1. Un’unica vocazione
In questo contributo le nostre riflessioni si focalizzeranno sulla funzione generativa che la coppia può svolgere nella conciliazione tra famiglia e lavoro. La nostra prospettiva è ovviamente condizionata dalla nostra vita di coppia e dal particolare percorso professionale di ciascuno di noi, tuttavia riteniamo che gli aspetti che approfondiremo possano essere estesi anche ad altre situazioni e altri contesti.
Non proponiamo una modalità esemplare per gestire la conciliazione tra famiglia e lavoro, ma una piccola testimonianza di quanto la vocazione per il lavoro e quella per la famiglia costituiscano una dimensione che di per sé è unita, e che solo qualche inciampo e qualche condizionamento socio-culturale può concepire come due tragitti separati che vanno conciliati. Non vediamo, infatti, una contrapposizione tra il desiderio di realizzare una famiglia e il desiderio di realizzarsi nel lavoro.
2. Una questione di coppia
Il nostro presupposto di partenza è l’unità della vocazione nella vita familiare e nella vita lavorativa. Famiglia e lavoro non sono dunque due realtà separate che si tratta di congiungere, ma due dimensioni dello stesso slancio generativo che porta ciascun membro della coppia a realizzare la propria vocazione.
La famiglia e il lavoro fanno parte di un’unica chiamata perché in entrambi i casi si tratta di realizzare la verità del proprio desiderio. Dal punto di vista psicoanalitico il desiderio è una vocazione perché si configura come una chiamata, una chiamata di cui non siamo padroni e una chiamata che, per quanto discernimento potremo compiere, rimarrà sempre come un mistero.
La coppia va considerata come quel dispositivo relazionale che amplifica e sostiene lo slancio del desiderio di ciascuno. È dunque lo stato mentale di coppia che consente a ciascun partner di trovare il suo modo particolare di conciliare esigenze familiari ed esigenze lavorative. Le questioni relative alla conciliazione famiglia-lavoro vanno interpretate quindi come delle questioni di coppia e non come questioni del singolo. Ci sono ovviamente molti altri livelli di lettura dei temi e dei problemi legati alla conciliazione famiglia-lavoro, però se ci soffermiamo sulla dimensione psicologica e relazionale, allora possiamo osservare che molti problemi individuali nella conciliazione tra famiglia e lavoro derivano anche dall’essere concepiti e affrontati a livello del singolo soggetto. In parole concrete, se una donna, o un uomo, fa fatica a conciliare le esigenze della vita familiare con le sue aspirazioni professionali non ha un problema individuale, il suo è un problema della coppia. Se la questione non si concepisce così, si rischia inavvertitamente di alzare una barriera di separazione all’interno della coppia e, al contempo, di depotenziare le risorse che una famiglia può mettere in campo per tenere viva la sua apertura.
Diventa allora fondamentale concepire famiglia e lavoro come parti di un’unica vocazione e, allo stesso tempo, affrontare sempre come coppia le avventure e le sfide della vita familiare e lavorativa.
3. Due conciliazioni in relazione
Il punto cruciale per conciliare famiglia e lavoro è superare l’ottica individualistica perché la conciliazione è una questione di coppia e non solo del singolo individuo. In quest’ottica la coppia si trova di fronte a una duplice questione: da una parte la modalità di conciliazione famiglia-lavoro del singolo partner e dall’altra la modalità attraverso cui le due conciliazioni si mettono in relazione tra loro. «La conciliazione è un’arte: richiede una costante volontà di superarsi ed è fatta di tanti momenti di ispirazione. Ciascuna coppia deve decidere, liberamente, che cosa fare in ogni tappa della propria vita. […] Non si tratta di due progetti individuali, bensì di un unico progetto che coinvolge tutta la famiglia» (Chinchilla, Moragas 2009, 194-195).
Si tratta allora di costruire un annodamento tra la conciliazione famiglia-lavoro di Anna e la conciliazione famiglia-lavoro di Nicolò, altrimenti, senza questo annodamento, il peso della questione cade sulla dinamica di coppia che si trova così a vivere un conflitto interno: marito e moglie si trovano in qualche modo a dover mettere in competizione le rispettive necessità di conciliazione famiglia-lavoro. In tal modo la coppia invece di diventare il luogo generativo che fa spazio alla conciliazione si trasforma come un amplificatore dei problemi. Il pericolo è che la difficoltà dell’annodamento tra le due conciliazioni degeneri in una lotta di potere o di prestigio, come se un lavoro fosse più importante di un altro o la realizzazione di uno dei due partner debba essere sacrificata per sostenere quella dell’altro. In questo modo viene affibbiato al partner un ruolo sbagliato: «non c’è quasi nulla di meglio, nella creazione dell’infelicità, che il mettere l’inconsapevole partner di fronte all’ultimo anello di una lunga e complicata catena immaginaria, nella quale egli svolge un ruolo decisivo e negativo» (Watzlawick 1983, 30).
Scivolare su questo piano è un rischio notevole per la coppia che invece di conciliare e amplificare le vocazioni dei due partner impone una scissione tra il dovere e la vocazione. In queste situazioni bisogna chiedersi esplicitamente – e se non lo si fa, la domanda continua comunque a porsi a livello inconscio – quale ruolo ha assunto l’altro partner: è diventato qualcuno che mi chiede di ridurre la mia spinta desiderante? È qualcuno che ritiene che la mia vocazione familiare debba prevalere su quella lavorativa? Oppure è qualcuno a cui chiedere di farmi da supporter nella mia realizzazione professionale dedicandosi maggiormente alla famiglia anziché al lavoro? E su che base stabilire chi dei due partner deve sacrificare il lavoro e chi deve invece puntare a realizzarsi nel lavoro? Quale idea della coppia e della famiglia presiede a queste suddivisioni? Quale idea di donna e di uomo sovradetermina questi pensieri? Esiste una suddivisione delle vocazioni che può essere orientata dalle differenze di genere?
Le domande, che vengono sollevate da una concezione che separa la vocazione familiare da quella lavorativa e da una visione che interpreta in modo individualistico la questione della conciliazione famiglia-lavoro, sarebbero ancora tante e tutte accomunate dallo stesso vizio di partenza che vede la coppia come una dimensione relazionale composta solo da due persone.
4. La generatività di coppia
Nella nostra visione la relazione di coppia va concepita come un’entità terza che eccede le due singolarità che la generano. Se il legame di coppia viene considerato come il primo figlio di una coppia, allora il Noi viene vissuto come un’eccedenza che supera l’ego di ciascuno dei due partner (Terminio 2015).
Farsi orientare dunque dalla coppia nella conciliazione tra famiglia e lavoro non vuol dire riferirsi soltanto al partner, ma innanzitutto a quella dimensione che è stata generata insieme al partner. Ciò che la coppia genera è l’amore, e l’amore non è soltanto quello che spinge un partner verso l’altro, ma è una dimensione che fa esistere il Noi come un’eccedenza che fa sì che 1+1 non fa 2, ma 3. È grazie all’amore che la relazione di coppia diventa la manifestazione di una dimensione che eccede e trascende l’io di ciascun partner. L’amore non congiunge due soggetti in modo complementare, ma li apre a un’ulteriorità che li fa uscire da sé stessi aprendoli alla vita e al mondo. Ecco in sintesi un modo per intendere il concetto di generatività e le ragioni per cui ha delle conseguenze notevoli non solo nel modo di intendere il sacramento del matrimonio o l’educazione dei figli (Terminio 2023), ma anche l’approccio alla vita lavorativa.
5. Soli, ma non senza l’Altro
Nella vita di coppia la “generatività del desiderio” (Terminio 2011) consente di trasformare la “questione” della conciliazione famiglia-lavoro in una sfida che viene vissuta insieme nella quotidianità. Nella gestione della vita familiare si può essere da soli nello svolgimento di alcuni compiti e nel far fronte ad alcuni impegni, ma questo non vuol dire che quell’azione individuale sia compiuta fuori dallo spirito di coppia. Ciò che fa la differenza non è quindi chi si occupa di cosa, ma il fatto che chi compie quello sforzo o quel sacrificio non si senta solo a livello relazionale, perché in quel momento sta realizzando un progetto di coppia.
In tal modo la coppia diventa la matrice relazionale dei singoli sforzi individuali, sforzi che possono essere distribuiti in maniera non omogenea, ma che tuttavia non si configurano come uno sbilanciamento da una parte o dall’altra, perché ciò che è importante non è soppesare la quantità di impegni, ma vivere la coppia come quella dimensione che è presente anche quando si è da soli. È un aspetto delicato di cui prendersi cura (Murphy 2019) e richiede che ciascuno dei due partner si renda co-responsabile di tutto ciò che viene fatto. Non bisogna puntare quindi sulle suddivisioni a priori degli ambiti di intervento nella gestione della vita familiare, altrimenti si rischia di fare dell’identificazione ai vari “ruoli di genere” (Terminio 2021) l’occasione per rifugiarsi nella pigrizia di chi si sottrae al coinvolgimento o nel lamento di chi chiede un maggiore coinvolgimento all’altro partner.
Per vivere la vocazione in modo generativo ciascuno deve saper mettere a fattor comune il talento che gli appartiene, quella specificità che lo distingue, perché solo mettendolo a servizio del legame la coppia acquisirà quello sguardo unico sulla realtà che, come ogni forma di legame, si manifesta come un di più, come un’eccedenza che supera lo sguardo di ciascuno. È importante sapersi fidare completamente dell’altro e ancor di più fidarsi dello slancio generativo che nasce dalla relazione.
6. L’amore oltre l’identificazione
Occorre aggiungere un ulteriore aspetto riguardo alla generatività della coppia, un aspetto che ha una ricaduta sul modo in cui si interpreta il proprio ruolo lavorativo. Oltre ad aver sottolineato che il legame di coppia è il primo figlio della coppia, bisogna anche considerare che all’interno della coppia quello che abitualmente è il nostro ruolo identificatorio – cioè, l’immagine in cui noi ci riconosciamo e in cui ci sentiamo a posto con noi stessi – viene in qualche modo disarcionato. L’esperienza dell’amore infatti non è un’esperienza che consolida la nostra identificazione, la vocazione dell’amore introduce una crepa nella nostra identificazione e apre la nostra identità verso l’altrove. Se ci si lascia guidare dall’amore non avviene un consolidamento dell’ego perché il partner non è un doppione narcisistico in cui rispecchiarsi, né l’altro è colui o colei che deve sostenere la mia identificazione. In amore non è in gioco la conferma della buona immagine di sé, anzi avviene la scoperta di tutto ciò che nessuna rappresentazione individuale e sociale potrà mai esprimere pienamente. L’amore sposta l’attenzione dalla staticità dell’idea di sé al dinamismo del proprio slancio desiderante verso l’Altro.
La generatività della coppia è un ingrediente essenziale per riporre fiducia in questo atteggiamento desiderante non solo nella vita familiare, ma anche nel proprio contesto lavorativo (Covey 2006). L’amore di coppia predispone ciascun soggetto ad affrontare il lavoro senza cercare una conferma alla propria identificazione, ma un’occasione per esplorare la propria chiamata a realizzare la verità di ciò che si è. Non si tratta di una verità scritta una volta per tutte nel proprio inconscio, ma di una verità che può farsi grazie all’esperienza dell’incontro.
Questa posizione peraltro aiuta il singolo anche nel suo posto di lavoro, qualunque esso sia, a non ricercare la conferma alla propria identità nei risultati, nell’altro, nella performance, ma a trovare il proprio slancio creativo in quello che si fa (Csíkszentmihályi 1997). Quindi a prescindere che ci si rivolga al proprio partner, al proprio figlio, al proprio collega o responsabile, quello che ha senso cercare come bussola che orienta il proprio percorso è saper mantenere il focus sul proprio desiderio, su ciò che rivela la propria verità, l’aderenza alla propria autenticità – e questo si percepisce innanzitutto tra sé e sé o nella preghiera (Terminio 2022). È una sfida quotidiana, spesso molto difficile da vivere perché nella vita sociale ciascuno di noi è soggetto a stimoli discordanti, in alcuni casi addirittura sembra che il soggetto debba identificarsi con un ruolo e un modo di comportarsi predefinito da altri, dal team di lavoro o dalla cultura aziendale (Schein, Schein 2017).
Il lavoro non è dunque il campo relazionale dove ottenere riconoscimento e conferme per la propria autostima, ma, come la famiglia, dovrebbe essere il luogo dove sperimentare l’eccedenza dell’opera che si realizza. Altrimenti il lavoro rischia di essere interpretato come l’ennesima situazione per continuare a mantenere una buona immagine di sé o per ottenere finalmente quel riconoscimento che si ritiene ingiusto non ricevere.
Il lavoro, come l’amore, richiede di mettersi in gioco con la parte di sé che ama ciò che fa e non con la parte di sé che vuole essere amata per quello che fa. Quando si ama veramente si trova il senso di ciò che si fa nell’atto stesso in cui lo si compie. Questo d’altra parte apre a una grandissima opportunità sia in ambito familiare sia in ambito professionale: emanciparsi dal dover interpretare una parte (il bravo coniuge, il collaboratore efficiente, il collega che fa team) ci porta a vivere quegli stessi ruoli in modo autenticamente creativo, lasciando agli altri l’opportunità di vederci per quel che siamo realmente, con i nostri talenti e le nostre vulnerabilità, generando così quell’eccedenza relazionale per cui nel lavoro in team, come nella vita di coppia, ci si può aprire alla creatività e alla piena autenticità.
Bibliografia
Chinchilla N., Moragas M.
2009 Artefici del nostro destino. Realizzare se stessi tra famiglia e lavoro, a cura di L. Rebuzzini, Fausto Lupetti, Bologna 2010.
Covey S.M.R.
2006 La velocità della fiducia. L’unica cosa cambia tutto, trad. it. di T. Abelli, Franco Angeli, Milano 2016.
Csíkszentmihályi M.
1997 Creatività. Il flow e la psicologia della scoperta e dell’invenzione, trad. it. di M. Simone e R. Voi, Roi, Macerata-Milano 2022.
Murphy K.
2019 L’arte di saper ascoltare. Che cosa ti perdi se non ascolti e perché è importante, trad. it. di E. Craveri, Corbaccio, Milano 2021.
Schein E.H., Schein P.
2017 Cultura d’azienda e leadership. Quinta edizione, trad. it. di S. Parmigiani, Raffaello Cortina, Milano 2018.
Terminio N.
2011 La generatività del desiderio. Legami familiari e metodo clinico, pref. di C. Pontalti, Franco Angeli, Milano.
2015 Siamo pronti per un figlio? Amarsi e diventare genitori, San Paolo, Cinisello Balsamo.
2021 Educare alla relazione. Amore, affetti, sessualità, Edizioni Dehoniane, Bologna.
2022 L’eredità creativa. Preghiera e testimonianza tra cristianesimo e psicoanalisi, pref. di M. Recalcati, Il melangolo, Genova.
2023 La promessa dell’amore. Accogliere e accompagnare le “coppie imperfette”: una lettura psicoanalitica dell’Amoris Laetitia, Effatà, Cantalupa (To).
Watzlawick P.
1983 Istruzioni per rendersi infelici, trad. it. F. Fusaro, Feltrinelli, Milano 1997.