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Strumenti di conciliazione, sostegno alla famiglia e attività di cura: una questione di metodo

Intervista a Tiziano Treu a cura di Alessia Gabriele.

Gli strumenti di conciliazione vita-lavoro, e in particolare il sostegno alla famiglia e lo sviluppo delle attività di cura, rientrano tra le aree di welfare storicamente deboli. I dati sui tassi di occupazione, con riferimento a donne e giovani, riferiscono ancora un incremento delle differenze rispetto agli altri Paesi dell’UE1. Secondo Lei, quali azioni a livello legislativo si possono mettere in campo per incrementare l’utilità sociale di questi strumenti, seguendo la tecnica del gender mainstreaming?

Il tema della conciliazione non andrebbe sovraccaricato di molti compiti. Intanto, è uno strumento tra i tanti, che soprattutto in Italia è poco sviluppato perché dipende da variabili culturali, comportamentali e dal modello di suddivisione dei ruoli in famiglia. Inoltre, se non interpretato bene, rischia di dare alle donne un lavoro in più. Va, insomma, inserito in un contesto più ampio se vogliamo coglierne il reale obiettivo: il benessere delle persone e un riequilibrio tra le posizioni, che traduce in sostanza il senso del mainstreaming. È necessaria pertanto una prima indicazione di metodo. Gli strumenti di conciliazione, il sostegno alla famiglia e lo sviluppo delle attività di cura sono argomenti diversi, che vanno visti come cerchi concentrici.

Il tema più ampio sarebbe lo sviluppo delle attività di cura, perché in Italia abbiamo una popolazione anziana e pochi bambini. Le attività di cura sono importanti e andrebbero sostenute, perché riguardano il futuro del lavoro, oltre che il benessere dei lavoratori. Per questo sono necessarie politiche di sviluppo più ampie del solo diritto del lavoro. La nostra è una società che ha grande bisogno di cura e in questo ambito si colloca anche il sostegno alla famiglia.

Oggi la famiglia è stata caricata di molti compiti di cura impropri, soprattutto per la mancanza di attività di cura. Questo corrisponde a un modello familista che si ritorce contro i membri della famiglia stessa, soprattutto contro le donne. Quindi il secondo cerchio è rappresentato dalle politiche familiari e di suddivisione dei ruoli. Il cerchio più piccolo è quello della conciliazione. Quando si parla di conciliazione, il discorso per gli uomini è diverso, tant’è che tutti gli strumenti di conciliazione, soprattutto quelli più specici, nascono in riferimento alle donne. Si tratta di una distorsione per la quale questi strumenti vanno utilizzati cum grano salis, perché altrimenti rischiano di essere controproducenti per lo stesso obiettivo per cui sono stati creati.

Su questo argomento siamo molto indietro rispetto ad altri paesi, e non perché mancano leggi o contratti, ma perché a monte c’è poco sviluppo delle attività di cura professionali e poco sostegno alle politiche familiari. Oltretutto la conciliazione è contro l’ethos dominante maschile, secondo cui la vita è una cosa e il lavoro è un’altra.

L’indicazione di metodo di cui parlo è proprio questa: le politiche vanno viste nel contesto e, anche se a livello legislativo si può fare di più, i vari interventi vanno fatti in sequenza. Il fatto che in Italia si sia proceduto lentamente è un brutto segno, perché è il riesso di quello che a monte non ha funzionato. Ed è per questo che fare delle forzature legislative avrebbe poco senso.

Io insisto molto su questi tre strumenti che, se bilanciati tra loro, sono utili socialmente. Andando avanti solo con la conciliazione e tralasciando gli altri due aspetti, non avremmo uno strumento mainstreaming, ma un ulteriore sovraccarico per il sistema familiare e per le donne in particolare.

Da qui nasce l’importanza delle prassi. A questo proposito, mi viene in mente il caso di Luxottica, dove la visione illuminata del management, condivisa con i sindacati, ha avviato una serie di iniziative che creavano le condizioni favorevoli per la diffusione di strumenti per la conciliazione, ma unitamente ai servizi integrativi per i gli e agli aiuti per i genitori.

C’è bisogno di un microclima favorevole che alcune aziende stanno già creando. Certo, si tratta di grandi aziende, prevalentemente del Nord, perché nelle aree del Mezzogiorno il capitale sociale è debole, e ciò si riette anche nell’ambito di cui stiamo parlando.

Se è vero che la sfida della conciliazione come strumento per favorire l’occupazione femminile si gioca anche sul “campo”, e cioè nell’ambito delle realtà aziendali, in che modo l’intervento pubblico può integrare e sostenere l’effettività delle iniziative in materia di work-life balance promosse dalla contrattazione aziendale?

La conciliazione non favorisce di per sé l’allargamento dell’occupazione femminile; quanto piuttosto è di supporto alle donne che sono già occupate e le aiuta ad avere una migliore qualità di vita.

Se gli strumenti di conciliazione vengono integrati con le politiche sulla maternità si riducono gli abbandoni, che è uno dei problemi dell’Italia: l’occupazione femminile crolla dopo il primo glio. Nella contrattazione collettiva aziendale c’è qualche indicazione che si concentra sugli strumenti di supporto alla maternità, unitamente alla formazione, all’ambiente di lavoro, etc. E l’intervento pubblico sostiene con incentivi la contrattazione collettiva aziendale, sulle materie del welfare tra cui la conciliazione.

Non va dimenticato che le iniziative di conciliazione non costano e quindi hanno meno bisogno di essere sostenute con incentivi dedicati, come avviene con altre misure di welfare. Il problema riguarda semmai i costi dal punto di vista organizzativo, perché per fare bene la conciliazione è necessario che anche l’organizzazione del lavoro si adatti.

In tal senso, più che esenzioni scali si potrebbe immaginare qualche altro tipo di premialità per stimolare questi comportamenti virtuosi da parte delle aziende. Esistono esempi in tema di responsabilità sociale di impresa. Senza interventi pesanti da parte del legislatore; si potrebbe puntare su incentivi di tipo reputazionale. In alcuni paesi — più che da noi — essere “campioni di pratiche di conciliazione” è utile per la reputazione aziendale e può servire ad aumentare il livello delle vendite nei confronti dei consumatori sensibili al tema. è il caso, ad esempio, delle aziende green oriented, che sfruttano il rilievo reputazionale anche per accrescere il loro mercato di riferimento.

Sembra che la diffusione delle misure di conciliazione sia proporzionale al livello di sostegno alla contrattazione territoriale; come si può colmare questo gap per le PMI, spesso protagoniste di fenomeni di dumping contrattuale?

Le misure di conciliazione sono diffuse spesso tramite la contrattazione aziendale, anche se ci sono prassi di conciliazione in aziende che non hanno la contrattazione aziendale.

In Italia, anche al Nord, la contrattazione aziendale non supera il 20-25% delle aziende. E se solo una minoranza delle aziende adotta la contratta- zione aziendale, anche la diffusione delle misure di conciliazione è ridotta sensibilmente.

La contrattazione territoriale è lo strumento principe per diffondere la contrattazione. Quindi potrebbe allo stesso modo diffondere le iniziative virtuose che la contrattazione promuove. Questo è l’unico modo, perché le PMI non si raggiungono con la contrattazione aziendale. Anche se non fanno dumping contrattuale, non hanno comunque lo stimolo a partecipare alle attività di contrattazione. Le parti datoriali (soprattutto Conndustria) non hanno mai favorito la contrattazione territoriale che si è diffusa solo in qualche settore. Forse questo potrebbe essere il compito di alcune associazioni imprenditoriali illuminate che in questo modo avrebbero l’opportunità di dare il loro contributo sul territorio.

Che ruolo può essere assegnato ai contratti collettivi nazionali stipulati dalle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori, maggiormente rappresentative sul piano nazionale in un processo di diffusione di strumenti efficaci di conciliazione vita-lavoro?

I contratti collettivi nazionali di lavoro hanno una ampia copertura anche se purtroppo non così generale come sembra. Da alcune valutazioni del CNEL è merso che in molti settori anche compatti (come quello metalmeccanico), e nelle zone più forti economicamente (come quelle del nord d’Italia), il contratto collettivo copre il 95% delle aziende. Mentre in aree più frammentate (come la logistica e certi tipi di servizi) il contratto nazionale conta poco. Se ci fosse l’erga omnes, come noi sosteniamo da tempo, il contratto collettivo nazionale potrebbe avere più peso.

Un contratto collettivo nazionale di lavoro che vincoli tutti, soprattutto i datori di lavoro più piccoli potrebbe stimolare una diffusione reale anche degli strumenti di conciliazione. è vero che questa non è una materia di competenza diretta del contratto collettivo nazionale. Però, come si è visto nell’ultimo contratto dei metalmeccanici, il contratto collettivo nazionale ha avuto una funzione di promozione di alcuni istituti di welfare non in via di regolazione diretta – perché quella riguarda la vita aziendale – ma di stimolo.

Proprio in questo momento storico si potrebbe attingere ad una risorsa come quella del welfare e della conciliazione, visto che gli aumenti salariali nei contratti collettivi saranno di poca entità. I contratti collettivi innovativi potrebbero promuovere alcune forme di welfare, come ha fatto il Contratto collettivo nazionale dei metalmeccanici del 2016, con la formazione e altri istituti analoghi.

Secondo qualcuno questi sono indicatori di una tendenza a una contrattazione post acquisitiva, cioè con meno beni materiali e meno soldi e più strumenti di benessere e di conciliazione. Il contratto nazionale “nuova maniera” potrebbe contribuire a sviluppare anche questi temi, sempre che raggiunga effettivamente la gran parte dei soggetti. Altrimenti rischiamo di creare un altro dualismo. Le aziende come Luxottica che hanno già forti misure di conciliazione accrescerebbero la loro posizione, mentre quelle che ancora non ne hanno resterebbero fuori.

In che modo si può evitare che l’eterogeneità dei modelli aziendali tra Nord e Sud accresca il divario tra le realtà sociali ed economiche del Paese, soprattutto con riferimento all’ingresso e alla permanenza nel mercato del lavoro dei lavoratori con compiti di cura e di assistenza?

In realtà questo è un problema enorme e di carattere più generale. Nelle aree del Sud è più debole il tessuto economico, le aziende sono più piccole e lo stesso capitale sociale è scarso e quindi si rischia una divaricazione su tutti gli indicatori economici e del benessere. Dai dati dello Svimez emerge come tutti questi indicatori (longevità, tasso di istruzione, ambiente, etc.) riettano questa eterogeneità, e il divario non accenna a diminuire negli anni. Questa debolezza economica e sociale inuisce anche su quelle aziende che nora erano riuscite a resistere e che in questo momento vengono colpite duramente.

È un problema di carattere nazionale, e non serve intervenire solo su un punto specico perché l’intervento va fatto a monte, a partire dalle cause che hanno portato al divario storico fra Nord e Sud. Ultimamente si parla di un Piano per il Sud. Ci auguriamo che sia efficace, perché gli effetti di un’azione complessiva ricadrebbero anche sui modelli aziendali e sui livelli di occupazione.

Data la dimensione del problema, un ruolo centrale spetta agli enti locali, che possono fare molto se amministrati correttamente, perché come strutture amministrative sono più vicine ai bisogni dei cittadini e delle famiglie e possono aiutare a connettere il welfare aziendale a quello territoriale.

Gli impatti maggiori di questo ruolo si avrebbero nel miglioramento dell’occupazione, sia nell’ambito dei lavori di cura, sia con gli investimenti, in cui gli enti locali hanno mostrato di agire meglio rispetto allo Stato. Nel Sud una delle leve è questa: la qualità degli investimenti e delle amministrazioni. Un ruolo importante hanno anche le associazioni dei datori di lavoro e quelle del Terzo settore, che contano molto nelle attività di cura.

L’attuale emergenza Coronavirus ha imposto al mondo intero un cambio di passo e anche il diritto del lavoro ha dovuto rivedere le modalità tradizionali di esecuzione della prestazione. Lo smart working generalizzato ha messo in discussione anche i previgenti paradigmi sulla separazione “fisica” tra tempi di vita e tempi di lavoro. Tutto ciò potrebbe incidere sulla trasposizione della direttiva 2019/1158/UE sul work-life balance?

Sappiamo che c’è stato uno tsunami, non solo nella salute, ma anche nelle relazioni e nel lavoro. Un tipico esempio è lo smart working. Non c’è dubbio che continuerà a diffondersi, anche oltre la versione attuale “imposta”. Però come sarà e che implicazioni avrà, non è ancora chiaro, come non è chiaro il futuro che ci aspetta dopo il Covid. Cer- tamente cambiare i tempi di vita e anche i luoghi di lavoro modica molte cose tra cui gli orari e il modo di valutare il lavoro. Tendenzialmente direi che si può favorire un migliore bilanciamento. Tuttavia, con la sospensione dei servizi scolastici, i beneci dello smart working, in questa fase, hanno aiutato più gli uomini che le donne, sui quali non sono ricaduti in via immediata i compiti di cura familiari. Questo vuol dire che lo smart working, se usato bene nell’organizzare anche i rapporti in azienda, può essere uno strumento che facilita una maggiore autonomia delle persone un miglior uso del tempo e che quindi può essere utile sia per gli uomini sia per le donne.

La direttiva dell’UE n. 2019/1158 ha dato una

spinta in tema di conciliazione; ed è uno dei casi in cui la regola europea non si limita a individuare una soglia comune a tutti i paesi membri, ma va oltre tale minimo comune denominatore, seguendo il modello dei paesi del Nord, che hanno normative più evolute. Anche se la direttiva spinge in questa direzione utile, come a suo tempo quella sulla parità; in Italia imboccare questa strada sarà difficile, soprattutto se non ci saranno altre condizioni di contesto.

Con lo smart working si dovranno adattare altre modalità di lavoro a cominciare dal fatto che il concetto del tempo andrà misurato diversamente. Se lo si organizza bene questo strumento può favorire anche l’applicazione della direttiva e valorizzare in particolare la possibilità di liberare del tempo per le persone che lavorano, in particolare per le donne.

Note

1 Cfr. ISTAT, Il mercato del lavoro 2019. Verso una lettura integrata, 2019.

2 Qui il riferimento è all’intervento in occasione della presentazione del Nuovo rapporto CISF 2020. Per maggiori informazioni, cfr. la diretta streaming dell’evento (https://m.famigliacristiana.it/video/diretta-streaming-rapporto-cisf-2020-la-famiglia-nella-societa-post-familiare.htm) e i contenuti integrali del rapporto (cfr. Studi Famiglia Cisf – Centro Internazionale, La famiglia nella società postfamiliare. Nuovo rapporto CISF 2020, San Paolo Edizioni, 2020).

Autore

  • È Professoressa Associata di Diritto del Lavoro ed è Prorettrice alle tematiche di genere presso l’Università degli Studi di Enna “Kore”. È autrice di due monografie: la prima su I diritti sindacali in azienda (Giappichelli, 2017) e e la seconda su Contratto di lavoro e diritto al tempo per la cura (ESI, 2024). È autrice di numerosi articoli e saggi pubblicati, dal 2005 ad oggi, in opere collettanee e riviste scientifiche del settore giuslavoristico. È stata curatrice, insieme a Guglielmo Faldetta, del volume Tempi di vita e di lavoro tra legge e contrattazione collettiva, “Quaderni FMV Corporate Family Responsibility”, 2020, nel cui ambito ha raccolto un’intervista a Tiziano Treu, già Presidente del CNEL.

  • È professore emerito di Diritto del lavoro dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Ha ricoperto la carica di Ministro del Lavoro nei governi Dini e Prodi e di Ministro dei Trasporti nel governo D’Alema. Già Senatore della Repubblica, è stato Presidente della XI Commissione Lavoro e Previdenza Sociale del Senato. Consigliere del CNEL dall’aprile 2013 al maggio 2015. Da ottobre 2014 al marzo 2015 è stato Commissario Straordinario dell’INPS. Dal 2015 al 2018 è stato Presidente della International Society for Labour and Social Security Law. Dal Maggio 2017 è Presidente del CNEL. È autore di numerosi saggi e volumi di diritto del lavoro, diritto sindacale e relazioni industriali, italiani e comparati.