscono. Infatti, nel 2022, il reddito medio delle famiglie che utilizzano tali servizi è pari a 23.598 euro, contro i 18.085 euro di quelle che non ne usufruiscono. La frequenza raggiunge poi il 31,1% quando almeno un genitore è laureato, ma scende al 26,8% se il titolo più elevato non supera il diploma (Istat 2024).

Inoltre, è utile considerare che il Piano Nazionale di ripresa e Resilienza (PNRR) ha previsto investimenti significativi per il potenziamento dei servizi educativi per la prima infanzia ma che la sua attuazione sta mostrando ritardi, limitata capacità di spesa e squilibri territoriali. Secondo i dati dell’Ufficio parlamentare di bilancio, al 9 dicembre 2024 era stato utilizzato solo il 25,2% dei 3,24 miliardi di euro destinati al potenziamento dei servizi 0-3 anni. Alla stessa data erano poi attivi 3.199 progetti, ma solo 88 erano stati completati. In ragione di questo, gli esperti prevedono che l’obiettivo di aumentare i posti (inizialmente fissato 264.480 e successivamente ridotto a 150.480) non sarà raggiunto e che il piano si concluderà con un numero di posti inferiore di 17.400 unità rispetto a quanto previsto. È necessaria infine una riflessione sui servizi dedicati alla fascia 3-6 anni. In questo caso, bisogna guardare con attenzione alla contrazione del tasso di frequenza della scuola dell’infanzia registrata nell’ultimo decennio. Sebbene l’Italia presenti oggi un livello di partecipazione elevato (92,7%), prossimo alla media europea (93,7%), il confronto con il passato evidenzia una tendenza regressiva. Nel 2013, infatti, la quota di bambini e bambine che frequentavano la scuola dell’infanzia era pari al 97,3%, un valore superiore sia al dato attuale che alla media europea dell’epoca (91,8%) (Commissione Europea, 2025). Questa flessione è particolarmente critica se letta alla luce dell’obiettivo europeo di garantire l’accesso ad almeno il 96% dei bambini entro il 2030.

Accanto a questo va poi considerato che, nel nostro paese, mediamente bambini e bambine passano 30 ore alla settimana nelle scuole dell’infanzia a fronte di una media europea leggermente superiore. La distanza è più marcata se consideriamo la Francia e, soprattutto, la Svezia e la Germania (tempo medio di 35 ore). Inoltre, nel corso degli anni si è verificata una diminuzione del totale delle ore passate nelle scuole dell’infanzia (nel 2007 la media era pari a 35 ore). Si tratta peraltro di un caso unico in Europa occidentale, dove il numero medio di ore è rimasto stabile o, più spesso, è aumentato (EducAzioni 2020).

5. Riflessioni conclusive

Le politiche di conciliazione vita-lavoro rivestono un ruolo cruciale nel contrasto alla povertà lavorativa delle donne e alla povertà educativa dei minori. Infatti, la loro inadeguatezza penalizza le madri che, a causa di una distribuzione diseguale dei carichi familiari, spesso rinunciano all’occupazione o accettano impieghi precari e scarsamente tutelati. Parallelamente, la mancanza di servizi educativi di qualità incide negativamente sulle opportunità di sviluppo dei bambini e delle bambine.

Ignorare il ruolo strategico che le politiche di conciliazione possono giocare significa cristallizzare le diseguaglianze e ostacolare lo sviluppo sociale ed economico del Paese. Al contrario, promuovere interventi integrati, che rafforzino l’accesso universale a servizi educativi di qualità e sostengano una più equa condivisione dei compiti di cura, genera benefici estesi e duraturi. In questa seconda direzione la strada da fare è ancora molta e il nostro Paese sta anche rischiando di perdere l’occasione storica fornita dal PNRR, come emerge ad esempio nel caso dei servizi educativi (cfr. sezione 4)[4].

Un’ulteriore riflessione riguarda, infine, la necessità di non limitarsi a potenziare l’offerta di servizi di conciliazione, ma di intervenire anche sul versante della domanda. La fruizione di tali misure presuppone infatti un cambiamento culturale capace di valorizzarle e renderle attrattive agli occhi di lavoratrici, lavoratori e famiglie. Uno studio dedicato ai servizi di conciliazione offerti in ambito aziendale evidenzia l’esistenza del cosiddetto “paradosso del non uso”: misure formalmente disponibili sono spesso ignorate o sottoutilizzate a causa della scarsa consapevolezza tra i dipendenti, del timore di essere stigmatizzati o di un insufficiente coinvolgimento da parte delle organizzazioni (Viganò e Lallo 2020).

Le istituzioni, ma anche le aziende che attraverso piani di welfare possono operare a sostegno della conciliazione, sono dunque chiamate ad agire per promuovere il rafforzamento dei servizi e un cambiamento culturale. Solo riconoscendo la centralità delle politiche di conciliazione e intervenendo su più fronti sarà infatti possibile innescare trasformazioni durature nel mercato del lavoro, sull’offerta educativa e nelle relazioni familiari.

Note

[1] In Italia, le donne dedicano mediamente circa 4 ore e 40 minuti al giorno al lavoro domestico e di cura mentre gli uomini dedicano alle stesse attività 1 ora e 50 minuti (Banca d’Italia 2023).

[2] Il reddito equivalente mediano è calcolato rapportando il reddito familiare netto a un fattore di scala che rende equivalenti i redditi di famiglie di diversa ampiezza e composizione, in modo da tener conto dei diversi bisogni di minori e adulti e delle economie di scala che si realizzano con la coabitazione di più componenti.

[3] L’Istat utilizza questo termine con riferimento agli occupati con orario ridotto che dichiarano di avere accettato un lavoro part-time in assenza di opportunità di lavoro a tempo pieno (cfr. Istat glossario online: https://www.istat.it/classificazioni-e-strumenti/glossario/).

[4] Cfr. https://www.osservatoriorecovery.it.

Bibliografia

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Autore

  • È Dottoressa di ricerca in Analisi delle Politiche Pubbliche, dal 2014 è ricercatrice senior del Laboratorio Percorsi di secondo welfare. In precedenza ha lavorato per cinque anni come assegnista di ricerca per l’Università di Roma La Sapienza, L’Università di Bologna e L’Università degli Studi di Milano e come ricercatrice presso l’European Social Observatory di Bruxelles. Negli anni si è sempre occupata di politiche di welfare. Il suo percorso di ricerca è iniziato (con il dottorato) guardando alle trasformazioni promosse dalla Legge 328/2000 e al rapporto fra decentramento e welfare locale. Successivamente si è occupata della relazione fra sistemi di welfare e sistemi dell’istruzione. Più di recente la sua attività si è concentrata soprattutto sulle politiche di contrasto alla povertà, di conciliazione e per l’infanzia.