Intervista a Fabio Papa a cura di Sonia Vazzano
In una recente indagine condotta da Institute of Applied Economic Research su un campione di 741 PMI italiane emerge un incremento del numero delle donne alla guida delle imprese. Ci può dare qualche dato in più in merito a questa ricerca che ha coordinato?
Come I-AER, Institute of Applied Economic Research, abbiamo un focus molto verticale sulle piccole e medie imprese (PMI) italiane, preferibilmente a conduzione familiare. In questo senso, siamo attivi nel monitorare l’andamento di un panel molto esteso di PMI (oltre 4.000) che interpelliamo periodicamente per ottenere dati su studi riguardanti temi strategici, organizzativi e di gestione economico-finanziaria.
Per ciò che concerne il tema in oggetto, I-AER è da sempre impegnato nel sostenere il ruolo della meritocrazia nelle imprese, indipendentemente dal genere di appartenenza. In questo contesto, abbiamo constatato, con grande amarezza, che le PMI italiane non sono storicamente orientate alla parità di genere, bensì privilegiano (soprattutto ai vertici aziendali) la presenza di figure maschili. Tale elemento è dovuto ad aspetti prettamente culturali, tanto che il nostro Bel Paese è (purtroppo) riconosciuto come un luogo ancora oggi caratterizzato da una “cultura mascolina e patriarcale” non sempre funzionale allo sviluppo sostenibile d’impresa.
Tutto ciò premesso, la ricerca nasce dall’esigenza di comprendere se, in un momento storico così complesso come quello che – dal 2020 al 2023 – sta caratterizzando l’economia mondiale, le PMI italiane fossero più (o meno) aperte a favorire criteri di crescita professionale (al vertice aziendale). Di conseguenza, abbiamo interpellato il panel di cui sopra, ricevendo 741 questionari validi. Grazie alle informazioni contenute nei questionari, abbiamo (finalmente) ravvisato una maggiore apertura verso le donne al vertice aziendale. Da ciò che abbiamo compreso, questo rinnovato interesse nei confronti della donna come “capo dell’azienda” è dovuto al fatto che, in un sistema socio-economico così complesso come quello in cui viviamo, c’è sempre meno spazio per i luoghi comuni. Mentre c’è sempre più apertura verso “coloro che sanno condurre in modo sostenibile e umano un’azienda”. Sotto questo punto di vista, le donne-manager hanno certamente una marcia in più. E il contesto d’incertezza sembra, a giudicare dai nostri dati, premiare queste capacità.
Di questi dati colpisce soprattutto la caratterizzazione culturale. Quali sono gli elementi più rilevanti in tal senso, a suo avviso?
La premessa, doverosa, è che in Italia viviamo – sul fronte culturale – un momento in cui è necessario un nuovo rinascimento. Il motivo principale è contenuto nei numeri. Solo 62 italiani su 100 hanno un diploma. Solo 16 italiani su 100 sono in possesso di una laurea. E solo 4 italiani su 100, dopo il diploma e/o la laurea, proseguono gli studi con percorsi di specializzazione professionale tesi ad incrementare ulteriormente le skills di cui si è in possesso.
Questo incipit è necessario a farci comprendere che – per trattare (costruttivamente) temi delicati come quello del gender gap – sarebbe auspicabile vivere in un Paese in grado di codificare la complessità delle sfide che ci attendono, mettendo al primo posto il rispetto della persona, indipendentemente dal fatto che si tratti di una donna o un uomo. Venendo alla ricerca, la caratterizzazione culturale che si ravvisa all’interno dell’indagine non deve di certo sorprendere. Infatti, tanto più le aziende sono sensibili al tema formativo, tanto più questo aspetto coincide con vertici aziendali tendenzialmente più istruiti e aperti al cambiamento. Questi due fattori, quando combinati, portano direttamente ad una conclusione: maggiore è il livello di preparazione dei decision-maker, più si aprono opportunità (paritetiche) per chi lavora all’interno dell’organizzazione. Da qui nasce il link tra ruolo delle donne (al vertice) e cultura. In estrema sintesi, tanto più siamo “esenti da pregiudizio” (spesso perché più acculturati), tanto meno sarà la resistenza nei confronti delle donne, anche nelle aziende. Per questo cultura fa rima con apertura. E quindi con donne ai vertici aziendali. Un sillogismo che anche in Italia sta iniziando a prendere corpo.
Il rovescio della medaglia della presenza di donne in posizioni apicali è che il prezzo da pagare è quello di mettere da parte la famiglia. Che cosa stiamo perdendo in ottica economica e sociale se perdiamo la famiglia?
Stiamo perdendo il futuro del nostro Paese, non solo a livello economico, ma soprattutto sociale. Uno dei tabù più difficili da abbattere è che una donna per fare carriera deve rinunciare alla famiglia. Viceversa, se desidera una famiglia “come si deve”, allora in automatico dovrà rinunciare alla carriera. Questa situazione così rappresentata è, ancora oggi, uno dei vulnus più tremendi e rilevanti che caratterizzano i c.d. PIGS (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna). A fare compagnia a questi Paesi ve ne sono molti altri dove, di base, il “credo” popolare è rappresentato, ancora una volta, dal fatto che “l’uomo debba fare l’uomo”, affermandosi (quasi di diritto) sul fronte professionale; e la “donna debba fare la donna”, badando principalmente a casa, famiglia e figli. Finché non verrà effettuato uno step culturale (strutturale) nei Paesi dove questo “credo” è ancora così radicato, il gender gap non solo continuerà ad esistere, ma diventerà sempre più ampio. Uno dei modi più efficaci per non perdere la famiglia è quello di educare la popolazione (nel nostro caso italiana) a modelli più rispettosi dell’essere umano. Modelli che impongono una suddivisione equa dei compiti (anche in famiglia).
Ma questi discorsi, come tutti noi possiamo immaginare, sono ancora lontanissimi dal sentire comune (italico). A dimostrazione di ciò, il fatto che le donne al vertice aziendale nelle PMI stia aumentando fa notizia. Un paradosso direi. Ma che fa comunque scalpore, visto il contesto culturale nel quale viviamo. E che ci porta a quanto appena illustrato. In conclusione, la perdita della famiglia è quindi frutto della nostra pochezza culturale. Una punizione auto-inflitta.
Qual è il ruolo che può avere una maggiore attenzione per la conciliazione famiglia-lavoro nell’ottica del bene comune?
Una maggiore attenzione per la conciliazione famiglia-lavoro è la stella polare a cui dovrebbero ispirarsi tutte le imprese (non solo italiane). In particolare, se vogliamo davvero salvaguardare il bene comune e, sopra ogni cosa, difendere l’istituzione della famiglia, dobbiamo riconsiderare le modalità del lavoro e di come si opera in azienda.
Per oltre tre decenni il mondo è stato (quasi) tutto orientato alla generazione di profitto. I risultati, ad oggi, sono che viviamo in una società sempre più fragile, con giovani disinteressati al domani e, come se non bastasse, lavoratori che non vedono più nel proprio agire un senso. In questo contesto, sebbene si parli di sostenibilità, dobbiamo dire – una volta per tutte – che il modus operandi che, ancora oggi, osservo nelle PMI italiane è totalmente anacronistico tanto che, in 8 casi su 10, i giovani tendono a non essere attratti da queste realtà lavorative. A partire dalle donne. Serve quindi un cambio di passo, ancora una volta culturale, che passi dai vertici aziendali per poi estendersi all’organizzazione, tutta. Senza questo step il bene comune non verrà salvaguardato. E sempre meno famiglie nasceranno. Ce lo dicono i dati.
Le vengono in mente delle soluzioni possibili e concrete per rispondere alla mancanza di genitorialità?
Le soluzioni alla mancanza di genitorialità sono fondamentalmente tre: (i) reddito (ii) stato (iii) servizi alla persona (usando le imprese). Partiamo dal primo punto, il reddito. Non c’è famiglia senza reddito. E, come sappiamo bene, i redditi italiani sono fermi da quasi venti anni quando paragonati al costo della vita reale, tanto da renderci fanalino di coda in Europa (dati OCSE). Senza aumentare il reddito dei singoli nessun giovane può permettersi una famiglia. E neanche dei figli. Per aumentare il reddito serve, in primis, uno sforzo da parte delle imprese e dei vertici aziendali, spesso troppo preoccupati di salvaguardare il profitto e meno orientati alla crescita umana del personale. Un monito quindi va a chi fa impresa. Dall’altra parte, gli stessi lavoratori devono fare uno sforzo in più, aumentando produttività del lavoro e capacità di evolvere in base alle richieste del mercato. Questo richiede applicazione, senso del dovere e forte impegno nel quotidiano.
Il reddito da solo non basta a promuovere la genitorialità. Servono anche uno stato che promuova la nascita di nuove famiglie, agevolandole con approcci fiscali innovativi, contributi più orientati alle giovani coppie e, sopra ogni cosa, promuovendo un quadro normativo che faccia il tifo per la famiglia (si veda – ad esempio – il tema abitativo e/o contributivo sul lavoro, da agevolare per chi intende creare una famiglia).
A tal proposito, la terza e ultima misura da implementare è legata ai servizi alla persona, utilizzando le imprese. Più in dettaglio – dal momento che vivo in prima persona centinaia di realtà aziendali ogni anno – bisognerebbe premiare tutte quelle aziende che promuovono iniziative a sostegno della genitorialità. Alcuni esempi possono essere legati ad aziende che offrono contributi e agevolazioni al lavoratore per gli asili nido, offrono bonus-genitore per la nascita e la crescita di figli fino ad una data età o, ancora, mettono a disposizione orari flessibili, lavoro da remoto e formule innovative di organizzazione del lavoro per mettere nelle condizioni madri (e padri) di affrontare con entusiasmo la genitorialità. Le soluzioni ci sono. Ma bisogna, anche in questo caso, effettuare uno step evolutivo importante.
Quale può essere negli scenari futuri il ruolo dei singoli, delle aziende e delle istituzioni?
Negli scenari futuri vedo determinante il ruolo dei singoli in questo senso: le persone dovranno uscire, in modo progressivo, da una situazione di “comfort-zone” per rimettersi in gioco. Infatti, la velocità a cui il cambiamento ha luogo è tale da imporre a ciascuno di noi di rinnovarsi, in modo tanto strutturale quanto necessario. Chi non sarà in grado di abbracciare il cambiamento sarà destinato non solo ad uscire dal mercato, ma anche ad un’esistenza non particolarmente soddisfacente, visto che vi sarà una forte “spaccatura” tra chi vuole evolvere e chi, invece, rimpiangerà un passato (insostenibile).
Rispetto alle aziende, il ragionamento va di pari passo. Molte imprese si estingueranno. Il tutto a causa di vertici aziendali che si ostinano a replicare schemi anacronistici non solo a causa di un’età spesso (troppo) avanzata, ma, soprattutto in quanto poveri di cultura. Dall’altra parte, vinceranno le imprese in grado di valorizzare l’essere umano, utilizzando approcci ispirati alla persona. Queste aziende saranno attrattive e campionesse di retention di talenti. Polarizzazione sarà quindi la parola-chiave che caratterizzerà il prossimo decennio, anche nel mondo del business.
Non da ultimo le istituzioni. Come noto, viviamo in un Paese dove le istituzioni sono sentite come “lontane” dal privato cittadino. Vedo quindi la necessità per gli organi istituzionali di effettuare una profonda riflessione rispetto a come intendono porsi nei confronti della società che verrà. Laddove questa riflessione non dovesse portare ai risultati sperati, la spaccatura (già in essere) tra società civile ed istituzioni è destinata ad acuirsi.
In definitiva, singoli, aziende e istituzioni sono tutti chiamati a fare la loro parte. In un’ottica di maggiore consapevolezza dei loro ruoli e, sopra ogni cosa, delle sfide che ci attendono. Senza questo approccio, siamo destinati a vivere in una società che farà dell’auto-isolamento (nel metaverso) la risposta fisiologica al fallimento delle istanze di cui sopra.
Uno dei risvolti positivi della ricerca è che si guarda alle competenze al di là del genere: per costruire il bene comune di quali competenze abbiamo bisogno nel lavoro del futuro?
Le competenze al di là del genere: un concetto che dovrebbe essere ovvio. Ma non lo è affatto. Soprattutto nel Bel Paese, dove si tendono ancora ad implementare approcci di natura imprenditoriale e gestionale ormai anacronistici. In questo contesto, visto che l’obiettivo ultimo dovrebbe sempre essere rappresentato dal bene comune, dobbiamo ricordarci che è impossibile prescindere da una “cassetta degli attrezzi” tanto solida quanto coerente con i tempi in cui viviamo (e vivremo).
Pertanto, al primo posto, sarà necessario coltivare competenze di natura digitale (di base), accompagnate dalla capacità di saper interpretare, visualizzare e commentare dati strutturati, anche facendo ricorso a nuove tecnologie (es. AI).
Oltre a ciò, sarà fondamentale imparare a comunicare in modo efficace, prevedendo la capacità di lavorare in team in modo sempre più costruttivo. Non da ultimo, un’ulteriore competenza distintiva per “essere a prova di futuro” sarà quella legata all’utilizzo di almeno una lingua straniera, ciò in quanto vivremo in un mondo sempre più globalizzato e veloce che impone un passo in avanti da parte di tutti noi.
Questi pilastri (di base) costituiranno “le fondamenta” da cui partire per poter affacciarsi o permanere nel mondo del mercato con maggiore serenità e competitività.