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Le politiche nazionali di contrasto alla povertà e di conciliazione: limiti, riforme e prospettive

1. Povertà, denatalità e bassa occupazione: la “sindrome” originaria

Già dalla metà degli anni Novanta, l’Italia mostrava sintomi evidenti di quella che può essere definita come una “sindrome”, caratterizzata da una partecipazione femminile al mercato del lavoro limitata, da un’elevata povertà minorile e da tassi di natalità estremamente bassi (Ferrera 2008), i cui effetti, intrecciandosi tra loro, hanno determinato un circolo vizioso alla base della crisi sociale che ancora oggi caratterizza il Paese.

Sebbene i fattori alla base di tale situazione siano molteplici e complessi, l’assetto e le criticità del sistema di welfare nazionale vi hanno contribuito. In particolare, durante la fase espansiva del secondo Dopoguerra, il welfare italiano si era andato strutturando per proteggere – primariamente su base contributiva e in un’ottica risarcitoria – i rischi standard a cui erano esposti i lavoratori (tipicamente maschi) inseriti in un’economia di stampo industriale (cfr. Ferrera, Fargion e Jessoula 2012). In linea con tale impostazione, la famiglia – con la sua divisione di genere del lavoro e le sue reti di solidarietà intra- e intergenerazionali – veniva concepita come il luogo privilegiato per l’assolvimento delle funzioni di cura e per il sostegno economico ai propri membri.

Questo impianto si è tradotto in un “familismo all’italiana”, interpretato come un adattamento alle lacune dell’intervento pubblico, in cui la solidarietà familiare assumeva il ruolo di ammortizzatore sociale primario, assolvendo una molteplicità di funzioni: dall’accudimento di minori, anziani e disabili, al sostegno in caso di perdita del reddito dovuta alla disoccupazione o ad altri eventi critici. La scarsa disponibilità di servizi sociali, unita all’esiguità dei trasferimenti monetari, ha consolidato quello che la letteratura ha definito “familismo per mancanza di alternative” (Saraceno e Keck 2010) e “delle solidarietà familiari e parentali” (Naldini 2006), con conseguenze evidenti non solo sulla possibilità effettiva di bilanciare lavoro retribuito e familiare, ma anche sulla dipendenza economica delle generazioni più giovani e delle famiglie di origine e sul rischio di povertà in presenza di figli. Sebbene con un certo ritardo rispetto ad altri paesi europei, negli ultimi trent’anni anche in Italia le sfide poste dalla transizione a una società post-industriale hanno generato nuovi rischi e bisogni, rendendo ancora più evidenti – ed esacerbando – i limiti e le criticità preesistenti del sistema di welfare, in ambiti diversi dell’intervento pubblico: dalle politiche del lavoro a quelle per la famiglia e contro la povertà. In particolare, se nella fase di espansione del welfare state la solidità delle reti familiari aveva supplito all’assenza di diritti di cittadinanza diffusi sul territorio, il loro progressivo indebolimento ha acuito la gravità della carenza di politiche di sostegno economico e della scarsa disponibilità di servizi di cura. Inoltre, il processo di invecchiamento demografico e l’acuirsi del fenomeno della non autosufficienza in età avanzata hanno reso sempre meno adeguate le risposte su base informale.

Nonostante tali limiti fossero ormai evidenti, le riforme adottate dagli anni Novanta fino alla Grande Recessione non sono riuscite ad affrontare efficacemente gli elementi di maggior criticità del modello originario. Le riforme, tipicamente di breve respiro, con dotazioni finanziarie limitate, non hanno consentito il superamento delle debolezze strutturali né l’avvio di un processo di modernizzazione del sistema, che in assenza di una ricalibratura complessiva, ha visto accrescere ulteriormente la frammentazione istituzionale.

In questa cornice, l’ultimo decennio ha segnato, al contrario, un cambio di passo, con trasformazioni significative sia nelle misure di sostegno al reddito, sia nelle politiche di conciliazione, riguardanti i servizi di cura e il sistema dei congedi.

2. La traiettoria di riforma nell’ultimo decennio: assistenza economica, congedi e servizi

La traiettoria delle riforme nell’ambito del contrasto alla povertà e delle politiche di conciliazione dell’ultimo decennio è stata segnata dall’adozione di alcuni importanti provvedimenti. Sebbene non sia qui possibile proporre un’analisi dettagliata di tutte le riforme adottate, è tuttavia possibile richiamarne per sommi capi le principali.

Per quanto riguarda le politiche di assistenza economica, dal 2013 si è avviato un processo che ha condotto al superamento di una delle lacune più evidenti del sistema di welfare italiano in prospettiva comparata. Il primo passo è stato l’introduzione del Sostegno per l’inclusione attiva (SIA) nel 2013, misura selettiva e condizionata rivolta a famiglie con figli minori in grave difficoltà economica, poi sostituita dal Reddito di inclusione (REI), che ha introdotto per la prima volta un impianto universalistico – seppur selettivo – nel contrasto alla povertà, integrando la componente economica con una misura di inclusione sociale e lavorativa, coordinata da una rete di attori territoriali.

La nuova centralità acquisita dalla lotta alla povertà ha trovato conferma con l’introduzione del Reddito di cittadinanza (RDC) nel 2019. Il RDC si configura fin da subito come un intervento ambizioso, sia per la portata simbolica sia per le risorse stanziate, rappresentando il più rilevante trasferimento monetario diretto mai effettuato in Italia a favore dei soggetti in povertà. Caratterizzato da una maggiore generosità e dalla presenza di una componente di attivazione – lavorativa per i soggetti “occupabili” e sociale per coloro in condizioni di maggiore vulnerabilità, ha inoltre sensibilmente migliorato la capacità del welfare italiano di raggiungere le persone in situazione di indigenza.

Il mancato consolidamento del RDC in seguito al cambio di governo, si è concretizzato nella sua sostituzione dal 2024 con due nuove misure: l’Assegno di inclusione (ADI) e il Supporto per la formazione e il lavoro (SFL). L’ADI è una misura categoriale destinata esclusivamente a nuclei familiari con componenti vulnerabili (minorenni, anziani, disabili), mentre il SFL, di durata limitata e importo ridotto, è rivolto ai soggetti “occupabili”. La riforma ha ristretto la platea dei beneficiari, reintrodotto criteri categoriali e accentuato la frammentazione del sistema, indebolendo così la rete di protezione di ultima istanza.

Sempre nell’ambito dell’assistenza economica, una seconda innovazione importante ha riguardato il sostegno alle famiglie attraverso l’introduzione dell’Assegno unico e universale per i figli (AUUF). Sebbene la proposta risalga alla XVII legislatura, è entrato in vigore solo nel 2021 (Madama e Mercuri 2024). La riforma mirava a semplificare e razionalizzare la moltitudine di strumenti esistenti per il sostegno alla genitorialità, superando le disuguaglianze che da tempo caratterizzavano il modello italiano. L’Assegno ha infatti sostituito varie prestazioni – tra cui bonus natalità e adozione, assegni familiari, bonus bebè e detrazioni fiscali – introducendo un trasferimento unificato, erogabile dal settimo mese di gravidanza fino ai 21 anni (in determinate condizioni), e senza limiti di età per i figli disabili. L’importo mensile variava inizialmente tra i 50 e i 175 euro per figlio, con rivalutazioni successive, e prevedeva maggiorazioni per famiglie numerose, con figli disabili, giovani madri o genitori entrambi occupati.

Infine, nel campo delle politiche di conciliazione, le innovazioni più significative hanno riguardato sia l’espansione dei servizi per l’infanzia, sia il rafforzamento dei congedi. Per quanto riguarda i primi, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) ha destinato 4,6 miliardi di euro all’ampliamento dell’offerta per i bambini 0-6 anni, con l’obiettivo di creare 228.000 nuovi posti entro il 2026. La legge di bilancio per il 2022 ha stanziato ulteriori risorse per raggiungere, entro il 2027, una copertura del 33% della fascia 0-3 anni a livello comunale. Tuttavia, dal 2023 l’attuale Governo ha rivisto al ribasso il target nazionale dei nuovi posti a causa dell’aumento dei costi di realizzazione. Il Piano strutturale del 2024 ha poi confermato l’obiettivo del 33% su scala nazionale, ma ha ridimensionato la copertura al 15% su base regionale (MEF 2024).

Per quanto concerne i congedi, la principale innovazione ha riguardato l’introduzione e la successiva estensione fino a 10 giorni del congedo di paternità, a partire dal 2012 e reso stabile dalla legge di bilancio 2022. In parallelo, il congedo parentale ha beneficiato di un incremento dell’indennità per una delle mensilità compensate (dal 30 all’80%), successivamente estesa per le prime tre mensilità, da utilizzare entro il sesto anno di vita del figlio o entro sei anni dall’ingresso in famiglia in caso di adozione o affidamento.

Nel complesso, il decennio ha quindi segnato alcune discontinuità rispetto al passato, rafforzando la centralità del contrasto alla povertà e introducendo strumenti più strutturati a sostegno della genitorialità. Resta da verificare se tali interventi siano stati in grado di superare le debolezze strutturali del modello italiano, richiamate nella sezione introduttiva. Su questo sfondo, il paragrafo seguente propone un bilancio alla luce degli esiti più recenti.

3. Un bilancio: verso il superamento della “sindrome” italiana?

In che misura le riforme illustrate nella sezione precedente hanno inciso sulle debolezze storiche del modello originario italiano e che impatto hanno avuto nel contrastare la sindrome caratterizzata da bassa partecipazione femminile al mercato del lavoro, elevata povertà minorile e denatalità richiamata nell’introduzione?

In sintesi, le riforme recenti hanno inciso in modo ambivalente sulle debolezze storiche del welfare italiano. Sul versante del sostegno economico alle famiglie, l’introduzione dell’Assegno unico e universale per i figli ha rappresentato una svolta importante, razionalizzando un sistema precedentemente frammentato e categoriale in una misura unica, basata su criteri universalistici. L’AUUF ha ampliato la platea dei beneficiari (inclusi autonomi e disoccupati), introdotto una maggiore progressività legata all’ISEE e garantito un incremento delle risorse per il 77% dei percettori già nel 2022. L’importo medio mensile per figlio è aumentato da 147 a 175 euro tra il 2022 e il 2024, con un tasso di adesione pari all’89% e una spesa complessiva di 18,2 miliardi nel 2023 (MEF 2024).

Tuttavia, permangono criticità rilevanti. L’indicizzazione all’ISEE può disincentivare l’ingresso nel mercato del lavoro di un secondo percettore di reddito – spesso la madre – poiché la maggiorazione prevista per le famiglie con doppio reddito risulta troppo contenuta per compensare la potenziale perdita del beneficio complessivo (Saraceno e Pavolini 2022). Inoltre, per molte famiglie a reddito medio, il trasferimento risulta meno generoso rispetto a quanto previsto in paesi che adottano modelli con importi fissi o strutture più inclusive, come Francia e Danimarca (Pavolini e Madama 2024). In prospettiva comparata, sebbene la spesa per la funzione “famiglia” sia aumentata, essa rimane al di sotto della media europea: 1,6% del PIL contro il 2,3% dell’UE-27 nel 2023, e 518 euro pro capite contro gli 829 della media europea (dati EUROSTAT).

Sul fronte delle politiche contro la povertà, la traiettoria è ancora più incerta. L’introduzione, tardiva ma significativa, del Reddito di cittadinanza ha rafforzato la capacità redistributiva del welfare italiano. Tuttavia, il rischio di povertà relativa in Italia resta tra i più elevati in Europa e colpisce in modo particolare le famiglie con minori, soprattutto monoreddito. Il rischio di povertà minorile è pari al 24,7%, superato solo da Romania, Bulgaria e Spagna (dati EUROSTAT). La riforma del 2024 ha inoltre segnato un’inversione di rotta, abbandonando l’approccio universalistico-selettivo del RDC in favore di una logica categoriale più restrittiva. L’ADI, rivolto esclusivamente a famiglie con componenti “fragili”, e il SFL, misura più contenuta sia per importo che durata, hanno ristretto la platea dei beneficiari e reintrodotto frammentazione e criteri selettivi, i cui effetti non sono ancora pienamente visibili nei dati comparativi, ma segnano un arretramento della capacità protettiva del modello (Sacchi et al. 2023; Aprea, Gallo e Raitano 2024).

Anche nell’area delle politiche di conciliazione, le trasformazioni recenti mostrano luci e ombre. Gli investimenti previsti dal PNRR per i servizi educativi e di cura per la prima infanzia miravano ad aumentare la copertura e ridurre i divari territoriali. Tuttavia, l’attuazione si è dimostrata complicata, compromettendo l’efficacia dell’intervento (Toso e Zanardi 2024). Alla fine del 2023, solo il 25,3% dei bambini sotto i tre anni frequentava servizi educativi per almeno 25 ore settimanali, un valore inferiore alla media UE (26,7%) e lontano anche da altri paesi sudeuropei come Portogallo (55,3%) e Spagna (37,9%). I divari territoriali restano inoltre ampi: l’Emilia-Romagna supera il 36%, mentre nel Mezzogiorno la copertura media è inferiore al 13% (dati ISTAT).

In questo contesto, gli indicatori socio-economici continuano a segnalare un quadro critico. Il tasso di occupazione femminile in Italia (56,5%) è il più basso dell’UE-27, ben al di sotto della media europea (70,2%) (dati EUROSTAT). Disoccupazione giovanile e precarietà rimangono diffuse, mentre il tasso di natalità continua a calare. La discrepanza tra numero di figli desiderati (circa due) e numero di figli effettivi (poco più di 1,2) è ampia, contribuendo al rapido invecchiamento demografico (ISTAT 2024). Inoltre, la povertà minorile si conferma una piaga strutturale: nel 2023, il 24% dei minori sotto i 16 anni viveva in povertà, e il 14% in povertà assoluta – il valore più elevato dal 2014 (ISTAT 2024). Questi dati suggeriscono che, nonostante le innovazioni introdotte, il welfare italiano non è ancora in grado di garantire un’efficace protezione per le famiglie con figli e sostenere una partecipazione più ampia e meno asimmetrica al mercato del lavoro.

In conclusione, le riforme recenti hanno prodotto alcuni progressi nella modernizzazione del modello italiano, ma non sono riuscite a colmare i divari rispetto agli standard europei più avanzati (Madama e Natili 2025). Le sfide pre-esistenti – dalla riduzione della povertà infantile alla promozione dell’occupazione femminile, fino al riequilibrio territoriale dei servizi – appaiono dunque ancora cruciali e urgenti.

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2024 C’è chi i nidi proprio non li vuole, in «lavoce.info», 1 luglio.

Autore

  • È Professoressa in Scienza politica presso il Dipartimento di Scienze sociali e politiche dell’Università degli Studi di Milano, dove insegna Comparative political economy and the welfare state, Sistema politico e modello sociale europeo e Politiche di conciliazione. Coordina inoltre il Percorso di specializzazione interdisciplinare in Diritti, Lavoro e Pari Opportunità (DiLPO). Fa parte del Collegio di dottorato in Political Studies dell’Università degli studi di Milano ed è membro del Comitato scientifico dell’associazione Espanet-Italia. I suoi interessi di ricerca includono la governance sociale europea e la politica sociale comparata, con particolare attenzione allo sviluppo e ai processi di riforma delle politiche contro la povertà, per la conciliazione famiglia-lavoro e di inclusione sociale nel contesto europeo.