1. Dove va il lavoro? O meglio, dove andremo a lavorare?
Dove lavoreremo a partire dal prossimo anno? In ufficio o a casa? O in altri luoghi che stanno emergendo come alternative possibili? Che cosa sta cambiando nel modo con cui le persone vivono la propria dimensione lavorativa? Perché è sempre più chiaro che “la” questione del luogo di lavoro non è solo una questione “di” luogo ‒ nonostante già questo abbia implicazioni non banali sull’uso degli spazi aziendali e di quelli privati, come sullo sviluppo di forme di coworking (dove le persone lavorano ciascuna per sé fruendo di facilities e servizi). È una questione di respiro più ampio, che riguarda contenuti, relazioni e contesto, dentro e fuori l’ambito lavorativo.
Dopo due anni di intenso smart working (o di presunto tale), interrogarsi su come si evolverà il dibattito su modalità lavorative e relative prassi significa tenere alto l’interesse per una questione che tocca tutti noi molto da vicino, quella di un lavoro più a misura di persona, che rispetti il desiderio di equilibrio tra la vita lavorativa e quella “non lavorativa”, desiderio sempre più affermato e ricercato non solo dalle giovani generazioni che si affacciano al mondo del lavoro, ma anche da chi, in quel mondo, c’è già.
La tendenza è ben documentata. La recente Randstad Employer Brand Research mostra che il work-life balance è ritenuto importante dal 65% del campione (costituito da 6.590 intervistati tra la popolazione attiva in Italia), così da collocarsi in cima alla graduatoria degli elementi più ricercati in un’azienda, e lo è in particolare per la componente femminile (che, per scelta o per condizione, è più esposta alla necessità di presidiare lavoro e famiglia), per coloro che posseggono un livello di istruzione inferiore (che si può ritenere siano meno motivati ad investire le proprie risorse nella sfida professionale) e per i baby boomers (che si presume, avvicinandosi l’obiettivo della pensione, sviluppino un maggiore orientamento agli spazi di vita privati). Ancora, una ricerca condotta da Deloitte su un campione globale di oltre 23.000 giovani (GenZ e Millennials), tra cui 800 italiani, evidenzia come work-life balance e opportunità di apprendimento siano giudicati fattori strategici nel rapporto di lavoro, e segnala un marcato interesse per il lavoro da remoto, proprio come opportunità per bilanciare meglio gli spazi di vita privata.
2. Smart working, prima durante e dopo
Peraltro, lo smart working ‒ per come i suoi propugnatori lo avevano descritto agli albori, basti pensare alla narrazione proposta da Clapperton e Vanhoutte nel loro bestseller del 2014 Il manifesto dello smarter working – si offriva come “la” risposta ideale alle domande su “dove, come e quando lavoro meglio?”, perché in grado di garantire efficienza per l’azienda e benessere per il lavoratore. Il suo utilizzo è però rimasto per anni prassi limitata, oltre che argomento di nicchia per pochi studiosi e molti consulenti, anche dopo la sua formale introduzione nell’ordinamento italiano attraverso la L. 81/2017 sotto l’etichetta di lavoro agile. Secondo l’omonimo Osservatorio del Politecnico di Milano nel 2014, veniva praticato da un’azienda su dieci e ancora una su dieci era intenzionata a sperimentarlo nel breve termine; nel 2015 circa il 50% delle grandi aziende stava provando questa modalità di erogazione della prestazione. Sempre secondo l’Osservatorio, tra il 2018 e il 2109 il fenomeno mostrava una crescita del 20% circa, in particolare nelle grandi imprese, il 58% delle quali vi ricorrevano ‒ portando a circa 570.000 il numero dei lavoratori coinvolti. In questa fase, qualche giorno a settimana poteva essere lavorato in un luogo diverso dalla sede di assegnazione (la propria abitazione, ma anche altra filiale aziendale), a valle della formalizzazione ‒ obbligatoria per legge ‒ di un accordo tra lavoratore e azienda, che presupponeva in primis l’approfondimento della natura “telelavorabile” delle attività da svolgere e quindi la ridefinizione delle modalità organizzative alla base di queste (obiettivi, procedure, strumenti e relazioni, insomma).
L’arrivo della pandemia e l’impulso (supportato da semplificazione burocratica) a ricorrere allo smart working in maniera massiccia ne hanno favorito l’ampio utilizzo in moltissime aziende anche in quelle che, in condizioni normali e per loro stessa ammissione, vi si sarebbero avvicinate con cautela e forse diffidenza. Una instant survey di AIDP-Associazione Italiana per la Direzione del Personale ‒ realizzata a fine febbraio 2020 per approfondire come le Direzioni del Personale stessero reagendo alla crisi del Coronavirus e cui ha risposto un campione di 638 di soci ‒ mostrava che, del 90% delle aziende che dichiaravano di aver adottato misure specifiche nella contingenza, il 70% circa aveva fatto ricorso allo smart working. Le analisi di ISTAT (in particolare nel report su Situazione e prospettive delle imprese dopo l’emergenza sanitario Covid-19) e quelle dell’Osservatorio documentano che il numero dei lavoratori smart è cresciuto in maniera esponenziale nel 2020 (arrivando a circa 9 milioni) per scendere a poco oltre 7 milioni nel 2021 e a circa 4,5 all’inizio del 2022. Sempre secondo la stessa fonte, nel corso del 2022 in Italia il lavoro da remoto ha continuato ad essere utilizzato in modo consistente, sebbene in misura minore: si stima che circa 3,6 milioni di lavoratori siano coinvolti da smart working, dato che somma un calo nella PA (dal 67% al 57% degli Enti) e nelle piccole e medie imprese (dal 53% al 48%) e un incremento nelle grandi (dove lo smart working è presente nel 91% dei casi a fronte dell’81% nel 2021). Nonostante il confronto con i paesi europei evidenzi un divario persistente tra la situazione in queste realtà e la nostra, questi dati mostrano un significativo passo in avanti, che ‒ unito alle valutazioni di ordine qualitativo sugli effetti netti percepiti dell’utilizzo di questa forma di lavoro su produttività e benessere ‒ testimonia di un processo irreversibile.
Va aggiunto peraltro (e non è irrilevante ai nostri fini) che questo modo di lavorare è stato utilizzato, soprattutto nelle fasi acute della pandemia, in modalità spinta (tutti i giorni), per cui ciascun lavoratore si è creato il proprio “ambiente di lavoro’dove poteva (negli spazi più o meno limitati di casa ‒ in condizioni di convivenza non sempre facile con i familiari o in solitudine, con tutte le implicazioni che questo ha comportato sulla salute psicofisica; oppure in località amene, che fossero luoghi di vacanza o di origine ‒ per i quali è stata coniata l’espressione south working), lavorando in condizioni molto diverse a seconda del grado di familiarità posseduto con lo smart working quanto a capacità di gestire contenuti e relazioni e quanto a disponibilità di supporti (tecnologici, ma soprattutto organizzativi, i più delicati da costruire).
3. La sfida del new normal
Pur con le molte incertezze che ancora ci condizionano, si sta comunque iniziando a guardare al “dopo”; un “dopo” che ci stiamo abituando a definire new normal, dove l’aggettivo new ci ricorda che la “normalità” così (comprensibilmente) desiderata sarà comunque diversa da quella cui eravamo abituati.
Come in questo new normal, entri lo smart working (o lavoro ibrido come si tende a chiamarlo) è questione aperta. Ad inizio del 2022, Microsoft aveva svolto una ricerca intervistando oltre 31.000 lavoratori, da cui emerge che circa il 50% delle organizzazioni per le quali i rispondenti lavorano ha previsto di far tornare in presenza a tempo pieno i propri collaboratori per il prossimo anno, mentre il 52% degli intervistati ha affermato di preferire una soluzione che preveda alternanza tra luoghi di lavoro.
L’evidenza delle soluzioni praticate dalle aziende italiane va nella direzione auspicata dai lavoratori. Un’indagine ‒ condotta dal Centro Ricerche della stessa AIDP nella primavera del 2022 e a cui hanno risposto 850 direttori del personale ‒ mostra l’irreversibilità della strada intrapresa: il 90% delle aziende rispondenti considera questa modalità definitivamente acquisita, anche a partire dal fatto che quasi il 58% tra dipendenti e neo-assunti la richiede come parte essenziale delle condizioni lavorative. Nel 38% delle aziende del campione, i dipendenti potranno lavorare da remoto almeno 2 giorni a settimana e nel 14% almeno un giorno a settimana (mentre percentuali decisamente minori e a decrescere, indicano numeri crescenti di giornate di lavoro remotizzato). Anche il numero degli accordi che si stanno concludendo in questi mesi per definire le “regole’basiche per il suo utilizzo è indicato in aumento (un censimento svolto dal gruppo di lavoro di AIDP ‒ Innovazione e futuro del lavoro ‒ ne ha collezionati oltre 50).
Si tratta di segnali chiari: la decisione di mixare le due forme “pure”, quella del lavoro in presenza e quella del lavoro da remoto, si presenta come la scelta capace di tenere insieme in maniera virtuosa gli obiettivi aziendali di incremento della produttività, non slegati dalla trama relazionale che è alla base della vita aziendale, e quelli dei lavoratori di conciliare meglio la propria vita e il lavoro in quanto precondizioni di quel benessere che ha ricadute positive anche sul modo di lavorare (è forse utile ricordare che questi due obiettivi sono esplicitamente citati dalla normativa italiana di riferimento). Ma questa sua “capacità” è il frutto di una cultura orientata alla persona e di una coerente attività di progettazione organizzativa che non nascono da sole, ma richiedono un attento lavoro e un particolare commitment da parte dell’azienda.
4. Per uno smart working in “equilibrio”
Una delle maggiori criticità che i nuovi modi di lavorare (qualunque sia l’etichetta utilizzata) mostrano è legata al rischio che il tempo di lavoro invada il tempo della vita. La letteratura manageriale usa espressioni quali time porosity o spillover time per sintetizzare questo fenomeno e vi contrappone il work-life balance come strategia per rimettere a posto le cose.
Non sono poche le indagini che portano evidenze su come diminuisca progressivamente il numero delle persone che smettono di consultare i propri devices durante il tempo libero e su come molti manager segnalino quanto il rapporto coi collaboratori tenda ad essere difficile al crescere dell’interazione digitale; o ancora, su come negli ultimi anni siano aumentati in misura significativa i problemi di salute psicofisica in parallelo all’intensificarsi dell’uso dei dispositivi digitali, il rapporto con i quali tende ad assumere connotati quasi patologici. Ancora, non mancano studi che collegano alla connessione continua una presunta minore qualità del lavoro, perché la propensione a reagire di continuo ostacola la concentrazione e la focalizzazione sugli obiettivi; come da altri, si segnala quanto questa tendenza sia esito di una complessa dinamica di rapporti tra un management che richiede attenzione continua e collaboratori che, in maniera più o meno spontanea, favoriscono questo modo di relazionarsi (o non hanno strumenti per opporvisi). Tendenza aggravatasi, peraltro, con il diffondersi del lavoro digitalizzato sempre più spostato su devices portatili perennemente connessi e nella fase pandemica, durante quale la commistione vita-lavoro (anche per la sovrapposizione dei luoghi) si è fortemente intensificata.
È in questo scenario che il riferimento al work-life balance appare come il miraggio cui tendere per riportare il lavoro nel suo alveo e dare spazio alla vita e come il terreno sul quale le aziende debbono impegnarsi per fidelizzare i propri lavoratori. In realtà, il costrutto è tanto apparentemente ovvio quanto complesso. Esso, infatti, sintetizza numerose questioni: c’è un tema di convivenza tra ruoli multipli che la persona interpreta e che, nascendo come rischio che le richieste provenienti dal “non lavoro” influenzino negativamente il lavoro, ha a poco a poco inglobato il fatto che l’incidenza del lavoro sul “non lavoro” tende a produrre nel tempo effetti indesiderati sul lavoro stesso (affrontato con il peso per una vita privata monca) sollecitando l’idea che occorra equilibrio nell’uso della risorsa tempo. C’è anche però una questione di soddisfazione che i ruoli producono fatta di tempo, ma soprattutto di qualità; questione che ha un connotato dinamico, in quanto strettamente collegata alle priorità connesse e riconosciute nella fase di vita in cui la persona si trova e che si riverbera direttamente sulla necessità di controllare (bilanciare) il quanto, dove e come lavorare, modellando spazi e risorse attorno ai ruoli stessi. Insomma, l’equilibrio tra lavoro e vita privata esprime innanzitutto la percezione individuale di compatibilità tra le attività lavorative e non lavorative, così che la crescita a tutto tondo della persona sia allineata alle sue attuali priorità di vita. Non a caso i modelli di total reward ‒ quell’approccio globale alla ricompensa che le organizzazioni mettono in atto che risponde alla varietà delle attese dei lavoratori ‒ includono il work-life balance come loro parte essenziale e spingono le realtà organizzative a cimentarsi con soluzioni che garantiscano la doverosa equità e la percezione che ne consegue con l’altrettanto pressante richiesta di personalizzazione in funzione delle esigenze individuali.
Lo smart working ‒ che nasce come modalità lavorativa meglio plasmabile attorno ai bisogni di equilibrio tra le diverse urgenze di organizzazione e persona, come prima veniva ricordato ‒ si è invece rivelato durante la pandemia essere una sorta di “boomerang” che si è ritorto contro i lavoratori stessi, assorbiti oltre misura dal lavoro e dalle pressioni di un contesto organizzativo, a sua volta in difficoltà e che ha teso ad alzare il livello delle richieste, complice spesso la scarsa dimestichezza coi nuovi strumenti tecnologici e il desiderio di dare il meglio in una fase delicata (anche provando a mantenere vive le relazioni di lavoro pur mediate dai devices). Spesso sacrificando la vita privata e facendo quindi saltare quell’equilibrio così faticosamente costruito. Anche per questo nel new normal, lo smart working va ripensato. Lo smart working è frutto di un cambiamento che continua ad essere in atto e che va declinato sia sul versante delle tecnologie abilitanti che su quello dei modelli organizzativi volti a conciliare produttività e qualità della vita. È su questo che occorre che ogni organizzazione rifletta, sviluppando percorsi di progettazione organizzativa che entrino nel merito di queste dimensioni (come si favorisce la produttività di quello specifico lavoro? come si favorisce la qualità della vita per quel lavoratore, con le sue peculiari condizioni?) e che costruiscano risposte adeguate alle stesse, appropriate al contesto aziendale, alla sua cultura e alle attese delle persone. Come è evidente si tratta di un lavoro impegnativo, ma è l’unico che consente di non arrivare a conclusioni affrettate, figlie di “pregiudizi” proiettati sul contesto. Solo un percorso che tocchi queste dimensioni ‒ e lo faccia all’interno di ogni organizzazione facendo i conti con le sue specificità ‒ può essere l’unica garanzia perché lo smart working mantenga le sue promesse, integrandosi con le attese dei lavoratori.
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