1. Un cambio di prospettiva
Congiungere “conciliazione famiglia-lavoro” e “bene comune” significa dotarsi di una prospettiva che induce il superamento della concezione antagonistica delle esigenze della famiglia e di quelle dell’impresa (o dell’organizzazione produttiva per cui si lavora, quale che essa sia[1]), considerate a se stanti in un dato momento, per passare ad una concezione olistica e dinamica delle stesse, come esigenze suscettibili di coniugarsi nel volgere del tempo, facendo del bene della famiglia del lavoratore/lavoratrice e del bene dell’impresa un tutt’uno. Infatti, il bene comune di un’impresa, o di un qualsiasi altro tipo di organizzazione produttiva, è un bene sovraordinato rispetto a quelli di tutte le persone e soggetti a vario titolo in essa coinvolti – ivi incluse, in primis, le persone che vi lavorano e le loro famiglie –, che tutti ricomprende e che non è perseguibile se non in un orizzonte di medio-lungo termine[2].
In concreto, per capire se e come il bene comune entri in considerazione nella gestione di un’impresa, e quindi anche delle relazioni di lavoro, occorre domandarsi qual è lo spirito che anima l’impresa, ovvero lo scopo di fatto perseguito da chi ne è responsabile. È nello scopo, infatti, che il bene comune può o meno trovare posto ed è lo scopo scolpito nella mente e nel cuore di chi governa e dirige l’impresa che fa la differenza nell’approcciare le relazioni con gli stakeholder.
Vediamo dunque anzitutto come in concreto viene a definirsi lo scopo che indirizza l’azione manageriale, avvertendo che la sua definizione spesso avviene inconsapevolmente perché l’attenzione del management è assorbita dalle problematiche di business – ossia dal che cosa, come, per chi produrre (nonché dai flussi di reddito e di cassa che ne conseguono) – e dalla gestione delle molteplici relazioni con i diversi stakeholder e solo raramente fa spazio a momenti di riflessione e scelta sul perché si fanno le cose e sul come si gestiscono le relazioni.
Successivamente, nel § 3, si dice dello scopo dell’impresa negli sviluppi del mondo capitalistico; nel § 4 si cerca di mettere a fuoco l’impatto dello scopo sulla conciliazione famiglia-lavoro; nel § 5 si riprende il legame fisiologico tra conciliazione e bene comune.
2. Lo scopo dell’impresa e il tipo di leadership imprenditoriale
Lo scopo di fatto perseguito da un’impresa ha radici nel sostrato valoriale del vertice aziendale nonché nella cultura aziendale che il vertice stesso modella attraverso i sistemi di gestione delle risorse umane, in primis quelli di selezione, formazione, valutazione, ricompensa.
Vi sono leader che hanno nel loro sostrato valoriale i valori della persona e del rispetto per le persone tutte e leader nella cui mentalità tali valori sono assenti. I primi sono attenti e sensibili alla qualità delle relazioni con tutti gli stakeholder, con cui tendono a instaurare relazioni di spessore umano e di fiducia reciproca; i secondi, essendo portati a vedere nei loro interlocutori non la intera persona, ma il ruolo (di dipendente, cliente, fornitore, …) in forza del quale entrano in contatto, tendono ad instaurare con essi relazioni strumentali, funzionali al business.
Casi estremi che incarnano i due tipi di leadership sono quelli di Adriano Olivetti e di Jack Welsh: il primo, modello di umanesimo imprenditoriale, indirizzato a «migliorare la vita materiale e spirituale delle persone, sia in ambito lavorativo sia in ambito familiare e sociale»[3]; il secondo, durante la sua permanenza al vertice di General Electric (dal 1981 al 2001), modello di esasperata ricerca del profitto e della crescita per rispondere alle attese di un continuo aumento, di trimestre in trimestre, del valore delle azioni.
Altro esempio calzante è quello di Herb Kelleher e Michael O’Leary, due leader a capo rispettivamente di South West Airlines e Ryanair[4]. «Le personalità di Herb Kelleher e Michael O’Leary sono diametralmente opposte. Kelleher, mancato nel 2019 all’età di 87 anni, veniva unanimemente descritto come una persona appassionata, con una grande gioia di vivere, un senso dell’umorismo contagioso, di grande acume e spirito di servizio. … L’amore reciproco fra Kelleher ed i propri dipendenti era un tratto distintivo di SWA fuori dal comune, tanto che nel 1994, in occasione del Boss’ Day, i dipendenti di SWA sono arrivati a raccogliere $60.000 per comprare un’intera pagina di USA Today e ringraziare Kelleher di molte cose, fra le quali, ricordare i nomi di ciascuno, aiutare a caricare i bagagli il giorno del Ringraziamento, cantare ai party dei dipendenti, essere un amico e non solo un capo. Michael O’Leary, al contrario, è noto per essere spregiudicato, diretto e provocatorio nel gestire le relazioni nei confronti dei propri dipendenti»[5], nonché dei concorrenti, degli ambientalisti e dei clienti, come si può rilevare dalle sue esternazioni[6]. Queste ultime, anche se sono da prendere con una certa cautela, si sposano bene con lo scopo di profitto e creazione di valore azionario.
Ai due diversi tipi di leadership corrispondono due diverse concezioni dell’impresa e del sistema degli obiettivi.
Il primo tipo di leader, infatti, concepisce l’impresa come un bene comune al cui sviluppo tutti sono interessati ed è perciò portato ad ascoltare e coinvolgere l’interlocutore facendone un alleato nella realizzazione di una strategia aziendale condivisibile e condivisa. In questa concezione, il profitto non è né sottovalutato né assolutizzato, ma è considerato fondamentale, da perseguire come un flusso che scaturisce dalla capacità competitiva e dalla capacità coesiva dell’impresa e che a sostenere/accrescere tali capacità deve essere prioritariamente destinato. Ne consegue una configurazione di tipo circolare del sistema degli obiettivi, in cui gli obiettivi economici (di efficienza, competitività, redditività/profittabilità) e quelli umanistici (sociali e ambientali) si inanellano nel volgere del tempo.
Il leader del secondo tipo, invece, concepisce l’impresa come una macchina per produrre ricchezza nel preminente interesse di alcuni stakeholder – tipicamente gli azionisti o il gruppo di controllo e i manager che beneficiano di ingenti pacchetti retributivi collegati al valore delle azioni – e perciò il soddisfacimento delle attese di ogni altro interlocutore è considerato strumentale a tale funzione. Da questa concezione dell’impresa deriva una configurazione gerarchico-piramidale del sistema degli obiettivi aziendali, che vede in cima alla piramide gli obiettivi economici e, in particolare, l’obiettivo del profitto/creazione di valore azionario, e, in posizione subalterna, gli obiettivi di carattere umanistico (sociali e ambientali), con la conseguenza che un obiettivo, pur fondamentale come il profitto (o la creazione del valore azionario), diventa lo scopo dell’impresa. Si genera così una miopia manageriale che, nelle forme più gravi, porta a sacrificare le esigenze sociali e ambientali e, non di rado, anche quelle di competitività di medio-lungo termine.
Alle due diverse configurazioni del sistema degli obiettivi corrispondono poi due diverse funzioni obiettivo del management: l’una composta da una pluralità di obiettivi che si cerca di coniugare sinergicamente o comunque di armonizzare, l’altra costituita da un obiettivo singolo da massimizzare. A proposito di quest’ultima funzione obiettivo, giustamente è stato osservato[7] che: (i) non esiste un obiettivo singolo in grado di sintetizzare la gran varietà di esigenze e di obiettivi, fra cui il management deve ricercare un equilibrio esercitando la sua capacità di giudizio; (ii) «la ricerca di un obiettivo unico rappresenta la ricerca di una formula magica che elimini la necessità di un tale giudizio»; (iii) «il tentativo di sostituire il giudizio con una formula è sempre un atto irrazionale»; (iv) la bussola che deve guidare le scelte del management è il bene dell’impresa, identificato con la sua sopravvivenza e prosperità e ricercato domandandosi «che cosa è giusto per l’impresa», non ciò che è giusto per i proprietari, i dipendenti, il mercato di borsa, ecc. Se una decisione non è giusta per l’impresa, essa non è giusta neppure per i suoi stakeholder; (v) dunque, il bene dell’impresa richiede sempre l’adozione di una funzione obiettivo del management composta da una pluralità di obiettivi[8].
In conclusione, siamo in presenza di due contrapposte concezioni dell’impresa, del suo scopo, del sistema degli obiettivi, della funzione obiettivo del management.
Ma vi è un terzo tipo di leadership che si colloca nella “terra di mezzo”. Infatti, fra questi due modi di fare impresa e di essere imprenditore e manager, si collocano le realtà imprenditoriali in cui la ricerca del profitto, pur essendo in cima alla piramide degli obiettivi aziendali, non viene esasperata, ma è temperata da una più o meno elevata sensibilità alle istanze sociali e ambientali. Questo terzo tipo di leadership comprende una ricca e diversificata gamma di realtà più o meno prossime all’uno o all’altro dei due poli.
3. Lo scopo dell’impresa negli sviluppi del mondo capitalistico
La rilevanza dei tre tipi di leadership d’impresa sopra tratteggiati si può cogliere cercando di metterli in relazione agli sviluppi del mondo capitalistico.
A tal fine conviene prendere le mosse dal declino economico degli Stati Uniti che era andato via via evidenziandosi a partire dagli anni Sessanta/Settanta del secolo scorso dando luogo ad una crescente preoccupazione nella business community, nei circoli politici e nell’opinione pubblica. Manifestazione ben visibile ne era l’invasione sui mercati internazionali di prodotti provenienti dal Giappone e dalla Germania. Soprattutto preoccupante era il calo di competitività delle grandi imprese manifatturiere statunitensi a fronte delle imprese eccellenti giapponesi che progressivamente in tanti settori (auto, moto, macchine utensili, macchine fotografiche, fotocopiatrici, ecc.) erano andate conquistando la leadership globale di mercato.
Non è qui possibile approfondire le dinamiche competitive appena accennate. Vale però la pena di ricordare che il successo del Giappone ebbe origine dal patto sociale in cui, a metà degli anni Cinquanta, avevano trovato sbocco i conflitti sindacali. Tale patto era incentrato sulla crescita della produttività e su una appropriata distribuzione degli incrementi di produttività tra impresa, lavoro e consumatore in armonia con la situazione economica nazionale[9]: prosperità dell’impresa, benessere dei lavoratori e sviluppo economico del paese, insomma, dovevano essere perseguiti congiuntamente. Questo patto aveva spianato la via alla diffusione di pratiche manageriali coinvolgenti i dipendenti (come, ad esempio, quella dei Quality Control Circles), in gran parte importate dagli Stati Uniti e finalizzate per l’appunto alla crescita della produttività.
Mentre in Giappone tali pratiche manageriali si erano rapidamente diffuse, negli Stati Uniti, dove esse erano state inventate, non avevano trovato terreno favorevole. E ciò perché il centro focale dell’attenzione del top management delle grandi imprese si era spostato dalle strategie di business alle strategie di crescita diversificata, guidata da logiche di frazionamento del rischio e di bilanciamento dei business (che assorbono e che generano cassa), nonché da una sostanziale sfiducia nelle potenzialità di sviluppo dei settori manifatturieri definiti “maturi”.
Il crescente disagio prodotto dal declino economico degli Stati Uniti aprì la strada alla svolta neoliberista propiziata da Milton Friedman e altri illustri economisti sin dagli anni Sessanta e attuatasi negli Stati Uniti con le politiche di Ronald Reagan (1981-1989)[10] e con il connesso radicale ricambio della classe dirigente alla guida delle grandi imprese.
Il tipo di leadership per l’innanzi dominante, e considerato responsabile del relativo declino economico degli Stati Uniti a fronte della concorrenza e giapponese e tedesca, era quello improntato alla ricerca del profitto e della crescita del valore delle azioni, ma in modo non esasperato, sia perché il management si era un po’ adagiato sulle strategie competitive che si erano dimostrate vincenti, sia a motivo di una certa sensibilità sociale stimolata e tenuta viva dall’attivismo dei fautori della CSR (Corporate Social Responsibility).
Per contro, la nuova leadership subentrata con la svolta neoliberista a cavallo degli anni Settanta/Ottanta – che aveva in Jack Welsh il suo campione – era decisamente orientata alla massima crescita del profitto e del valore azionario.
Successivamente, nel nuovo millennio, con l’emergere dell’impatto rovinoso e destabilizzante delle politiche neoliberiste sull’ambiente e sui sistemi economico-sociali a livello globale[11], lo shareholder capitalism – incarnato dalle imprese guidate dal principio del primato degli azionisti su ogni altro stakeholder – ha cessato di essere pubblicamente esaltato ed è invece andando crescendo il consenso intorno alle leadership imprenditoriali focalizzate sul bene dell’impresa concepito in armonia con quello degli stakeholder e della società tutta, che preconizzano l’avvento di uno stakeholder capitalism, purtroppo ancora lontano dall’essere dominante. Al riguardo merita di essere segnalata la presa di posizione della Business Roundtable, influente associazione delle maggiori corporation statunitensi, che nel 1997 aveva formalizzato il principio dello shareholder primacy e in una dichiarazione dell’agosto 2018 lo ripudiò sposando la stakeholder view dello scopo dell’impresa[12].
Venendo al nostro Paese, esso non è certo stato esente dagli influssi delle teorie e politiche neoliberiste, ma il suo sistema manifatturiero, contraddistinto da una miriade di piccole-medie imprese per lo più a carattere familiare, è risultato meno esposto a rischi di contagio. Fra di esse, inoltre, a partire dagli anni Ottanta ha acquistato crescente consistenza e visibilità un nucleo di imprese innovative, leader in segmenti o nicchie di mercato globali – battezzate come multinazionali tascabili e imprese del quarto capitalismo[13] – che sono fortemente radicate nei valori di una imprenditorialità capace di coniugare efficienza e umanità[14].
In conclusione, il tentativo di storicizzare i tipi di leadership d’impresa prima delineati[15] con riferimento agli sviluppi del mondo capitalistico si può così sintetizzare:
- periodo anteriore alla svolta neoliberista (a cavallo degli anni Settanta/Ottanta): è dominante il profilo della ricerca del profitto, forse mitigata da un senso più o meno tenue o marcato di responsabilità sociale;
- dagli anni Ottanta sino alla crisi del 2008: lo scopo dell’impresa, apertamente asserito e perseguito, è la massima crescita del profitto e del valore azionario;
- dalla crisi del 2008 in poi: prosegue, sottotraccia, il mainstream del massimo profitto/valore azionario, ma aumentano le imprese che se ne allontanano e mettono al centro il bene dell’impresa e dei suoi stakeholder. In Italia acquistano peso numerico e dimensionale crescente le imprese del quarto capitalismo.
4. La conciliazione famiglia-lavoro e lo scopo dell’impresa
Inquadrare il tema della conciliazione famiglia-lavoro nello scopo dell’impresa (e nella conseguente funzione obiettivo del management) induce a prendere coscienza che le esigenze di conciliazione si inseriscono in un sistema complesso di molteplici esigenze che il management è comunque chiamato a comporre ad unità e che tale componimento avviene in modo differente a seconda dell’orientamento di fondo del vertice aziendale.
Nel seguito si considera il tema della conciliazione prendendo in esame, in successione, imprese di ciascuna delle tre classi anzidette.
Imprese del primo tipo
Ciò che più colpisce nelle storie di queste imprese è lo spirito che ne anima l’imprenditore/capo azienda e come esso si diffonde tutto intorno fra i dipendenti e gli altri stakeholder dando luogo a relazioni collaborative: uno spirito fatto di passione per l’impresa e per le persone, considerate come un tutt’uno. Impresa e persone sono al centro dell’attenzione del management che prende a cuore la prosperità della prima e il benessere delle persone come due cose che non possono esistere l’una senza l’altro. Le persone dei dipendenti e degli altri stakeholder, dal canto loro, vivono con rispetto le esigenze dell’impresa anziché con antagonismo e conflittualità e, per quanto possono, cooperano al suo successo.
Sono tendenzialmente imprese a misura d’uomo, protese a conquistare la leadership di mercato non già sacrificando i valori umani, ma anzi facendo di questi un punto di forza inimitabile in assenza di uno spirito d’impresa che incide anzitutto sul modo di guardare agli stakeholder. Questi, prima ancora che nel loro ruolo di dipendenti, clienti, fornitori, finanziatori, esponenti della comunità locale e così via, sono visti come persone non da manipolare e strumentalizzare per un interesse economico oltretutto di corto respiro, ma da rispettare e coinvolgere in un progetto d’impresa bello e sfidante. Ciò vale in particolare per i dipendenti tutti, chiamati a partecipare attivamente e responsabilmente alla realizzazione di tale progetto.
È proprio il progetto d’impresa – che della stessa diventa lo scopo vissuto e comunicato efficacemente nelle relazioni con i dipendenti e con gli altri stakeholder – a costituire il perno intorno a cui costruire un’impresa nello stesso tempo competitiva e coesiva. È un progetto in cui attenzione al business e attenzione alle persone, innovazione tecnologica e innovazione culturale, sono considerate parimenti importanti per costruire l’impresa sulle solide basi di buone scelte di posizionamento e di relazioni di qualità.
Nelle imprese di questo tipo, dunque, la conciliazione famiglia-lavoro con i connessi momenti negoziali avviene in un contesto in cui le esigenze di efficienza e di competitività dell’impresa e le esigenze di benessere dei lavoratori e delle loro famiglie sono vissute con rispetto e reciproco riconoscimento in vista di uno scopo identificato con un progetto d’impresa sensato, bello e condiviso.
È un contesto lavorativo in cui si creano legami profondi fra persone e tra queste e l’impresa. Sono legami la cui profondità stupisce chi accosta l’impresa e ne incontra i collaboratori, tanto essi sono accoglienti e identificati con i valori aziendali e la missione produttiva[16]. Come pure stupisce constatare la somiglianza dei processi di formazione che hanno luogo nell’impresa con quelli che si svolgono nelle famiglie dove i figli vendono educati a comportarsi con correttezza e trasparenza; a non pensare soltanto a sé stessi ma anche agli altri (dentro e al di fuori della famiglia); a non perdere tempo e a impegnarsi al massimo delle loro capacità[17].
Imprese del secondo tipo
Fra le imprese che hanno fatto proprio il principio del primato degli azionisti, il più importante riferimento a livello mondiale è stato senza dubbio la General Electric sotto la guida di Jack Welch. Infatti, GE – in quel ventennio, e anche dopo, almeno sino alla crisi del 2008 – ha fatto scuola non solo perché ha formato un buon numero di manager che poi hanno preso la guida di grandi corporation, ma altresì perché gli insegnamenti di Jack Welch sono entrati nelle business school di tutto il mondo e hanno contribuito alla formazione di generazioni di giovani[18].
Trattasi di imprese che possono essere competitive e redditizie anche su lunghi archi di tempo, affette però da una qualche forma di miopia manageriale che le espone a rischi più o meno gravi. Questi, per quanto riguarda le relazioni di lavoro, si manifestano tipicamente in episodi di conflittualità sindacale e/o nella uscita di collaboratori in grado di procurarsi un lavoro meglio rispondente alle loro attese.
Ryanair[19], ad esempio, sotto la guida di Michael O’Leary, CEO dal 1994, ha intrapreso uno straordinario percorso di successo, ma nella seconda decade di questo secolo è incappata in una serie di scioperi con conseguenti annullamenti di voli e ripercussioni negative sul conto economico e sulle quotazioni del titolo.
Pure un capo azienda garbato e diplomatico, se ha una shareholder first mentality, inevitabilmente ne è condizionato, con la conseguenza di generare relazioni economiche senza un sostrato di umanità.
È questo, ad esempio, il caso del leader di una internet company che, in una impresa acquisita del primo tipo, ne ha cambiato radicalmente il modello organizzativo per renderlo coerente con uno stile di management “comando e controllo”. Nonostante fosse stata mantenuta tutta la straordinaria gamma di iniziative di welfare realizzate dalla precedente gestione, nel giro di alcuni messi si è assistito all’uscita di numerosi collaboratori di valore, che mal tolleravano lo stile comando e controllo e non si sentivano affatto gratificati da un welfare aziendale che si inscriveva in un contesto organizzativo non più inclusivo e motivante come prima.
Ciò fa riflettere su come, nella conciliazione famiglia-lavoro, ancor più del che cosa si fa, contano il come e il perché si fanno le cose.
Imprese del terzo tipo
Per dare un’idea di questo tipo di imprese, verosimilmente assai numeroso e diversificato, cito due episodi.
Ad un convegno a cui ero stato invitato, un imprenditore mi aveva incantato con la descrizione della sua impresa e di tutte le cose belle e buone che facevano. Nel pranzo che ne è seguito mi sono trovato seduto accanto alla moglie dell’imprenditore e, nel rallegrarmi con lei per la bella realtà che avevano creato, mi è venuto spontaneo dire «chissà che bel clima organizzativo respirate nella vostra azienda!». Al che lei mi ha risposto: «Sì, ma più concedi ai dipendenti e più essi chiedono».
Questa battuta apre una finestra sulla realtà di una bella impresa famigliare, nella quale per altro i collaboratori, verosimilmente affezionati, si sentono non (ancora) owner, bensì controparte di un padrone umano e comprensivo, ma pur sempre un padrone che il loro lavoro contribuisce ad arricchire.
L’altro episodio mi è accaduto ad un convegno con un pubblico di imprenditori e professionisti a cui ero stato invitato per tenere una relazione su valori e cultura d’impresa[20]. Al termine dell’incontro sono stato avvicinato da un imprenditore che mi ha raccontato di un terribile shock: aveva creato un’impresa operante da anni in un clima collaborativo di operosa serenità, quando è scoppiata una dirompente vertenza sindacale del cui emergere non aveva avuto alcun sentore.
La mia impressione è stata di trovarmi di fronte a un bravo imprenditore del primo tipo, impegnato nella buona gestione sia del business che delle relazioni di lavoro, ma che forse, nel gestire le relazioni industriali, aveva sottovalutato la persistenza nel territorio di una forte cultura antagonistica delle stesse.
Come si può intuire dai due esempi, il terzo tipo di imprese include una casistica assai varia, che probabilmente ha le sue radici culturali, sul versante dei lavoratori, nel retaggio storico della concezione antagonistica dei rapporti tra capitale e lavoro e, sul versante dei datori di lavoro, in una umanità impregnata di valori cristiani o di ideali socialisti.
5. Conciliazione e bene comune
La conciliazione famiglia-lavoro, mentre nelle imprese del secondo e del terzo tipo è la risultante di un processo negoziale tra parti scopertamente o velatamente contrapposte, in quelle del primo tipo è naturalmente parte di una concezione del fare impresa come bene comune.
In tali imprese, infatti, gli azionisti, liberatisi dall’idea di essere proprietari dell’impresa, sono calati nel ruolo di chi ha la responsabilità del buon governo della stessa nell’interesse di tutti. Considerano cioè l’impresa come un bene comune alla cui funzionalità tutti gli stakeholder e la società nel suo complesso sono a vario titolo interessati. Il fatto che la proprietà del capitale sia privata nulla toglie al rilievo sociale e pubblico dell’impresa, ovviamente di maggiore o minore spessore in relazione ai caratteri settoriali e dimensionali della medesima. Se poi alcuni azionisti lavorano nell’impresa, ad essi è richiesto di spogliarsi della veste di azionisti e di comportarsi in tutto e per tutto come persone al servizio dell’impresa, alla pari di tutti gli altri collaboratori.
Così l’impresa, nella percezione dei lavoratori, a poco a poco perde le connotazioni padronali e può essere vissuta anche da loro come bene comune e questo modo di sentire darà l’impronta anche alle relazioni industriali.
Un caso interessante al riguardo è quello di una impresa elettromeccanica e della FIOM che nel 2019 firmarono un contratto integrativo aziendale, nel cui preambolo – spiegato e discusso parola per parola prima della firma – si legge: «Le parti che hanno sottoscritto questo accordo condividono una visione dell’Impresa quale BENE COMUNE da preservare e rafforzare. L’impresa non è una semplice organizzazione volta a massimizzare i profitti, ma bensì un luogo dove uomini e donne sono chiamati a realizzare una missione produttiva in maniera responsabile verso chi li ha preceduti, verso sé stessi e verso chi verrà in futuro, cui dobbiamo consegnare un’organizzazione solida e con un equilibrio economico-finanziario sostenibile. Tale obiettivo si realizza perseguendo l’efficienza aziendale ed il profitto affinché si possano assicurare all’Azienda i mezzi per lo sviluppo e per l’innovazione».
Dietro a questo contratto c’è evidentemente un cammino, che ha portato a costruire relazioni di qualità con i lavoratori e i loro rappresentanti sindacali, basate su stima e fiducia reciproche. Ma esso non sarebbe neppure iniziato se l’imprenditore non avesse fatto la convinta scelta di campo di considerarsi proprietario non già dell’impresa, ma del suo capitale, con le responsabilità, i doveri e i diritti ad esso connessi, e di considerare invece l’impresa quale bene comune[21].
Note
[1] In questo scritto per semplicità mi riferisco alle imprese, anche se quanto vale per esse sul tema “conciliazione e bene comune” può estendersi a qualsiasi tipo di azienda o di organizzazione dotata di autonomia e responsabilità economica nel realizzare la sua missione produttiva.
[2] Le persone e soggetti a vario titolo coinvolti nella o dalla gestione di un’impresa sono comunemente indicati come gli stakeholder, in quanto detentori di un interesse il cui soddisfacimento o meno dipende da come l’impresa è gestita. Gli stakeholder hanno di solito consapevolezza del loro interesse immediato e sono attenti ai risultati che impattano direttamente su di esso. Così, ad esempio, attenti alle performance economiche sono gli azionisti, le banche, il mercato finanziario, mentre attenti alle performance sul versante umanistico sono i lavoratori, i sindacati, le comunità locali, gli ambientalisti. Ciò che spesso manca agli stakeholder è la consapevolezza di essere tutti interessati a che l’impresa sia gestita con responsabile lungimiranza costruendo un successo dalle solide basi, grazie a investimenti finalizzati a creare e sostenere sia posizionamenti forti sui mercati sia legami di fiducia reciproca con gli stakeholder tutti.
[3] A. Zattoni, L’umanesimo imprenditoriale di Adriano Olivetti: come la scienza e la cultura possono migliorare le persone, le imprese, la società. In V. Coda, D. Montemerlo, A. Zattoni, Innovazione culturale, innovazione tecnologica e successo dell’impresa, Milano, Egea, 2021, p. 18.
[4] Queste due compagnie aeree, come noto, hanno lo stesso modello di business low cost (che Ryanair ha copiato da SWA), ma non sono in concorrenza diretta fra di loro – essendo l’una leader del suo segmento negli Stati Uniti e l’altra in Europa – ed operano entrambe con buone performance economico-finanziarie in un settore difficile che negli anni ha visto molte imprese fallire e altre sopravvivere grazie a ripetuti interventi di sostegno.
[5] Il testo tra virgolette è tratto da V. Coda, M. Minoja, C. Parolini, Economia aziendale e management, Milano, Pearson, 2023, pp. 369 s.
[6] Ecco alcune esternazioni di O’Leary: «‘My staff is my most important asset’. Bullshit. Staff is usually your biggest cost. We all employ some lazy bastards who needs a kick up the backside, but no one can bring themselves to admit it»; [in merito alla fusione fra British Airways e Iberia] «It reminds me of two drunks leaning on each other»; «The best thing you can do with environmentalists is shoot them. These headbangers want to make air travel the preserve of the rich»; «If global warming meant temperatures rose by one or two degrees, France would become a desert, which would be no bad thing. The Scots would grow wine and make buffalo mozzarella»; «Germans will crawl bollock-naked over broken glass to get low fares», «We think they [i passeggeri che dimenticano di stampare il loro boarding pass. ndr] should pay €60 for being so stupid» (Michael O’Leary’s 33 daftest quotes, «The Guardian», 8 Nov 2013). Queste esternazioni probabilmente sono anche parte di una strategia di comunicazione volta ad attirare l’attenzione della stampa con posizioni estreme, non necessariamente coincidenti con quelle ufficiali di Ryanair.
[7] Peter Drucker, The Practice of Management, Harper & Row, New York, 1954, p. 63.
[8] Nella funzione obiettivo del management Drucker inserisce ‒ oltre agli obiettivi di redditività, produttività, posizionamento competitivo e di acquisizione di risorse materiali e finanziarie ‒ gli obiettivi concernenti l’innovazione, l’atteggiamento/motivazione dei dipendenti, l’acquisizione delle risorse manageriali necessarie per la continuità dell’impresa, le responsabilità pubbliche, il bilanciamento tra futuro di breve e futuro di lungo termine. Il bene dell’impresa, poi, non può che essere in armonia con il bene della società così che prosperità della società e prosperità dell’azienda si alimentino a vicenda; occorre cioè «fare ogni sforzo affinché tutto ciò che è produttivo per la società, tutto quello che a questa contribuisce dando nuova forza e prosperità, diventi fonte di forza, prosperità e di profitti anche per l’azienda» (ibidem, p. 85). Questo è il senso dell’inclusione delle responsabilità pubbliche tra le aree di attività in cui il management deve porsi dei precisi obiettivi.
[9] Il patto sociale accennato fu propiziato dal Japan Productivity Center che adottò i principi guida definiti dalla First Productivity Conference del 21 maggio 1955, cui parteciparono rappresentanti del governo, dei lavoratori e del mondo imprenditoriale e manageriale (v. V. Coda, L’orientamento strategico dell’impresa, Torino, UTET, 1988, p. 183 ss.).
[10] Nel Regno Unito, com’è noto, la svolta neoliberista si è verificata sotto la guida politica di Margaret Thatcher (1979-1990).
[11] L’impatto rovinoso e destabilizzante delle politiche neoliberiste non era certo nelle previsioni dei governi che le adottarono né in quelle di Milton Friedman e degli altri economisti della Scuola di Chicago che le ispirarono. Ma non si può non rilevare che fu sottovalutato il rischio del dirottamento di tali politiche da parte dei CEO delle grandi imprese e degli altri attori forti del mercato finanziario a proprio esclusivo interesse (cf. V. E. Parsi, Titanic. Naufragio o cambio di rotta per l’ordine liberale, Bologna, Il Mulino, 2022).
[12] Ecco alcuni passaggi della dichiarazione della BRT: «While each of our individual companies serves its own corporate purpose, we share a fundamental commitment to all of our stakeholders». Gli stakeholder sono poi elencati specificando per ognuno in che cosa consiste l’impegno nei loro confronti delle 181 corporation firmatarie del documento e la disamina termina con la seguente dichiarazione conclusiva: «Each of our stakeholders is essential. We commit to deliver value to all of them, for the future success of our companies, our communities and our country».
[13] Le imprese italiane del quarto capitalismo sono così denominate per distinguerle dai grandi gruppi privati creati dalle famiglie dominanti nella fase iniziale del Novecento italiano (primo capitalismo), dal capitalismo pubblico nato all’inizio degli anni Trenta con l’IRI ed entrato in pieno sviluppo nel secondo dopoguerra (secondo capitalismo), nonché dal capitalismo dei distretti industriali degli anni Settanta-Ottanta (terzo capitalismo).
[14] Il fenomeno del quarto capitalismo, a partire dalla indagine pionieristica di Andrea Colli (Il quarto capitalismo: un profilo italiano, Marsilio, 2002), ha richiamato l’attenzione di studiosi e centri studi. Tra le pubblicazioni recenti in argomento si segnala Il segreto italiano. Tutta la bellezza che c’è (a cura di V. Coda), Treccani 2023.
[15] Supra, § 2.
[16] Nelle imprese B2B la capacità di immedesimarsi nei problemi del cliente e di darsene carico è emersa con tutta evidenza nelle ricerche e interviste condotte da Isvi nelle multinazionali tascabili (supra, nota 5).
[17] Cf. ad esempio, le citazioni dei casi Geico e Loccioni www. isvi.org in V. Coda, Spirito d’impresa. Innescare e sostenere un fiorente dinamismo, Milano, Egea, 2023.
[18] Su Jack Welsh e sull’impatto che lui e General Electric hanno avuto nel modellare lo shareholder capitalism, v. David Gelles, The Man Who Broke Capitalism. How Jack Welsh Gutted the Heartland and Crushed the Soul of Corporate America and How to Undue His Legacy, New York, Simon & Schuster, 2022.
[19] Supra, § 2.
[20] Relazione pubblicata col titolo “L’impresa siamo noi”, economia &management, n.1° gennaio/marzo2020.
[21] Quanto ipotizzato nel testo trova conferma nelle interviste svolte nell’ambito di un approfondito case study dell’Isvi.