Intervista a Giovanni Scansani a cura di Sonia Vazzano
Quale impatto avranno sulle persone e sui team di lavoro le nuove soluzioni organizzative ed in particolare quella del lavoro agile?
Durante la pandemia, per la prima volta nel corso della modernità, il lavoro, come anche la scuola, ha visto rompere i suoi perimetri tradizionali che fino ad allora ‒ salvo pochissime eccezioni ‒ non avevano mai previsto un “altrove” in cui le attività potessero svolgersi. Abbiamo assistito ad un planetario esperimento di massa che ha ribaltato assunti stratificatisi da tempo immemore ed è evidente che questo “shock” non può che aver cambiato per sempre lo scenario.
Quanto accaduto ha impattato sull’organizzazione delle imprese non meno che sul vissuto soggettivo del lavoro mettendo in crisi (anche positivamente) relazioni, poteri, saperi e processi, suggerendo un ridisegno organizzativo che, tuttavia, è stato possibile, inizialmente, solo in emergenza e che, come tale, non è stato né voluto, né previamente progettato.
Peraltro, questa improvvisa (ed improvvisata) esplosione del lavoro remotizzato (una soluzione che fortunatamente la tecnologia ci ha reso disponibile, altrimenti adesso racconteremmo un’altra storia) rappresenta oggi la base esperienziale che dev’essere opportunamente capitalizzata per trasformare il lavoro e i suoi luoghi. Per farlo non bastano buoni pc e una connessione internet veloce. Tecnologia, progettazione organizzativa e lavoro (e quindi le persone) devono trovare un loro armonico coordinamento e ciò, anzitutto, proprio a partire dalla visione che si ha del lavoro e del suo senso (e quindi del suo significato). È anzitutto questo l’interrogativo che ci pone con urgenza quanto sin qui accaduto.
Occorre allora scegliere tra due opzioni: quella tecnica che considera il lavoro come un puro atto performativo (è il binomio: organizzazione e tecnologia) e quella antropologica che, invece, considera il lavoro come una componente dell’umano imprescindibilmente dialogica (secondo il trinomio: organizzazione, tecnologia e relazioni). Questa seconda opzione ovviamente non elide le necessità di performance e di produttività, ma le inquadra in ben altro modo.
Ora, riscoprire, difendere, ma anche saper adattare il carattere relazionale del lavoro rispetto a quanto abbiamo appreso nel corso delle trasformazioni sin qui avvenute ed immaginando quelle che verranno, permette di avviarsi verso la transizione ad una nuova organizzazione dell’impresa capace di conservare la centralità dell’umano nel lavoro e del lavoro per l’umano.
In sostanza occorre ripartire da una riscoperta: quella del significato del lavoro e della sua insopprimibile umanità…?
C’è un nesso strettissimo tra lavoro e “fioritura” della persona in quanto il lavoro è la modalità con la quale l’umano di ciascuno di noi entra in relazione con l’altrui umanità. Il lavoro, del resto, è sempre svolto per e/o con gli altri e, quindi, non è mai solo prestazione (relazione economica ed organizzativa), ma è anzitutto terreno di sviluppo della soggettività (relazione sociale, formazione del carattere, realizzazione individuale) ed è quindi il “luogo” della realizzazione integrale della persona (la persona come lavoratore ed il lavoratore come persona).
L’impresa è strutturalmente concepita sulla base della condivisione umana di spazi e tempi di lavoro: spazi e tempi condivisi che abbiamo compreso possono (e devono) essere ridefiniti, ma che non possono essere eliminati, né troppo ridotti.
Non può stupire, allora, la recente affermazione di un imprenditore torinese[1] che ha deciso di remotizzare per sempre i suoi team di lavoro eliminando la necessità di recarsi in ufficio: egli ha infatti ammesso che, a partire da questa decisione, la sua non poteva più considerarsi un’azienda. Nella prospettiva che abbiamo definito egli ha perfettamente ragione!
Su questo aspetto è interessante anche il monito recentemente espresso dal CEO di Great Place to Work Italia, secondo il quale le aziende stanno riflettendo su un aspetto decisivo e cioè se lo smart working non le stia trasformando, agli occhi dei dipendenti, in commodity e questo perché lavorando da remoto ci potrebbe essere il rischio che diventi sempre più marginale la stessa identità aziendale[2].
È facile darsi conto del fatto che riducendosi o azzerandosi la prossimità fisica ne soffrano anche l’engagement e l’identificazione con l’azienda per la quale si lavora. Non a caso le stesse big tech statunitensi (Facebook, Twitter, Apple, Microsoft e altre), inizialmente entusiaste del working from home di massa, hanno tutte fatto marcia indietro riducendone la frequenza ed è significativo che proprio in quella Silicon Valley che voleva cambiare il mondo (e a dire il vero c’è anche riuscita) la drastica ipotesi del lavoro da remoto “per sempre” non sia stata minimamente ritenuta accettabile. Del resto un certo Steve Jobs ‒ un signore che di innovazione mi pare se ne intendesse abbastanza ‒ ricordava che “cose” come Gmail e Street View erano nate dalle chiacchiere informali che alcuni ingegneri erano soliti fare durante la pausa pranzo nel ristorante aziendale. Il cofondatore di Apple ‒ lo si legge nella sua celebre biografia curata da Walter Isaacson ‒ sosteneva che nella società digitale c’è la tentazione di pensare che le idee possano essere sviluppate tramite e-mail e scambi online e questo, sostiene Jobs, è semplicemente folle.
Cosa ci dicono queste evidenze? Che non si può prescindere dalla forza e dalla necessità dei “legami deboli” descritta qualche decennio fa da Mark Granovetter. Sono proprio questi legami a creare coesione e senso di comunità: due asset cui nessuna azienda può rinunciare e che anzi qualsiasi impresa che possa dirsi tale mira ad irrobustire.
I luoghi di lavoro sono quindi spazi di relazione interpersonale e di vita sociale, non sono solo beni economici, ma qualcosa di più: sono formazioni sociali ove si svolge la personalità del cittadino-lavoratore, come recita l’Art. 2 della nostra Costituzione.
Se il lavoro è ricerca di senso sul piano esistenziale che si sostanzia (anche) nella prossimità con l’altro (i colleghi, i clienti, i fornitori) ed è una risorsa che deve produrre e riprodurre coesione sociale (fuori e dentro l’impresa) il suo significato dev’essere cercato in qualcosa di più del semplice scambio economicistico. Dev’essere fondato su un “patto” che, come tale, deve poter andare oltre il contratto. Con il contratto (e quello di lavoro è oltretutto sempre incompleto) si disciplina la societas, mentre è solo con il “patto” che si attiva e si alimenta la communitas. Il contratto formale di lavoro è incompleto perché non consente di “acquistare” quegli elementi immateriali sempre più necessari per l’esecuzione della prestazione lavorativa proprio considerandone la sua stretta correlazione con la tecnologia e le sue evoluzioni.
Lavoro agile autentico: cosa occorre immaginare, soprattutto sul piano organizzativo?
Quella in atto è una trasformazione culturale che non s’improvvisa. Non c’è ancora stata la “rivoluzione” tanto attesa perché lo smart working non è una profezia che si autoavvera, né il solo fatto di disporre della necessaria tecnologia è sufficiente ad attivarlo.
Occorre riprogettare l’organizzazione dell’impresa, di tutta l’impresa, perché il lavoro agile anche solo di una parte dei team impatta sul lavoro di tutti. E si tratta di una riprogettazione che deve potersi basare su assunti in qualche misura persino «eretici» rispetto al mindset tradizionale. Occorre ripensare l’azienda come una struttura composta da persone che cooperano con crescenti margini di discrezionalità operativa e che sono «aumentate» dalle tecnologie. Devono stare in equilibrio tre diverse dimensioni progettuali: quella organizzativo-manageriale (il cui obiettivo sarà l’incremento della produttività e della competitività dell’azienda, ma che non può prescindere dalla condivisione della progettazione con le persone che animeranno e vivranno la trasformazione); quella relativa alla vita individuale e professionale del singolo lavoratore (che ricerca maggiore work-life balance, ma anche un maggiore benessere organizzativo e desidera sempre più partecipare e autorealizzarsi sul piano lavorativo) ed infine la dimensione sociale o se si vuole politica (come cambiano le economie dei territori, i tempi delle città, come si tutela la socialità: qui occorre immaginare una progettualità multidisciplinare che chiami in causa professionalità diverse).
Se le persone vogliono sempre più partecipare alla trasformazione, ciò impone un ulteriore salto culturale ai manager: è una sfida nella sfida?
Il tema della partecipazione dei lavoratori all’organizzazione del lavoro è un portato diretto della trasformazione in atto. Pochi lo sottolineano perché prevale la visione deterministica che abbiamo descritto: pandemia-remotizzazione-rivoluzione. Il lavoro è cambiato non già perché si è scoperto che può essere svolto anche altrove ‒ pur restando inserito in un’organizzazione aziendale ‒ ma perché l’innovazione tecnologica (e quindi organizzativa) presuppone sempre di più il coinvolgimento delle persone in attività massimamente cooperative per poter essere svolte, nelle quali l’apporto di ciascuno non è più affidato allo svolgimento burocratico di una mansione, ma all’interpretazione di un ruolo che libera la soggettività. In questo quadro s’inseriscono i meccanismi partecipativi perché la riprogettazione organizzativa, per essere efficace, non è frutto di decisioni prese “a tavolino”, ma dev’essere condivisa e deve prevedere il fattivo coinvolgimento dei lavoratori. Solo così l’innovazione (tecnologica oppure organizzativa che sia) può essere pienamente sfruttata e non a caso questo tipo di partecipazione è ormai un obiettivo strategico nelle imprese più avvedute: è una condizione per lo sviluppo inteso sia sul piano complessivo aziendale che sul piano individuale soggettivo. Del resto i lavoratori realmente “smart” sono anzitutto e proprio i “lavoratori partecipi”, quelli consapevoli delle necessità di cambiamento e quindi capaci di ripensarsi nell’innovazione organizzativa. Sono anche i lavoratori più desiderosi dei cambiamenti e che proprio per questo vogliono giocare un ruolo attivo nei processi di trasformazione. Passa anche da qui la creazione di luoghi di “lavoro buono”, ossia di lavoro significativo per chi lo svolge e per l’organizzazione che lo rende possibile.
Nel libro scritto con Luca Pesenti (Smart Working Reloaded, Vita e Pensiero, 2021) avete sottolineato come, affinché ci siano smart worker, occorre che ci siano prima di tutto smart manager. Come si deve immaginare la leadership nella trasformazione del lavoro?
Il leader di organizzazioni “smart”, fatte di “ruoli aperti” (nel senso definito da Federico Butera) e animate da soggettività pienamente esprimentesi in contesti partecipativi, è forse più simile ad un coach che a un “capo” vecchia maniera. È una figura che sa esprimere la sua leadership sapendo valorizzare il “capitale umano” più che (unicamente) controllarne il rendimento. Lo smart manager esprime autorevolezza più che (sola) autorità. È un leader “post-eroico”: non più, cioè, un singolo individuo da solo al comando, ma un soggetto “capacitatore” che anima un sistema di relazioni per favorire innovazione, apprendimento, «fioritura» delle capacità, delle competenze e in definitiva delle persone. È, come si sta dicendo da più parti, un “architetto del nuovo lavoro” e le relazioni che costruisce e che anima le tiene vive sia “in presenza”, sia “in remoto” perché l’autorevolezza non necessita del controllo visivo costante: motiva anche “in assenza” (fisica) perché coinvolgente è la sua presenza nella motivazione di ciascuno. Se non è così ci troviamo in un altro ambito: quello del lavoro semplicemente remotizzato, a metà strada tra telelavoro e “copia/incolla” del sistema pregresso che non si sarà modificato in profondità, ma solo in apparenza.
Tutto ciò presuppone che i team siano formati da persone dotate delle skill necessarie, in grado di esprimere la “personalità organizzativa” necessaria per lavorare in contesti trasformati da tecnologia e lavoro agile. Il passaggio dalla mansione (dimensione hard, statica) al “ruolo aperto” che è, invece, una dimensione soft che implica intraprendenza, flessibilità, fiducia, relazionalità (ma anche maggiore complessità) non è per tutti e non è automatico. Anche questo è un processo che deve spesso ancora compiersi e che richiede tempo e che ci dice anche quanto ci sia da fare sul piano della formazione. Il “ruolo aperto” presuppone che il lavoratore debba potere (ma anche sapere come) “interpretare” la sua funzione immettendo immaterialità che il contratto di lavoro non consente di “acquistare”. In questo senso si spiega anche la riscoperta dell’importanza del “contratto psicologico” il cui contenuto si alimenta reciprocando gli apporti cognitivi e soggettivi (l’integralità della persona al lavoro) anche con le policy di welfare aziendale, con gli outcome del lavoro agile (conciliazione vita-lavoro) e con il coinvolgimento partecipativo.
Che funzione ha svolto il welfare aziendale durante la pandemia e come potrà sostenere le trasformazioni in atto?
Durante la fase più critica della pandemia, il timore era che in molte aziende il welfare aziendale potesse essere vissuto come un “lusso” che non ci si poteva più permettere o che potesse subire sostanziosi “tagli”. Una riduzione, quando non un azzeramento dei budget individuali dei lavoratori in effetti c’è stato, ma unicamente in quelle aziende dove la fonte istitutiva del welfare aziendale era il premio di risultato convertibile. Viceversa, nelle imprese dove poteva contare su una diversa fonte istitutiva (e comunque non collegata alla sola quota variabile della retribuzione eventualmente convertibile), il welfare aziendale si è semmai irrobustito.
Da un lato, infatti, la pandemia ha fatto emergere (o ha aumentato) richieste di sostegno in specifici ambiti (come la sanità, il supporto didattico, i servizi alla persona, il counseling psicologico e familiare) e dall’altro le aziende già dotate di piani di welfare ne hanno saputo ricontestualizzare i contenuti attivando canali di ascolto delle esigenze individuali ed adattando le possibili risposte alle diverse criticità, ivi incluse quelle derivanti dalla domiciliarizzazione forzata del lavoro (con una pluralità di servizi diventati fruibili non più nei luoghi fisici, ma online).
Quanto alle aziende che non disponevano di pregresse prassi di welfare o che ne avevano solo un primo abbozzo, lo hanno apprezzato come alleato della coesione e di altre necessità organizzative, che la fase più dura della pandemia aveva sottoposto a forti stress.
Questa “tenuta” del welfare aziendale ci dice allora una cosa importante: evidenzia la capacità di molte imprese nel saper creare ambienti di lavoro nei quali l’azienda è percepibile come essenziale punto di riferimento e di sostegno.
Su tali premesse il welfare post-Covid porta adesso con sé richieste più basiche rispetto a quelle cui la logica dei flexible benefit e dei “cataloghi” dei provider ci aveva abituati. La formula riassuntiva potrebbe essere questa: “meno life style, più people care”.
Quest’ultimo aspetto allude anche alla necessità di favorire una corretta welfare allocation dei budget individuali e su questo gli HR Manager (o il Welfare Manager, dove presente) e i rappresentanti sindacali hanno il compito di guidare maggiormente i beneficiari dei piani di welfare verso scelte che siano meno dettate da logiche consumistiche e che diventino sempre più coerenti con le linee evolutive del proprio personale welfare life cycle, nel cui àmbito pianificare con razionalità la migliore allocazione delle risorse.
Questo scenario potrebbe essere in parte stravolto dalla recente ridefinizione della norma sui fringe benefit che innalzando la soglia di esenzione fiscale e contributiva a 600 euro (dai 258 euro che ne rappresentano la soglia ordinaria) ed includendovi anche la possibilità di spesare i costi delle bollette per le utenze domestiche, rischia di portare una buona parte del welfare aziendale fuori dalle logiche “sociali” cui dovrebbe essere sempre associato, con possibili derive nuovamente consumistiche. Si tratta, però, (almeno per ora) di un intervento emergenziale, valido sino alla fine del 2022[3].
Nei piani di welfare aziendale, per il futuro, i lavoratori cercheranno maggiormente non già principalmente l’acquisto di servizi e di beni voluttuari, ma la copertura dei costi per i carichi familiari (asilo nido, babysitter, assistenza anziani), un ampliamento dei servizi di assistenza sanitaria integrativa, servizi di consulto medico, pedagogico e psicologico (questi ultimi stanno vivendo un vero e proprio boom anche a causa della remotizzazione del lavoro i cui rischi di burnout sono ormai evidenti), più articolate misure di conciliazione vita-lavoro (incremento delle ore dei permessi retribuiti per visite, esami clinici, esigenze scolastiche di figli minori o a sostegno del caregiving di familiari disabili e di genitori anziani), più flessibilità sugli orari. Come si vede non tutto è welfare aziendale “fiscale”, ma spesso si tratta di interventi di cd. welfare aziendale “organizzativo” la cui progettazione va di pari passo con (e sostiene) le trasformazioni organizzative di più ampio respiro che sono in atto.
Possiamo citare un’altra evidenza evolutiva: nelle imprese più attente si sta risolvendo quella criticità (non intenzionale) dei piani di welfare aziendale che rischia di rafforzare le diseguaglianze tra i lavoratori, soprattutto per il meccanico impiego dell’inquadramento contrattuale come unico criterio di differenziazione tra “categorie omogenee” ai fini dell’applicazione della normativa fiscale (ha fatto parlare di sé il contratto sottoscritto in Atlantia nel dicembre del 2021 che prevede, per tutti, un ammontare del “Conto Welfare” identico a prescindere dagli inquadramenti).
L’inquadramento contrattuale come unico criterio di differenziazione genera una maggiore disponibilità di welfare aziendale per chi già guadagna di più, senza considerare le criticità della vita (carichi di cura) che incidono sui redditi. È per questo che alcune aziende, accanto al criterio dell’inquadramento, considerano anche altre variabili come, ad esempio, il numero e l’età dei figli e le loro necessità (N/A, BES-bisogni educativi speciali), la tipologia del nucleo famigliare (ad esempio, genitore single o separato con figlio minore), la necessità di assistenza e/o sostegno a genitori anziani non autosufficienti.
In questi casi più è alto il “carico di cura”, più consistente è il “Conto Welfare”: in buona sostanza si dovrebbe andare verso un welfare meno “glamour” e più orientato alla sua funzione “sociale” che, non va mai dimenticato, rappresenta il fondamento giuridico del favor fiscale che assiste le iniziative di welfare aziendale.
Migliora anche il rilievo organizzativo del welfare aziendale: si diffonde, ad esempio, la figura del Welfare Manager che, in alcuni casi, ha ricevuto anche un riconoscimento professionale (a livello regionale, ad esempio, in Lombardia nell’ambito del “Quadro Regionale degli Standard Professionali” la cui più recente edizione, tra l’altro, attribuisce al Welfare Manager una competenza specifica sul piano progettuale e negoziale anche in tema di lavoro agile) e più recentemente nazionale con la pubblicazione della Prassi di Riferimento UNI/PdR 103:2021.
Il Welfare Manager potrà, poi, essere una figura assai utile nel quadro dei percorsi di attivazione delle policy di parità di genere e della selezione dei corretti KPI per la relativa certificazione i cui criteri sono anch’essi identificati da una Prassi di riferimento UNI (la 125:2022). Infine, la recente disciplina degli appalti finanziati in parte con risorse stanziate dal PNRR prevede che proprio la presenza di alcune specifiche iniziative di welfare aziendale costituisca elemento idoneo all’ottenimento di un maggiore punteggio nelle graduatorie, con ciò stimolando le politiche di benessere organizzativo che appaiono, anche da questo angolo visuale, decisamente sinergiche con le strategie di sviluppo dei business aziendali.
Note
[1] https://torino.corriere.it/economia/22_ottobre_09/smart-working-libero-addio-capi-settimana-corta-solo-dovere-portare-risultati-69ad341e-47f1-11ed-8483-aec53d373f59.shtml.
[2] Così Alessandro Zollo, AD di Great Place to Work Italia in «Sole24Ore», Per lo smart working 2.0 arriva la sfida del caro bollette, 17 ottobre 2022.
[3] Ciò vale a maggior ragione in vista del DL “Aiuti-quater” che, mentre si scrive, il Governo starebbe per approvare innalzando la soglia di esenzione dei fringe benefit a ben 3.000 euro (sia pure per un ristretto lasso temporale).